In memoria di Piero Rattalino
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Carlo Maria Giulini, il repertorio rossiniano
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Fritz Reiner
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Quartetto Italiano
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Bruno Walter
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Van Cliburn
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Backhaus e Brahms
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Klemperer, Schumann e Ciaikovskij
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Rubinstein e Szeryng
Classic Voice n.163, Dicembre 2012

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Quel Valzer ritrovato - Amadeus n.277, Dicembre 2012
Mayer - Valse melancolique - Registrazione a cura del pianista Vincenzo Maltempo (youtube link)
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Wilhelm Kempff e l'ultimo Beethoven
Classic Voice n.162, Novembre 2012

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Ritratto di Alexis Weissenberg - The Classic Voice n.154, Luglio 2011
C'era una volta Martha - The Classic Voice n.144, Maggio 2011

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Golden boy - Evgenij Kissin - The Classic Voice n.137, Maggio 2010

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Nikita Magaloff, il pianista narratore - Amadeus, Marzo 2010

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CD mai nati - The Classic Voice n.127, Dicembre 2009

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Brendel, per l'ultima volta - The Classic Voice n.114, Novembre 2008

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La biblioteca del futuro, spartiti e digitalizzazione - Amadeus, Ottobre 2008

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Carl Czerny, musicista di razza - Amadeus, Maggio 2008

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Utopia digitale - The Classic Voice n.106, Marzo 2008
Richard Strauss, verso la melodia - Amadeus, Maggio 2007

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Jascha Heifetz, l'illusionista - Amadeus, Febbraio 2006

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Igor Stravinskij in America - Amadeus, Marzo 2004

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Sergej Rachmaninov in America - Amadeus, Novembre 2002

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Gustav Mahler, alle origini del comporre - Amadeus, Febbraio 2002

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Ricordo di Josef Hofmann
Piano time

Tra i grandi pianisti della generazione antecedente a quella nata nei primissimi anni del 1900 e che hanno fatto la storia del concertismo, forse nessun nome ricorre in maniera così magica nel ricordo e nelle parole dei colleghi di quello del polacco Josef Hofmann, interprete fino a non molti anni fa più conosciuto nella tradizione di ascolto americana che non in quella europea : Hofmann (1876 – 1957) si esibì nel suo continente d’origine solamente nella prima straordinaria parte della sua carriera di fanciullo prodigio e la sua figura cominciò ad essere conosciuta anche qui da noi grazie alle prime ristampe di dischi a 78 giri, molti dei quali erano considerati autentici pezzi da collezione. La recente edizione in 9 volumi preparata dalla casa discografica americana Marston ci permette di ascoltare direttamente l’evoluzione di una carriera prodigiosa e ci dà un valido supporto per interpretare testimonianze scritte che a volte sembrano evocare eventi miracolosi.
La conoscenza approfondita dell’arte di Hofmann da parte di storici, critici e pubblico americani, e non di quelli europei, è a mio parere elemento fondamentale in una analisi della figura di questo grande pianista. Chi si interessa alla storia dell’interpretazione pianistica del diciannovesimo secolo e consulta la non abbondante letteratura in circolazione avrà compreso molto bene come i primi commentatori si siano basati di fatto su memorie di ascolto personale di concerti pubblici e solamente in seguito sulle registrazioni discografiche. Ciò giustifica ad esempio il fatto che, almeno fino ai primi anni ’60, la scuola di pensiero europea (pensiamo tanto per cominciare al molto diffuso libro di Casella edito da Ricordi nel …) abbia glorificato quella schiera di interpreti che fa capo ai nomi di Busoni, Backhaus, Cortot, Gieseking, Fischer mentre quella americana abbia tenuto in serbo le proprie lodi a proposito di pianisti come Rachmaninov, Hofmann, Godowsky o Friedman.
Molti dei i nomi citati facevano sì parte di un “giro internazionale” che li portava ad esibirsi nei due continenti, ma è innegabile che le presenze di Hofmann, Rachmaninov e Godowsky in territorio europeo si fossero limitate ad un periodo aureo molto remoto (anche se Rachmaninov suonò in Europa con una certa regolarità anche negli anni ’30) e che le stesse presenze di Backhaus o Gieseking in territorio americano non fossero così frequenti (non parliamo poi di Cortot o di Fischer). Il discorso si complica se andiamo ad esaminare il materiale discografico esistente fino agli anni ’60 : la situazione era nettamente a vantaggio del settore europeo, dove attraverso i dischi Columbia o Decca si poteva ascoltare un nucleo importante del repertorio dei pianisti di origine europea già citati, mentre – e qui si aggancia in particolare il discorso su Hofmann – si è dovuto attendere molto tempo prima che apparissero sul mercato in forma più o meno completa i lasciti di Godowsky, Hofmann e Friedman. Caso a parte, il solo Rachmaninov potè contare su una buona documentazione della propria attività da parte della Victor, anche se gran parte del suo repertorio più impegnativo e soprattutto la documentazione dal vivo della sua attività concertistica sono purtroppo inesistenti. Sempre nel novero dei grandi pianisti “storici” che ebbero un riconoscimento indiscusso sia negli Stati Uniti che in Europa troviamo infine Schnabel, anche qui grazie alla documentazione fondamentale rappresentata dall’incisione completa delle Sonate di Beethoven.
Josef (Jòzef Kazimierz) Hofmann nasce a Pogorze il 20 gennaio del 1876, figlio di Kazimierz (1842 – 1911) un professore del Conservatorio e direttore all’Opera di Varsavia e di una nota cantante, Matylda.
Le notizie sui primi debutti di Hofmann in pubblico sono piuttosto contraddittorie se ci riferiamo a diverse fonti d’informazione. Alcuni fanno risalire all’età di 6 anni il primo recital in Polonia con un programma comprendente un nucleo di Sonate di Beethoven. Altri parlano di una esecuzione del terzo Concerto di Beethoven al quale avrebbe partecipato Anton Rubisntein come spettatore, predicendo al giovane pianista un grande futuro. A 10 anni, il 9 giugno 1886, Hofmann esordisce a Londra suscitando sensazione. A questo debutto seguono altri quattro recital (fino al 14 novembre 1887) che comprendono musiche di Beethoven, ivi inclusa la Sonata al chiaro di luna e il primo Concerto e ancora Mendelssohn, Chopin, Schumann. Il ragazzo entusiasma poi il pubblico di Berlino eseguendo il quinto di Beethoven sotto la direzione di Bulow [secondo Henry C.Lahee (in “Famous pianists of today” – 1900), in quell’occasione Josef improvisò su un tema di Moszkowski davanti all’autore]. A 11 anni (il 29 novembre del 1887) il debutto negli Stati Uniti, con una irreale figura di bambino in abito da marinaretto proiettata sul grande palcoscenico del vecchio Metropolitan, ad eseguire il primo Concerto di Beethoven, delle variazioni di Rameau, una Bereceuse e un Valzer dello stesso Hofmann, alcuni pezzi du Chopin e la Polacca per pianoforte e orchestra di Weber-Liszt. Nel 1888 Hofmann suona il Concerto in sol min. e il Capriccio di Mendelssohn e il terzo e quarto Concerto di Beethoven. Fino al novembre del 1888 un totale di 52 concerti in territorio americano provoca l’intervento della Società per la prevenzione della crudeltà verso i minori e la conseguente offerta di 50.000 dollari da parte del miliardario Alfred C.Clark allo scopo di interrompere i concerti a favore di un lungo periodo di studio, almeno fino al compimento del diciottesimo anno. La scelta cadde prima su un campione della musica pianistica d’intrattenimento, il polacco Moritz Moszkowski (dal quale Hofmann trasse poi uno dei suoi cavalli di battaglia, il Capriccio Spagnolo), poi su Anton Rubinstein, il già leggendario interprete russo che forse rappresentò nell’800 l’unica vera alternativa al mito rappresentato da Liszt. Rubinstein considerò il giovane Josef come il suo migliore allievo, e Hofmann dal canto suo non si stancò mai di ricordare il proprio maestro e la grandezza delle sue interpretazioni del repertorio classico. I ricordi di Hofmann sono per noi preziosi perché confermano alcune importanti caratteristiche del pianismo di Rubinstein : scarsa precisione nel dettaglio tecnico compensata da un enorme potenza (e conservazione di una stupenda qualità di suono anche nel “fortissimo”) e da una straordinaria penetrazione nel carattere del pezzo eseguito, con particolare evidenza nel grande repertorio. Tutto ciò supportato da una straordinaria conformazione fisica della mano (“Il suo mignolo era grande quanto il mio pollice – spiega Hofmann – le sue dita erano perfettamente piatte alle estremità e la mano estremamente grande”).
La scarsa precisione del dettaglio era anche legata, secondo Hofmann, a una caratteristica che spesso notiamo nelle interpretazioni di alcuni altri grandi pianisti di epoca successiva, in particolare Horowitz e Cortot : la propensione al rischio. In altre parole, e parlando ovviamente di esecutori in possesso di una tecnica molto avanzata e di grandi doti interpretative, vi sono stati e vi sono pianisti che rischiano sul lato tecnico allo scopo di cercare di raggiungere un particolare apice espressivo, e altri (pensiamo a Michelangeli o a Rachmaninov ad esempio) che tengono sotto controllo spasmodicamente il rispetto del dettaglio a scapito magari del raggiungimento di momenti di straordinaria ebbrezza esecutiva. Certo, senza questa propensione al rischio non avremmo alcuni tra i più appassionanti lasciti discografici – ripresi o meno da esecuzioni pubbliche – che vanno dai climax raggiunti dai già citati Horowitz (la Sonata di Liszt, il finale della Vallée d’Obermann e dell’Isle Joyeuse, il Presto Passionato di Schumann ...) e Cortot (i Davidsbundler di Schumann, le Ballate di Chopin ...) ai più isolati ma non meno spettacolari esempi di Simon Barere o di Emil Gilels.
Hofmann frequentò le lezioni di Rubinstein tra il 1892 e il 1894, unico allievo del grande musicista. A 18 anni, e con l’approvazione del maestro, Hofmann riprese l’interrotta carriera di concertista, partendo innanzitutto dalla Russia, dove ben presto divenne una leggenda vivente. Un programma tenuto a Mosca il 4 marzo del 1897 ci informa sul nuovo orizzonte degli interessi del pianista :
Bach – d’Albert : Preludio e Fuga in re magg.
Schumann : Sonata n.1 in fa# min.op.11
Mendelssohn : Romanza senza parole (Gondoliera) e Scherzo in fa# min.
Chopin : Improvviso in fa# magg. op.36 e Sonata n.2 in si bem.min.op.35
Liszt : Studio da concerto “Gnomenreigen”
Rubinstein : Barcarola n.5 in la min.
Wagner-Liszt : Ouverture dal Tannhauser
Il pubblico americano fu più difficile da riconquistare (pochi erano i veri appassionati conoscitori che si ricordavano dell’allora fanciullo prodigio) ma ben presto il nome di Hofmann riempì le cronache musicali di giornali e riviste e il mito si ristabilì con ancora più convincente perentorietà.
Un esame dei programmi proposti per una ventina d’anni a partire da quello del 3 marzo 1898 alla Carnegie Hall mostra sempre nuove gemme aggiunte al repertorio :
Bach-Busoni : Ciaccona
Beethoven : Sonate opp.27 n.2, 31 nn.2 e 3, 57, 101, 106 [i primi due movimenti], 32
Variazioni in do min.
Chopin : Ballate nn.2 e 3, Sonata op.58, Polacche op.44 e 53, Scherzi opp.31 e 39, Barcarola
Godowsky : Fledermaus
Haydn : Variazioni in fa min.
Liszt : Rapsodie ungheresi nn.2, 6, 11, Funerailles, Mephisto Valzer, Reminiscences de Don
Juan, Venezia e Napoli
Mendelssohn : Rondò capriccioso op.14
Mozart : Rondò K.511
Schubert-Liszt :Erlkoenig
Schumann : Carnaval, Studi sinfonici
Weber : Sonata op.39
L’inizio non fu facile, anche perché Hofmann si ripresentò davanti al pubblico americano con uno stile che allora veniva considerato troppo asciutto. Se leggiamo ad esempio alcune critiche del famoso ed esigente giornalista Richard Aldrich, ci accorgiamo di come Hofmann fosse destinato a cambiare non poco il gusto del pubblico e della stessa critica. La recensione del recital del 20 novembre 1904 alla Carnegie Hall è significativa a questo riguardo. Aldrich non esita a scrivere, in maniera piuttosto contraddittoria : “Le apparizioni di Hofmann successive a quelle del bambino prodigio di 17 anni fa hanno reso evidente il fatto che egli non si è trasformato veramente in un grande artista e che nessun indizio ci dice che così sarà in futuro. E’diventato un eccellente pianista nel senso moderno della parola, cioè un virtuoso dalla tecnica molto sviluppata, con grande forza, agilità e conoscenza delle diverse possibilità tonali e dinamiche dei moderni strumenti e l’intelligenza di un musicista cresciuto nella maniera corretta e pieno di rispetto verso la propria arte. Ma poche tracce rimangono dell’alata immaginazione, dell’irresistibile temperamento, della visione poetica propri del grande artista. Vi furono pochi momenti ieri durante i quali egli ci commosse veramente. Il suo suono non è né ampio né caldo (!) né riesce a controllare un’ampia varietà di colori. E’frequentemente secco. Il pianista è ancora troppo entusiasta degli esagerati contrasti dinamici che sfoggiava da ragazzo… e questa esagerazione è venuta a galla soprattutto nella Sonata Waldstein di Beethoven, eseguita con intelligenza. Nonostante alcuni momenti molto belli egli non riuscì a sostenere la grandezza dei punti più importanti della Sonata. Il Preludio e Fuga [in mi minore op.35 n.1] di Mendelssohn è stato reso sapientemente ma in maniera scolastica, con una lucida esposizione della struttura polifonica. I pezzi di Chopin erano esenti da sentimentalismo, ma allo stesso tempo mancavano di poesia. Lo Scherzo in si minore veniva affrontato con grande bravura, ma non era sempre chiaro e i dettagli nella Berceuse suonavano troppo marcati.
Del gruppo di pezzi che hanno chiuso il recital, la Melodia russa [la celebre Melodia in fa] di Rubinstein è stata la più significativa, suonata con uno stile magniloquente e nobile , nello spirito del suo Maestro. Vi fu il bis di un brillante Capriccio di Leschetizky. Per quanto riguarda la Fantasia sul Don Giovanni di Liszt, venne eseguita con grande forza e velocità: non è nella natura di Hofmann fare di più.”
Forza e velocità : ecco dunque i due soli parametri che paiono giungere all’orecchio dell’ascoltatore colto nel 1904. La recensione di Aldrich contiene alcune verità che possono essere confermate dall’ascolto delle incisioni acustiche che Hofmann effettuò in quegli anni: la Berceuse è risolta infatti con la tendenza ad esagerare la parte virtuosistica, sgranando ad elevata velocità tutte le note nei passaggi rapidi. Ma lo Scherzo in si minore è perfetto e semmai sbalordisce per la sicurezza, la forza, la velocità. L’incisione della Waldstein di molti anni più tarda (siamo nel 1938 al concerto celebrativo tenuto al Curtis Institute) è semmai ancora retrodatata e troppo romantica, quindi con caratteristiche opposte a quelle rilevate dal gusto di Aldrich, ma quale bellezza di colori e quale virtuosismo nei passaggi più ardui !
Solamente tre anni più tardi, dopo un nuovo recital alla Carnegie tenuto il 27 ottobre 1907, Aldrich si riscalda e ammette di trovare in Hofmann “un artista più maturo per quanto riguarda il lato emotivo, un artista di alti ideali e di grande forza intellettuale e tecnica”. Gli aggettivi cominciano a farsi più entusiasti per l’esecuzione della “111” di Beethoven, il numero di apertura del recital, e soprattutto per la Fantasia di Schumann : “una lettura nobile e bella, condotta secondo un grande senso della forma e infiammata dal fuoco e dalla passione di un giovane romantico”. Analoghe parole vengono spese per la successiva esecuzione di 25 Preludi di Chopin [i 24 dell’op.28 e l’op.45], ancora visti da Aldrich secondo l’ottica tutta romantica della raccolta di pagine sparse “che non richiedono necessariamente un esecuzione integrale”. In questo repertorio e nei pezzi di bravura del finale (il Sogno d’amore e la Campanella di Liszt), Aldrich trova improvvisamente che “il suono è ricco, con molti colori, sottili nuances, sempre bello anche se non sempre sensuale”. E riconosce uno dei parametri universalmente riconosciuti dell’arte di Hofmann : “E’un grande piacere e sollievo ascoltare un pianista con un senso del ritmo così infallibile”. “Un pianista che oggi, a 30 anni, mostra una grande abbondanza di risorse … un artista in continua crescita e sviluppo” conclude Aldrich, contraddicendo le funeste previsioni della critica di tre anni prima.
Nei concerti successivi si assiste a un crescendo di elogi. Nella esecuzione della Sonata in si minore di Liszt (29 ottobre 1913) “Hofmann diede libero sfogo a tutte le sue risorse con una intensità, convinzione e profondità di intenti che gettarono luce su ogni nota e ne rivelarono ogni possibile significato… una esecuzione che deve certamente avere elettrizzato gli ammiratori di questo pezzo.” E finalmente vengono riconosciuti al pianista “un meraviglioso controllo del suono, un raffinato pianissimo, delicatezza, chiarezza e corpo del tocco, varietà e bellezza dei colori, sottile gradazione delle dinamiche, senso delle proporzioni ….” Si può forse chiedere di più a un pianista?
E’ davvero un peccato che nessuna delle esecuzioni della “111” o della Fantasia di Schumann o della Sonata di Liszt siano state registrate più tardi su acetati (la registrazione su dischi acustici era impossibile allora per motivi di lunghezza, come abbiamo già detto). Non stento a credere ciò che mi disse una volta Jorge Bolet a proposito del suo più impressionante ricordo musicale : l’ultimo accordo in do maggiore della “111” suonato da Hofmann alla Carnegie Hall.
Sarebbe interessante dilungarci sull’opinione di Aldrich relativa ad altri grandi della tastiera (lo faremo magari in qualche altra occasione) : si pensi che la raccolta delle sue critiche registra,nel mese di novembre di quello stesso 1913, due recital di Paderewski e di Backhaus. Padereweski risulta ancora insuperabile per il fraseggio e la bellezza dei colori persino nella allora raramente eseguita Sonata op.109 di Beethoven, nel Carnaval, nelle mazurke e nella Sonata op.35 di Chopin; Backhaus sconvolge già allora per il perfetto controllo tecnico e la profondità della sua “111” o per la perfetta resa di una pagina allora pochissimo eseguita come la “Wanderer” di Schubert.
E pochi giorni prima di un recital di Hofmann del 26 gennaio 1918 dedicato interamente a musicisti-miniaturisti americani come Clayton Johns, Rubin Goldmark, Edward Royce, Daniel Gregory Mason, Reginald De Koven, Fannie Dillon, H.Beach e Alexander McFayden, Aldrich paragona il suono di Josef a quello del collega e amico Rachmaninov, che aveva suonato un mese prima. “In Hofmann vi è colore, incandescenza; non in Rachmaninov, il cui suono negli accordi è come un macigno di granito e la sua cantilena non è certo di velluto”.
Alla fine degli anni ’20, quando il giovane Horowitz debuttava in America, Hofmann veniva riconosciuto da tutti i più grandi pianisti come il maggiore esponente di quella che più tardi doveva essere riconosciuta come la “Golden age of piano playing”. E il massimo estimatore era proprio l’esigentissimo Sergei Rachmaninov, che pure aveva dedicato a Hofmann il proprio terzo concerto senza avere la soddisfazione di sentirlo mai eseguire dal collega.
La carriera di Hofmann a partire dall’inizio degli anni ’20 si svolge quasi interamente negli Stati Uniti (tranne due parentesi polacche nel 1935 e 1938) e vede il progressivo concentrarsi del repertorio verso le grandi pietre miliari del classicismo e romanticismo pianistico e la conservazione di un certo numero di cavalli di battaglia che resteranno per sempre all’interno delle proposte pubbliche del pianista (come l’onnipresente Preludio in do# minore di Rachmaninov che ci è giunto anche in una versione filmata).
Ecco dunque che compaiono nuovi titoli su alcuni dei quali abbiamo le preziose testimonianze scritte di famosi pianisti o, per nostra fortuna, un lascito discografico pur limitato alla ripresa dal vivo o all’incisione su dischi a 78 giri.
Bach : Fantasia Cromatica e Fuga
Brahms : Variazioni-Haendel op.24
Beethoven : Sonate op.53, 110, 111
Chopin : Preludi op.28, Andante e Polacca op.22, quarta Ballata
Schumann : Fantasia op.17, Carnevale di Vienna op.26, Kreisleriana op.16, Sonata n.3 op.14
L’esame di questo repertorio è molto interessante perché – tra l’altro – potrebbe innescare un utile studio sull’influenza che i recital di Hoffmann ebbero sul più giovane Horowitz. Ascoltando il lascito dell’Horowitz degli anni ’80, ad esempio, compaiono diversi momenti – emblematica è la quarta Ballata di Chopin – nei quali è palese l’impatto che il pianista polacco ebbe sul virtuoso di Odessa. Altre scelte di repertorio piuttosto inusuali come la terza Sonata di Schumann vanno secondo me collocate sempre in una mai confessata ammirazione da parte di Horowitz nei confronti di Hofmann.
Dopo il famoso recital del 7 aprile 1938 alla Casimir Hall del Curtis Institute di Filadelfia, che ci è rimasto in disco, si è soliti parlare di declino di un’arte interpretativa che sembrava avere raggiunto i massimi livelli. L’esame delle incisioni apparse anche recentemente da parte della Marston confermano solo in parte questa visione piuttosto miseranda di un pianista dedito all’alcol che non riusciva più a venire a capo dei suoi più famosi cavalli di battaglia. Con buona pace di Arthur Rubinstein, che nelle sue memorie irride a un Hofmann piuttosto brillo alla fine di una serata conviviale, possiamo affermare che molti pianisti di oggi farebbero carte false pur di possedere la tecnica e il suono che Hofmann sfoggia nelle tardive esecuzioni del quarto e del quinto di Beethoven o dei Concerti di Schumann e Chopin.
Josef Hofmann morì quasi dimenticato a Los Angeles il 16 febbraio 1957, a 81 anni.
La sua leggenda è destinata per noi a rimanere tale e a incidersi in maniera perenne negli annali della storia dell’interpretazione pianistica.
La discografia
Nella valutazione complessiva di Hofmann attraverso il suo lascito discografico va oggi tenuto conto innanzitutto di un fattore importante, vale a dire la collocazione storica del pianista : è fuori dubbio che non esistano testimonianze sonore paragonabili a quelle lasciate da Hofmann nei primi 25 anni del ‘900. E’un periodo durante il quale i contemporanei di Hofmann si chiamavano Busoni, Godowsky e Rachmaninov. Forse il solo Cortot, che incise meravigliosamente Chopin e Schumann alla fine degli anni ’20, può essere paragonato a Hofmann per la bellezza e l’incisività del suono. Ma nessuno ha eguagliato, né allora, né più tardi quando sorgevano all’orizzonte gli astri di nome Horowitz, Barere, il complesso di doti puramente tecniche (compresa la qualità del timbro, ben s’intende) che le incisioni di Hofmann ci rivelano con stupefacente verità.
Con la pubblicazione da parte della Marston dell’ottavo e penultimo volume della discografia completa di Hofmann, possiamo dire di essere in grado di tracciare un giudizio definitivo, seppur parziale, dell’arte del grande pianista. Parziale soprattutto perché mancante del nucleo che formava il grande repertorio di Hofmann (la “111” o l’Appassionata di Beethoven, la Fantasia di Schumann e via dicendo). La mancanza di queste registrazioni non è facilmente spiegabile : da un lato è vero che le compagnie discografiche che operavano in America erano quasi esclusivamente orientate a registrare il piccolo repertorio, quello che entrava possibilmente in una singola facciata di 78 giri. Questo spiega come mai anche la grande edizione delle registrazioni di Rachmaninov contenga pochi elementi di quella categoria (il Carnaval di Schumann ad esempio); la stessa cosa si può dire a riguardo della mancanza di alcuni grandi capitoli del repertorio del giovane Horowitz (ad esempio la “Dante Sonata”). Vi era poi una documentata difficoltà a trattare con le case discografiche in termini di royalties, e qui possiamo ipotizzare come le richieste di Hofmann potessero essere superiori alla media, con il risultato finale di un mancato accordo tra le parti e una irrimediabile perdita per i posteri. Ancora, la presenza nel catalogo Marston di numerosi “takes” sperimentali ci fornisce preziose informazioni sui dubbi che dovevano assillare il pianista e sulla sua sostanziale scarsa fiducia nel mezzo discografico. Infine, il periodo d’oro dell’artista – diciamo tra il 1895 e il 1925 – fu quello durante il quale mancavano effettivamente le tecnologie adatte a riversare su disco esecuzioni superiori a una manciata di minuti. Ecco perchè quasi nulla su larga scala ci rimane di altri pianisti mitici come Busoni, famosi come Hofmann per le loro interpretazioni dei grandi capisaldi della letteratura classica e romantica. Il già citato Lahee scriveva del resto già nel 1900 : “Il modo di suonare di Hofmann è stato paragonato a quello di Rubinstein in quanto egli si sente più a proprio agio nelle composizioni che richiedono una interpretazione profonda ed appassionata piuttosto che nella più delicata musica da salotto”. E aggiunge : “Hofmann possiede una tecnica superiore a quella di Rubinstein ed è stato messo sullo stesso piano di D’Albert e di Rosenthal per quanto riguarda gli sviluppi in senso orchestrale del timbro pianistico”.
Tra i lasciti discografici più famosi troviamo la registrazione del “Concerto del Giubileo”, tenuto da Hofmann al Metropolitan il 28 novembre del 1937, cinquant’anni dopo il suo storico debutto nella stessa sala. Il recital venne fortunosamente registrato anche se con apparecchi dell’epoca non professionali (ma perché la stessa cosa non accadde con tanti altri eventi di quel tipo?) e pubblicato dalla Columbia solamente nel 1956 dopo una lunga trattativa con il pianista.
Altrettanto importante è la registrazione del recital del 1938 a Filadelfia, già da noi ricordato.
Nel complesso delle registrazioni che vanno dal 1903 al 1956 vi sono alcune perle che da sole potrebbero testimoniare della grandezza del pianista. Esecuzioni da leggenda rimangono ad esempio quelle dei Valzer op.64 n.1 e op.42, l’Andante e Polacca op.22, il Notturno op.27 n.2, la Polacca op.40 n.1, la Berceuse e la prima e quarta Ballata di Chopin, il Capriccio Spagnolo di Moszkowski (dove emergono soprattutto le qualità di un fantastico jeu perlé, di una insuperata tecnica delle note ribattute, di una rara eleganza del fraseggio). E ancora il fantastico Erlkoenig di Schubert-Liszt, Kreisleriana di Schumann, Venezia e Napoli e il Sogno d’amore n.3 di Liszt e ancora di Liszt la Campanella e lo studio “Waldesrauschen”.
Particolare attenzione va dedicata poi al terzo e quarto Concerto di Rubinstein, dove i reperti sonori ci danno un’esatta misura del come vadano interpretate queste pagine del musicista russo.
Le incisioni radiofoniche degli anni ’40 erano già state bollate da Chasins come un pessimo servizio nei confronti dell’arte del pianista, in quegli anni oramai in declino.
In realtà, andando oggi ad ascoltare tutti questi takes, riuniti negli ultimi volumi dell’edizione Marston, ci accorgiamo che di disastri ve ne sono ben pochi, che la tecnica digitale di Hofmann è capace ancora di miracoli. Particolarmente interessanti in questi anni sono le già citate riprese del quarto e quinto Concerto di Beethoven con direttori del calibro di Mitropoulos o Ormandy e gli scampoli del grande repertorio riproposti per il ciclo delle “Bell telephone hours” dove si riascoltano con emozione le pagine di Chopin, Mendelssohn, Rachmaninov che non erano mai uscite dal repertorio del grande pianista.
“Un maestro ancorato alla più nobile tradizione”
In questa breve intervista rilasciata alla rivista “Etude” negli anni ’20, Hofmann si rivela un pedagogo esigente ma anche contrario allo studio puramente meccanico dello strumento, forse perchè dotato fin dalla nascita di una tecnica naturale di portata impressionante.
Ci può parlare dell’evoluzione della tecnica pianistica a partire dai tempi di Hummel? La tecnica si è evoluta anche con l’evolversi dello strumento?
Hummel è un buon punto d’inizio per il nostro discorso perché fu veramente un grande virtuoso : il suo stile esecutivo venne preso a modello dai contemporanei.e in un certo senso egli fece da ponte tra il vecchio e il nuovo modo di suonare il pianoforte. Per quanto riguarda i cambiamenti nella tecnica pianistica dovuti all’evoluzione dello strumento, direi che il problema sta a monte : sono state le sempre maggiori richieste dei compositori di musica pianistica a determinare i cambiamenti nella costruzione dello strumento e da qui parte poi il fenomeno dell’evoluzione della tecnica. In tal senso sono dell’opinione che solamente il compositore sia il vero responsabile dei cambiamenti non solo della tecnica pianistica ma anche dell’interpretazione.
Una delle più discutibili differenze tra la “vecchia” e la “nuova” tecnica sta forse nel fatto che la tecnica moderna tende purtroppo a diventare fine a se stessa. Giudicando dalla maniera in cui lavorano certi giovani ambiziosi pianisti sembra che il loro unico scopo sia quello di diventare come delle macchine, senza una vera consapevolezza musicale. D’altra parte questa tendenza ha anche prodotto risultati considerevoli. E’fuori dubbio che si debba ad alcuni ingegnosi investigatori di formule tecniche la possibilità di ottenere nuovi effetti di polifonia, di economizzare gli sforzi e i movimenti della braccia, di analizzare scientificamente le difficoltà e di raggiungere tanti altri risultati che concorrono a raggiungere uno stile ottimale di esecuzione. Una volta, pur ricorrendo all’esercizio tecnico, si dedicava più tempo allo studio dei caratteri musicali di una composizione. Dobbiamo essere veramente contenti se le eccellenti idee che stanno alla base di alcuni moderni metodi tecnici vengono utilizzate solamente per assicurare un risultato finale dal punto di vista artistico. Ma è impossibile raggiungere appieno l’arte di suonare il pianoforte se non si cancellano nell’esecuzione le tracce dello studio puramente tecnico, come la pittura si sovrappone al disegno preparatorio di una artista. Ecco perché gli studenti devono assolutamente evitare di ridursi a delle efficienti macchine.
La tecnica lisztiana verrà mai sorpassata?
Dal punto di vista strettamente tecnico forse non possiamo parlare di veri e propri progressi, anche se risulta chiaro che per suonare esattamente come Liszt bisognerebbe avere la sua stessa personalità e individualità. In questo senso è inutile paragonare il modo di suonare di qualsiasi pianista di oggi con quello di Liszt. Inoltre bisogna aggiungere che molte caratteristiche della tecnica di Liszt erano espressione della sua inimitabile personalità: in un certo senso Liszt non è stato mai eguagliato, ma sono sicuro che molti pianisti del giorno d’oggi avrebbero stupito il grande Maestro con la loro tecnica.
Qual è la vera importanza dello studio meramente tecnico?
Premetto che mi sono sempre opposto ai cosiddetti “metodi” senza che questi vengano adattati dall’insegnante ad ogni specifico allievo. Per quanto riguarda la pura tecnica bisogna distinguere secondo me ciò che si intende per vero “studio” e ciò che normalmente viene chiamato “esercizio”. Ambedue queste attività richiedono energia e tempo e la differenza tra i due termini sta nella qualità e nel tempo che l’allievo dedica ad entrambe le azioni. Esercitarsi significa ripetere la stessa cosa tante volte, con la massima attenzione alla semplice esattezza delle note, alla diteggiatura e così via. Normalmente ciò comporta un grande dispendio di tempo e un modesto investimento intellettuale. Lo studio implica invece una sorveglianza intellettiva al massimo grado, presupponendo l’assoluta accuratezza degli elementi tecnici sopra ricordati ma anche la più grande attenzione verso quegli elementi che erroneamente qualcuno ritiene estranei alla tecnica, come la cura del suono, le variazioni dinamiche e ritmiche e così via. Qualcuno ha in sé il felice dono di combinare i due elementi contemporaneamente, ma è un fatto piuttosto raro.
Se di studio si parla, e non di semplice esercizio, un elemento tecnico come quello insito nelle scale è ovviamente indispensabile, tutti i pedagoghi concordano su questo. E quindi oltre alle scale sarà necessario “studiare” tutte quelle altre forme di tecnica che normalmente vengono solo “esercitate”. L’esercizio fine a se stesso è come una corsa automobilistica su un percorso chiuso : dopo innumerevoli giri e un enorme dispendio di energie il pilota si ritrova esattamente al punto di partenza. Così il pianista non raggiunge assolutamente l’obiettivo che si era posto. La proporzione tra attività mentale e fisica determina secondo me la distinzione tra semplice esercizio e vero studio. In altre parole, la proporzione secondo la quale il vero studio rientra nell’attività quotidiana dello studente determina il successo finale.
La conoscenza approfondita dell’arte di Hofmann da parte di storici, critici e pubblico americani, e non di quelli europei, è a mio parere elemento fondamentale in una analisi della figura di questo grande pianista. Chi si interessa alla storia dell’interpretazione pianistica del diciannovesimo secolo e consulta la non abbondante letteratura in circolazione avrà compreso molto bene come i primi commentatori si siano basati di fatto su memorie di ascolto personale di concerti pubblici e solamente in seguito sulle registrazioni discografiche. Ciò giustifica ad esempio il fatto che, almeno fino ai primi anni ’60, la scuola di pensiero europea (pensiamo tanto per cominciare al molto diffuso libro di Casella edito da Ricordi nel …) abbia glorificato quella schiera di interpreti che fa capo ai nomi di Busoni, Backhaus, Cortot, Gieseking, Fischer mentre quella americana abbia tenuto in serbo le proprie lodi a proposito di pianisti come Rachmaninov, Hofmann, Godowsky o Friedman.
Molti dei i nomi citati facevano sì parte di un “giro internazionale” che li portava ad esibirsi nei due continenti, ma è innegabile che le presenze di Hofmann, Rachmaninov e Godowsky in territorio europeo si fossero limitate ad un periodo aureo molto remoto (anche se Rachmaninov suonò in Europa con una certa regolarità anche negli anni ’30) e che le stesse presenze di Backhaus o Gieseking in territorio americano non fossero così frequenti (non parliamo poi di Cortot o di Fischer). Il discorso si complica se andiamo ad esaminare il materiale discografico esistente fino agli anni ’60 : la situazione era nettamente a vantaggio del settore europeo, dove attraverso i dischi Columbia o Decca si poteva ascoltare un nucleo importante del repertorio dei pianisti di origine europea già citati, mentre – e qui si aggancia in particolare il discorso su Hofmann – si è dovuto attendere molto tempo prima che apparissero sul mercato in forma più o meno completa i lasciti di Godowsky, Hofmann e Friedman. Caso a parte, il solo Rachmaninov potè contare su una buona documentazione della propria attività da parte della Victor, anche se gran parte del suo repertorio più impegnativo e soprattutto la documentazione dal vivo della sua attività concertistica sono purtroppo inesistenti. Sempre nel novero dei grandi pianisti “storici” che ebbero un riconoscimento indiscusso sia negli Stati Uniti che in Europa troviamo infine Schnabel, anche qui grazie alla documentazione fondamentale rappresentata dall’incisione completa delle Sonate di Beethoven.
Josef (Jòzef Kazimierz) Hofmann nasce a Pogorze il 20 gennaio del 1876, figlio di Kazimierz (1842 – 1911) un professore del Conservatorio e direttore all’Opera di Varsavia e di una nota cantante, Matylda.
Le notizie sui primi debutti di Hofmann in pubblico sono piuttosto contraddittorie se ci riferiamo a diverse fonti d’informazione. Alcuni fanno risalire all’età di 6 anni il primo recital in Polonia con un programma comprendente un nucleo di Sonate di Beethoven. Altri parlano di una esecuzione del terzo Concerto di Beethoven al quale avrebbe partecipato Anton Rubisntein come spettatore, predicendo al giovane pianista un grande futuro. A 10 anni, il 9 giugno 1886, Hofmann esordisce a Londra suscitando sensazione. A questo debutto seguono altri quattro recital (fino al 14 novembre 1887) che comprendono musiche di Beethoven, ivi inclusa la Sonata al chiaro di luna e il primo Concerto e ancora Mendelssohn, Chopin, Schumann. Il ragazzo entusiasma poi il pubblico di Berlino eseguendo il quinto di Beethoven sotto la direzione di Bulow [secondo Henry C.Lahee (in “Famous pianists of today” – 1900), in quell’occasione Josef improvisò su un tema di Moszkowski davanti all’autore]. A 11 anni (il 29 novembre del 1887) il debutto negli Stati Uniti, con una irreale figura di bambino in abito da marinaretto proiettata sul grande palcoscenico del vecchio Metropolitan, ad eseguire il primo Concerto di Beethoven, delle variazioni di Rameau, una Bereceuse e un Valzer dello stesso Hofmann, alcuni pezzi du Chopin e la Polacca per pianoforte e orchestra di Weber-Liszt. Nel 1888 Hofmann suona il Concerto in sol min. e il Capriccio di Mendelssohn e il terzo e quarto Concerto di Beethoven. Fino al novembre del 1888 un totale di 52 concerti in territorio americano provoca l’intervento della Società per la prevenzione della crudeltà verso i minori e la conseguente offerta di 50.000 dollari da parte del miliardario Alfred C.Clark allo scopo di interrompere i concerti a favore di un lungo periodo di studio, almeno fino al compimento del diciottesimo anno. La scelta cadde prima su un campione della musica pianistica d’intrattenimento, il polacco Moritz Moszkowski (dal quale Hofmann trasse poi uno dei suoi cavalli di battaglia, il Capriccio Spagnolo), poi su Anton Rubinstein, il già leggendario interprete russo che forse rappresentò nell’800 l’unica vera alternativa al mito rappresentato da Liszt. Rubinstein considerò il giovane Josef come il suo migliore allievo, e Hofmann dal canto suo non si stancò mai di ricordare il proprio maestro e la grandezza delle sue interpretazioni del repertorio classico. I ricordi di Hofmann sono per noi preziosi perché confermano alcune importanti caratteristiche del pianismo di Rubinstein : scarsa precisione nel dettaglio tecnico compensata da un enorme potenza (e conservazione di una stupenda qualità di suono anche nel “fortissimo”) e da una straordinaria penetrazione nel carattere del pezzo eseguito, con particolare evidenza nel grande repertorio. Tutto ciò supportato da una straordinaria conformazione fisica della mano (“Il suo mignolo era grande quanto il mio pollice – spiega Hofmann – le sue dita erano perfettamente piatte alle estremità e la mano estremamente grande”).
La scarsa precisione del dettaglio era anche legata, secondo Hofmann, a una caratteristica che spesso notiamo nelle interpretazioni di alcuni altri grandi pianisti di epoca successiva, in particolare Horowitz e Cortot : la propensione al rischio. In altre parole, e parlando ovviamente di esecutori in possesso di una tecnica molto avanzata e di grandi doti interpretative, vi sono stati e vi sono pianisti che rischiano sul lato tecnico allo scopo di cercare di raggiungere un particolare apice espressivo, e altri (pensiamo a Michelangeli o a Rachmaninov ad esempio) che tengono sotto controllo spasmodicamente il rispetto del dettaglio a scapito magari del raggiungimento di momenti di straordinaria ebbrezza esecutiva. Certo, senza questa propensione al rischio non avremmo alcuni tra i più appassionanti lasciti discografici – ripresi o meno da esecuzioni pubbliche – che vanno dai climax raggiunti dai già citati Horowitz (la Sonata di Liszt, il finale della Vallée d’Obermann e dell’Isle Joyeuse, il Presto Passionato di Schumann ...) e Cortot (i Davidsbundler di Schumann, le Ballate di Chopin ...) ai più isolati ma non meno spettacolari esempi di Simon Barere o di Emil Gilels.
Hofmann frequentò le lezioni di Rubinstein tra il 1892 e il 1894, unico allievo del grande musicista. A 18 anni, e con l’approvazione del maestro, Hofmann riprese l’interrotta carriera di concertista, partendo innanzitutto dalla Russia, dove ben presto divenne una leggenda vivente. Un programma tenuto a Mosca il 4 marzo del 1897 ci informa sul nuovo orizzonte degli interessi del pianista :
Bach – d’Albert : Preludio e Fuga in re magg.
Schumann : Sonata n.1 in fa# min.op.11
Mendelssohn : Romanza senza parole (Gondoliera) e Scherzo in fa# min.
Chopin : Improvviso in fa# magg. op.36 e Sonata n.2 in si bem.min.op.35
Liszt : Studio da concerto “Gnomenreigen”
Rubinstein : Barcarola n.5 in la min.
Wagner-Liszt : Ouverture dal Tannhauser
Il pubblico americano fu più difficile da riconquistare (pochi erano i veri appassionati conoscitori che si ricordavano dell’allora fanciullo prodigio) ma ben presto il nome di Hofmann riempì le cronache musicali di giornali e riviste e il mito si ristabilì con ancora più convincente perentorietà.
Un esame dei programmi proposti per una ventina d’anni a partire da quello del 3 marzo 1898 alla Carnegie Hall mostra sempre nuove gemme aggiunte al repertorio :
Bach-Busoni : Ciaccona
Beethoven : Sonate opp.27 n.2, 31 nn.2 e 3, 57, 101, 106 [i primi due movimenti], 32
Variazioni in do min.
Chopin : Ballate nn.2 e 3, Sonata op.58, Polacche op.44 e 53, Scherzi opp.31 e 39, Barcarola
Godowsky : Fledermaus
Haydn : Variazioni in fa min.
Liszt : Rapsodie ungheresi nn.2, 6, 11, Funerailles, Mephisto Valzer, Reminiscences de Don
Juan, Venezia e Napoli
Mendelssohn : Rondò capriccioso op.14
Mozart : Rondò K.511
Schubert-Liszt :Erlkoenig
Schumann : Carnaval, Studi sinfonici
Weber : Sonata op.39
L’inizio non fu facile, anche perché Hofmann si ripresentò davanti al pubblico americano con uno stile che allora veniva considerato troppo asciutto. Se leggiamo ad esempio alcune critiche del famoso ed esigente giornalista Richard Aldrich, ci accorgiamo di come Hofmann fosse destinato a cambiare non poco il gusto del pubblico e della stessa critica. La recensione del recital del 20 novembre 1904 alla Carnegie Hall è significativa a questo riguardo. Aldrich non esita a scrivere, in maniera piuttosto contraddittoria : “Le apparizioni di Hofmann successive a quelle del bambino prodigio di 17 anni fa hanno reso evidente il fatto che egli non si è trasformato veramente in un grande artista e che nessun indizio ci dice che così sarà in futuro. E’diventato un eccellente pianista nel senso moderno della parola, cioè un virtuoso dalla tecnica molto sviluppata, con grande forza, agilità e conoscenza delle diverse possibilità tonali e dinamiche dei moderni strumenti e l’intelligenza di un musicista cresciuto nella maniera corretta e pieno di rispetto verso la propria arte. Ma poche tracce rimangono dell’alata immaginazione, dell’irresistibile temperamento, della visione poetica propri del grande artista. Vi furono pochi momenti ieri durante i quali egli ci commosse veramente. Il suo suono non è né ampio né caldo (!) né riesce a controllare un’ampia varietà di colori. E’frequentemente secco. Il pianista è ancora troppo entusiasta degli esagerati contrasti dinamici che sfoggiava da ragazzo… e questa esagerazione è venuta a galla soprattutto nella Sonata Waldstein di Beethoven, eseguita con intelligenza. Nonostante alcuni momenti molto belli egli non riuscì a sostenere la grandezza dei punti più importanti della Sonata. Il Preludio e Fuga [in mi minore op.35 n.1] di Mendelssohn è stato reso sapientemente ma in maniera scolastica, con una lucida esposizione della struttura polifonica. I pezzi di Chopin erano esenti da sentimentalismo, ma allo stesso tempo mancavano di poesia. Lo Scherzo in si minore veniva affrontato con grande bravura, ma non era sempre chiaro e i dettagli nella Berceuse suonavano troppo marcati.
Del gruppo di pezzi che hanno chiuso il recital, la Melodia russa [la celebre Melodia in fa] di Rubinstein è stata la più significativa, suonata con uno stile magniloquente e nobile , nello spirito del suo Maestro. Vi fu il bis di un brillante Capriccio di Leschetizky. Per quanto riguarda la Fantasia sul Don Giovanni di Liszt, venne eseguita con grande forza e velocità: non è nella natura di Hofmann fare di più.”
Forza e velocità : ecco dunque i due soli parametri che paiono giungere all’orecchio dell’ascoltatore colto nel 1904. La recensione di Aldrich contiene alcune verità che possono essere confermate dall’ascolto delle incisioni acustiche che Hofmann effettuò in quegli anni: la Berceuse è risolta infatti con la tendenza ad esagerare la parte virtuosistica, sgranando ad elevata velocità tutte le note nei passaggi rapidi. Ma lo Scherzo in si minore è perfetto e semmai sbalordisce per la sicurezza, la forza, la velocità. L’incisione della Waldstein di molti anni più tarda (siamo nel 1938 al concerto celebrativo tenuto al Curtis Institute) è semmai ancora retrodatata e troppo romantica, quindi con caratteristiche opposte a quelle rilevate dal gusto di Aldrich, ma quale bellezza di colori e quale virtuosismo nei passaggi più ardui !
Solamente tre anni più tardi, dopo un nuovo recital alla Carnegie tenuto il 27 ottobre 1907, Aldrich si riscalda e ammette di trovare in Hofmann “un artista più maturo per quanto riguarda il lato emotivo, un artista di alti ideali e di grande forza intellettuale e tecnica”. Gli aggettivi cominciano a farsi più entusiasti per l’esecuzione della “111” di Beethoven, il numero di apertura del recital, e soprattutto per la Fantasia di Schumann : “una lettura nobile e bella, condotta secondo un grande senso della forma e infiammata dal fuoco e dalla passione di un giovane romantico”. Analoghe parole vengono spese per la successiva esecuzione di 25 Preludi di Chopin [i 24 dell’op.28 e l’op.45], ancora visti da Aldrich secondo l’ottica tutta romantica della raccolta di pagine sparse “che non richiedono necessariamente un esecuzione integrale”. In questo repertorio e nei pezzi di bravura del finale (il Sogno d’amore e la Campanella di Liszt), Aldrich trova improvvisamente che “il suono è ricco, con molti colori, sottili nuances, sempre bello anche se non sempre sensuale”. E riconosce uno dei parametri universalmente riconosciuti dell’arte di Hofmann : “E’un grande piacere e sollievo ascoltare un pianista con un senso del ritmo così infallibile”. “Un pianista che oggi, a 30 anni, mostra una grande abbondanza di risorse … un artista in continua crescita e sviluppo” conclude Aldrich, contraddicendo le funeste previsioni della critica di tre anni prima.
Nei concerti successivi si assiste a un crescendo di elogi. Nella esecuzione della Sonata in si minore di Liszt (29 ottobre 1913) “Hofmann diede libero sfogo a tutte le sue risorse con una intensità, convinzione e profondità di intenti che gettarono luce su ogni nota e ne rivelarono ogni possibile significato… una esecuzione che deve certamente avere elettrizzato gli ammiratori di questo pezzo.” E finalmente vengono riconosciuti al pianista “un meraviglioso controllo del suono, un raffinato pianissimo, delicatezza, chiarezza e corpo del tocco, varietà e bellezza dei colori, sottile gradazione delle dinamiche, senso delle proporzioni ….” Si può forse chiedere di più a un pianista?
E’ davvero un peccato che nessuna delle esecuzioni della “111” o della Fantasia di Schumann o della Sonata di Liszt siano state registrate più tardi su acetati (la registrazione su dischi acustici era impossibile allora per motivi di lunghezza, come abbiamo già detto). Non stento a credere ciò che mi disse una volta Jorge Bolet a proposito del suo più impressionante ricordo musicale : l’ultimo accordo in do maggiore della “111” suonato da Hofmann alla Carnegie Hall.
Sarebbe interessante dilungarci sull’opinione di Aldrich relativa ad altri grandi della tastiera (lo faremo magari in qualche altra occasione) : si pensi che la raccolta delle sue critiche registra,nel mese di novembre di quello stesso 1913, due recital di Paderewski e di Backhaus. Padereweski risulta ancora insuperabile per il fraseggio e la bellezza dei colori persino nella allora raramente eseguita Sonata op.109 di Beethoven, nel Carnaval, nelle mazurke e nella Sonata op.35 di Chopin; Backhaus sconvolge già allora per il perfetto controllo tecnico e la profondità della sua “111” o per la perfetta resa di una pagina allora pochissimo eseguita come la “Wanderer” di Schubert.
E pochi giorni prima di un recital di Hofmann del 26 gennaio 1918 dedicato interamente a musicisti-miniaturisti americani come Clayton Johns, Rubin Goldmark, Edward Royce, Daniel Gregory Mason, Reginald De Koven, Fannie Dillon, H.Beach e Alexander McFayden, Aldrich paragona il suono di Josef a quello del collega e amico Rachmaninov, che aveva suonato un mese prima. “In Hofmann vi è colore, incandescenza; non in Rachmaninov, il cui suono negli accordi è come un macigno di granito e la sua cantilena non è certo di velluto”.
Alla fine degli anni ’20, quando il giovane Horowitz debuttava in America, Hofmann veniva riconosciuto da tutti i più grandi pianisti come il maggiore esponente di quella che più tardi doveva essere riconosciuta come la “Golden age of piano playing”. E il massimo estimatore era proprio l’esigentissimo Sergei Rachmaninov, che pure aveva dedicato a Hofmann il proprio terzo concerto senza avere la soddisfazione di sentirlo mai eseguire dal collega.
La carriera di Hofmann a partire dall’inizio degli anni ’20 si svolge quasi interamente negli Stati Uniti (tranne due parentesi polacche nel 1935 e 1938) e vede il progressivo concentrarsi del repertorio verso le grandi pietre miliari del classicismo e romanticismo pianistico e la conservazione di un certo numero di cavalli di battaglia che resteranno per sempre all’interno delle proposte pubbliche del pianista (come l’onnipresente Preludio in do# minore di Rachmaninov che ci è giunto anche in una versione filmata).
Ecco dunque che compaiono nuovi titoli su alcuni dei quali abbiamo le preziose testimonianze scritte di famosi pianisti o, per nostra fortuna, un lascito discografico pur limitato alla ripresa dal vivo o all’incisione su dischi a 78 giri.
Bach : Fantasia Cromatica e Fuga
Brahms : Variazioni-Haendel op.24
Beethoven : Sonate op.53, 110, 111
Chopin : Preludi op.28, Andante e Polacca op.22, quarta Ballata
Schumann : Fantasia op.17, Carnevale di Vienna op.26, Kreisleriana op.16, Sonata n.3 op.14
L’esame di questo repertorio è molto interessante perché – tra l’altro – potrebbe innescare un utile studio sull’influenza che i recital di Hoffmann ebbero sul più giovane Horowitz. Ascoltando il lascito dell’Horowitz degli anni ’80, ad esempio, compaiono diversi momenti – emblematica è la quarta Ballata di Chopin – nei quali è palese l’impatto che il pianista polacco ebbe sul virtuoso di Odessa. Altre scelte di repertorio piuttosto inusuali come la terza Sonata di Schumann vanno secondo me collocate sempre in una mai confessata ammirazione da parte di Horowitz nei confronti di Hofmann.
Dopo il famoso recital del 7 aprile 1938 alla Casimir Hall del Curtis Institute di Filadelfia, che ci è rimasto in disco, si è soliti parlare di declino di un’arte interpretativa che sembrava avere raggiunto i massimi livelli. L’esame delle incisioni apparse anche recentemente da parte della Marston confermano solo in parte questa visione piuttosto miseranda di un pianista dedito all’alcol che non riusciva più a venire a capo dei suoi più famosi cavalli di battaglia. Con buona pace di Arthur Rubinstein, che nelle sue memorie irride a un Hofmann piuttosto brillo alla fine di una serata conviviale, possiamo affermare che molti pianisti di oggi farebbero carte false pur di possedere la tecnica e il suono che Hofmann sfoggia nelle tardive esecuzioni del quarto e del quinto di Beethoven o dei Concerti di Schumann e Chopin.
Josef Hofmann morì quasi dimenticato a Los Angeles il 16 febbraio 1957, a 81 anni.
La sua leggenda è destinata per noi a rimanere tale e a incidersi in maniera perenne negli annali della storia dell’interpretazione pianistica.
La discografia
Nella valutazione complessiva di Hofmann attraverso il suo lascito discografico va oggi tenuto conto innanzitutto di un fattore importante, vale a dire la collocazione storica del pianista : è fuori dubbio che non esistano testimonianze sonore paragonabili a quelle lasciate da Hofmann nei primi 25 anni del ‘900. E’un periodo durante il quale i contemporanei di Hofmann si chiamavano Busoni, Godowsky e Rachmaninov. Forse il solo Cortot, che incise meravigliosamente Chopin e Schumann alla fine degli anni ’20, può essere paragonato a Hofmann per la bellezza e l’incisività del suono. Ma nessuno ha eguagliato, né allora, né più tardi quando sorgevano all’orizzonte gli astri di nome Horowitz, Barere, il complesso di doti puramente tecniche (compresa la qualità del timbro, ben s’intende) che le incisioni di Hofmann ci rivelano con stupefacente verità.
Con la pubblicazione da parte della Marston dell’ottavo e penultimo volume della discografia completa di Hofmann, possiamo dire di essere in grado di tracciare un giudizio definitivo, seppur parziale, dell’arte del grande pianista. Parziale soprattutto perché mancante del nucleo che formava il grande repertorio di Hofmann (la “111” o l’Appassionata di Beethoven, la Fantasia di Schumann e via dicendo). La mancanza di queste registrazioni non è facilmente spiegabile : da un lato è vero che le compagnie discografiche che operavano in America erano quasi esclusivamente orientate a registrare il piccolo repertorio, quello che entrava possibilmente in una singola facciata di 78 giri. Questo spiega come mai anche la grande edizione delle registrazioni di Rachmaninov contenga pochi elementi di quella categoria (il Carnaval di Schumann ad esempio); la stessa cosa si può dire a riguardo della mancanza di alcuni grandi capitoli del repertorio del giovane Horowitz (ad esempio la “Dante Sonata”). Vi era poi una documentata difficoltà a trattare con le case discografiche in termini di royalties, e qui possiamo ipotizzare come le richieste di Hofmann potessero essere superiori alla media, con il risultato finale di un mancato accordo tra le parti e una irrimediabile perdita per i posteri. Ancora, la presenza nel catalogo Marston di numerosi “takes” sperimentali ci fornisce preziose informazioni sui dubbi che dovevano assillare il pianista e sulla sua sostanziale scarsa fiducia nel mezzo discografico. Infine, il periodo d’oro dell’artista – diciamo tra il 1895 e il 1925 – fu quello durante il quale mancavano effettivamente le tecnologie adatte a riversare su disco esecuzioni superiori a una manciata di minuti. Ecco perchè quasi nulla su larga scala ci rimane di altri pianisti mitici come Busoni, famosi come Hofmann per le loro interpretazioni dei grandi capisaldi della letteratura classica e romantica. Il già citato Lahee scriveva del resto già nel 1900 : “Il modo di suonare di Hofmann è stato paragonato a quello di Rubinstein in quanto egli si sente più a proprio agio nelle composizioni che richiedono una interpretazione profonda ed appassionata piuttosto che nella più delicata musica da salotto”. E aggiunge : “Hofmann possiede una tecnica superiore a quella di Rubinstein ed è stato messo sullo stesso piano di D’Albert e di Rosenthal per quanto riguarda gli sviluppi in senso orchestrale del timbro pianistico”.
Tra i lasciti discografici più famosi troviamo la registrazione del “Concerto del Giubileo”, tenuto da Hofmann al Metropolitan il 28 novembre del 1937, cinquant’anni dopo il suo storico debutto nella stessa sala. Il recital venne fortunosamente registrato anche se con apparecchi dell’epoca non professionali (ma perché la stessa cosa non accadde con tanti altri eventi di quel tipo?) e pubblicato dalla Columbia solamente nel 1956 dopo una lunga trattativa con il pianista.
Altrettanto importante è la registrazione del recital del 1938 a Filadelfia, già da noi ricordato.
Nel complesso delle registrazioni che vanno dal 1903 al 1956 vi sono alcune perle che da sole potrebbero testimoniare della grandezza del pianista. Esecuzioni da leggenda rimangono ad esempio quelle dei Valzer op.64 n.1 e op.42, l’Andante e Polacca op.22, il Notturno op.27 n.2, la Polacca op.40 n.1, la Berceuse e la prima e quarta Ballata di Chopin, il Capriccio Spagnolo di Moszkowski (dove emergono soprattutto le qualità di un fantastico jeu perlé, di una insuperata tecnica delle note ribattute, di una rara eleganza del fraseggio). E ancora il fantastico Erlkoenig di Schubert-Liszt, Kreisleriana di Schumann, Venezia e Napoli e il Sogno d’amore n.3 di Liszt e ancora di Liszt la Campanella e lo studio “Waldesrauschen”.
Particolare attenzione va dedicata poi al terzo e quarto Concerto di Rubinstein, dove i reperti sonori ci danno un’esatta misura del come vadano interpretate queste pagine del musicista russo.
Le incisioni radiofoniche degli anni ’40 erano già state bollate da Chasins come un pessimo servizio nei confronti dell’arte del pianista, in quegli anni oramai in declino.
In realtà, andando oggi ad ascoltare tutti questi takes, riuniti negli ultimi volumi dell’edizione Marston, ci accorgiamo che di disastri ve ne sono ben pochi, che la tecnica digitale di Hofmann è capace ancora di miracoli. Particolarmente interessanti in questi anni sono le già citate riprese del quarto e quinto Concerto di Beethoven con direttori del calibro di Mitropoulos o Ormandy e gli scampoli del grande repertorio riproposti per il ciclo delle “Bell telephone hours” dove si riascoltano con emozione le pagine di Chopin, Mendelssohn, Rachmaninov che non erano mai uscite dal repertorio del grande pianista.
“Un maestro ancorato alla più nobile tradizione”
In questa breve intervista rilasciata alla rivista “Etude” negli anni ’20, Hofmann si rivela un pedagogo esigente ma anche contrario allo studio puramente meccanico dello strumento, forse perchè dotato fin dalla nascita di una tecnica naturale di portata impressionante.
Ci può parlare dell’evoluzione della tecnica pianistica a partire dai tempi di Hummel? La tecnica si è evoluta anche con l’evolversi dello strumento?
Hummel è un buon punto d’inizio per il nostro discorso perché fu veramente un grande virtuoso : il suo stile esecutivo venne preso a modello dai contemporanei.e in un certo senso egli fece da ponte tra il vecchio e il nuovo modo di suonare il pianoforte. Per quanto riguarda i cambiamenti nella tecnica pianistica dovuti all’evoluzione dello strumento, direi che il problema sta a monte : sono state le sempre maggiori richieste dei compositori di musica pianistica a determinare i cambiamenti nella costruzione dello strumento e da qui parte poi il fenomeno dell’evoluzione della tecnica. In tal senso sono dell’opinione che solamente il compositore sia il vero responsabile dei cambiamenti non solo della tecnica pianistica ma anche dell’interpretazione.
Una delle più discutibili differenze tra la “vecchia” e la “nuova” tecnica sta forse nel fatto che la tecnica moderna tende purtroppo a diventare fine a se stessa. Giudicando dalla maniera in cui lavorano certi giovani ambiziosi pianisti sembra che il loro unico scopo sia quello di diventare come delle macchine, senza una vera consapevolezza musicale. D’altra parte questa tendenza ha anche prodotto risultati considerevoli. E’fuori dubbio che si debba ad alcuni ingegnosi investigatori di formule tecniche la possibilità di ottenere nuovi effetti di polifonia, di economizzare gli sforzi e i movimenti della braccia, di analizzare scientificamente le difficoltà e di raggiungere tanti altri risultati che concorrono a raggiungere uno stile ottimale di esecuzione. Una volta, pur ricorrendo all’esercizio tecnico, si dedicava più tempo allo studio dei caratteri musicali di una composizione. Dobbiamo essere veramente contenti se le eccellenti idee che stanno alla base di alcuni moderni metodi tecnici vengono utilizzate solamente per assicurare un risultato finale dal punto di vista artistico. Ma è impossibile raggiungere appieno l’arte di suonare il pianoforte se non si cancellano nell’esecuzione le tracce dello studio puramente tecnico, come la pittura si sovrappone al disegno preparatorio di una artista. Ecco perché gli studenti devono assolutamente evitare di ridursi a delle efficienti macchine.
La tecnica lisztiana verrà mai sorpassata?
Dal punto di vista strettamente tecnico forse non possiamo parlare di veri e propri progressi, anche se risulta chiaro che per suonare esattamente come Liszt bisognerebbe avere la sua stessa personalità e individualità. In questo senso è inutile paragonare il modo di suonare di qualsiasi pianista di oggi con quello di Liszt. Inoltre bisogna aggiungere che molte caratteristiche della tecnica di Liszt erano espressione della sua inimitabile personalità: in un certo senso Liszt non è stato mai eguagliato, ma sono sicuro che molti pianisti del giorno d’oggi avrebbero stupito il grande Maestro con la loro tecnica.
Qual è la vera importanza dello studio meramente tecnico?
Premetto che mi sono sempre opposto ai cosiddetti “metodi” senza che questi vengano adattati dall’insegnante ad ogni specifico allievo. Per quanto riguarda la pura tecnica bisogna distinguere secondo me ciò che si intende per vero “studio” e ciò che normalmente viene chiamato “esercizio”. Ambedue queste attività richiedono energia e tempo e la differenza tra i due termini sta nella qualità e nel tempo che l’allievo dedica ad entrambe le azioni. Esercitarsi significa ripetere la stessa cosa tante volte, con la massima attenzione alla semplice esattezza delle note, alla diteggiatura e così via. Normalmente ciò comporta un grande dispendio di tempo e un modesto investimento intellettuale. Lo studio implica invece una sorveglianza intellettiva al massimo grado, presupponendo l’assoluta accuratezza degli elementi tecnici sopra ricordati ma anche la più grande attenzione verso quegli elementi che erroneamente qualcuno ritiene estranei alla tecnica, come la cura del suono, le variazioni dinamiche e ritmiche e così via. Qualcuno ha in sé il felice dono di combinare i due elementi contemporaneamente, ma è un fatto piuttosto raro.
Se di studio si parla, e non di semplice esercizio, un elemento tecnico come quello insito nelle scale è ovviamente indispensabile, tutti i pedagoghi concordano su questo. E quindi oltre alle scale sarà necessario “studiare” tutte quelle altre forme di tecnica che normalmente vengono solo “esercitate”. L’esercizio fine a se stesso è come una corsa automobilistica su un percorso chiuso : dopo innumerevoli giri e un enorme dispendio di energie il pilota si ritrova esattamente al punto di partenza. Così il pianista non raggiunge assolutamente l’obiettivo che si era posto. La proporzione tra attività mentale e fisica determina secondo me la distinzione tra semplice esercizio e vero studio. In altre parole, la proporzione secondo la quale il vero studio rientra nell’attività quotidiana dello studente determina il successo finale.
Arturo Benedetti-Michelangeli - Alla ricerca del mito tra dischi e concerti pubblici
MUSICA, 1995

Alcuni
anni fa è stato pubblicato un curioso compact disc curato dal collezionista
romano Mario Latanza: si tratta di una raccolta di documenti attraverso i quali
si può ascoltare la voce di grandi musicisti e interpreti di questo secolo, da
Paderewski a Puccini fino ad arrivare al giovane Dino Ciani. Nel cd si ascolta
anche una intervista effettuata da un giornalista della Rai a Benedetti
Michelangeli, poco dopo la fine della sua prima tournèe americana: 40 concerti
dei quali tredici con le orchestre di New York (Mitropoulos), Minneapolis,
St.Louis, Los Angeles e S.Antonio. Siamo nei primi mesi del 1949 e il
ventinovenne Arturo aveva già suonato nel gennaio di quell’anno al Carnegie
Hall con un suo già tipico programma che conteneva la Ciaccona di Bach-Busoni,
2 Sonate di Scarlatti, l’op.2 n.3 di Beethoven, la Berceuse e il secondo
Scherzo di Chopin e l’immancabile, pirotecnica serie di Variazioni
Brahms-Paganini. La tournèe si era estesa per quasi tutto il continente, da New
York alla California e al Canada, e proprio agli spettatori canadesi
Michelangeli stranamente conferisce il primato per ciò che riguarda la capacità
di concentrazione e di reazione nei confronti degli eventi musicali. Il
pianista espone con voce grave e flemmatica, non scevra da un leggero accento
bresciano, i propri programmi futuri e risponde a qualche domanda personale del
giornalista, che già allora tira in causa il problema dell’incomunicabilità tra
Michelangeli e il pubblico, l’estrema riservatezza del pianista, il suo
aristocratico distacco. Tutti problemi che non tardarono ad estendersi dal
piano puramente biografico-giornalistico a quello più serio e sostanziale
relativo ai criteri interpretativi di Michelangeli, al suo modo di suonare, al
contesto stilistico entro il quale le sue esecuzioni si potevano collocare.
Problemi che come ognuno sa sono ancora oggi ben lungi dall’avere trovato una
soluzione, una chiarificazione sul terreno critico.
Michelangeli, durante l’intervista, nega assolutamente l’esistenza di motivi di incomprensione tra lui e il pubblico (“si tratta di un fatto puramente esteriore e superficiale...i rapporti tra i pubblici nordamericani e me sono stati sempre più che cordiali”) e si lancia in una appassionata difesa del repertorio clavicembalistico italiano.
In effetti Michelangeli presenterà nel suo secondo recital al Carnegie Hall (20 gennaio 1950) una prima parte di programma tutto incentrato su autori italiani del sei-settecento : la Sonata in si bem.di Clementi, il Presto di Galuppi (si tratta probabilmente della Sonata in do maggiore) ; un Adagio di Grazioli e un Capriccio di Paradisi che mi sembra siano rimasti discograficamente inediti e le solite sonate di Scarlatti. Nella seconda parte saranno presenti altri tre cavalli di battaglia come la seconda sonata di Chopin, l’Andante e Polacca op.22 e le raveliane Valses nobles.
Siamo dunque nel 1949-50 e già dall’esame di questa intervista e dei programmi di due soli recital ci troviamo di fronte al microcosmo michelangiolesco, un microcosmo dove trovano posto i clavicembalisti italiani, ricreati con un suono e una attitudine interpretativa che nulla hanno a che fare con un approccio scientifico e integrato verso la letteratura pre-pianistica. Dove trova posto lo Chopin giovanile interpretato divinamente ma secondo uno stile decisamente personale derivato da una tradizione spuria, quella dell’insegnamento di Anfossi. Dove trova posto infine la magia del pianoforte di Ravel, esempio questo di come la sensibilità naturale di un interprete possa trovare completa rispondenza in quella di un autore, a prescindere dalla diversità dei contesti storici e intellettuali entro i quali l’uno e l’altro si sono formati. Michelangeli riesce fin da giovane a proiettare tre dei capolavori raveliani (oltre alle Valses, come è noto, vi sono e vi saranno fino all’ultimo Gaspard de la nuit e il Concerto in sol) in un contesto di perfezione formale e di rabbrividente immedesimazione artistica, superando gli esiti di altri e sulla carta ben più accreditati interpreti (pensiamo soprattutto a Gieseking e a Casadesus).
Nel 1949 Michelangeli era un pianista già più che affermato, che aveva vinto dieci anni prima il Concorso di Ginevra dopo essersi piazzato in settima posizione nel ‘38 all’allora Concorso Ysaye di Bruxelles, quando il vincitore era stato Gilels (la giuria di Bruxelles era composta tra gli altri da Sauer, Gieseking, Friedman e dal buon Arthur Rubinstein, che annotò la performance di Michelangeli come “insoddisfacente”, pur riconoscendo le doti tecniche del giovane italiano).
Gli anni ‘40 sono caratterizzati da una impegnativa attività concertistica per lo più limitata all’Italia (si contano, tra gli altri, 15 concerti alla Scala durante i quali il pianista affronta il ben noto nucleo del proprio repertorio, dal quinto di Beethoven ai Concerti di Schumann, Grieg, Ravel ,le Variazioni sinfoniche di Franck, il primo concerto e la Totentanz di Liszt). Nel 1946 Michelangeli suona per la prima volta a Londra all’Albert Hall; poi vi saranno le già ricordate tournèe americane.
Uniche interpretazioni di quegli anni perse per sempre risultano essere la Ballata di Martin, il Triplo Concerto di Beethoven - eseguito alla Scala con Kulenkampff e Mainardi nel ‘42 - i Concerti di Peragallo e di Margola. Già dai primi anni ‘40 Michelangeli aveva al suo attivo alcune incisioni sempre centrate sul repertorio di cui parlavamo poc’anzi. Il rapporto tra Michelangeli e il disco fu come è a tutti noto estremamente problematico, tant’è che oggi la discografia del pianista è costituita in buona percentuale da riprese dal vivo non autorizzate o autorizzate a forza (le riprese della Rai degli anni ‘50 e ‘60). L’esame dei titoli , che diventa poi un esame della frequenza con la quale il pianista eseguiva gli stessi in concerto, porta poi a considerare ciclicamente le stesse cose, con alcune eccezioni rappresentate ad esempio da sonate beethoveniane eseguite con minor frequenza perchè assenti dai programmi giovanili (l’op.7 e l’op.22) o il primo Scherzo di Chopin - anch’esso “riscoperto” solo alla fine degli anni ‘80 o le Variazioni Sinfoniche di Franck, mai più riprese dopo gli anni ‘40.
Le prime incisioni di Michlangeli sono state da poco riversate in cd dalla Decca e ci mostrano un giovane dandy che sfoggia una tecnica digitale impressionante in Scarlatti, una stupefacente quanto ipercostruita tecnica della differenziazione dei piani sonori nel Concerto Italiano di Bach, lo sdilinquimento puro nella Mazurka op.33 n.4 e nella Berceuse di Chopin. Viene fatto di paragonare l’atteggiamento del giovane Michelangeli a quello del giovane Horowitz delle prime incisioni : ambedue mostrano al mondo con giovanilistica sfrontatezza ciò di cui sono capaci alla tastiera. L’approccio manieristico alla Mazurka in si minore verrà più tardi abbandonato; ricordo che Michelangeli nei suoi ultimi concerti suonava questa bellissima pagina caricandola di contenuti drammatici e sottolinendone un’andatura lentissima (Nikita Magaloff e la moglie Irene, ascoltando una registrazione di un concerto di Bregenz mi rivelarono tutto il loro sconcerto di fronte a una lettura così lugubre e “tirata” : “si tratta pur sempre di una Mazurka” - gemeva Magaloff con la sua voce cantilenante attraverso la quale poteva confidare da gran signore le critiche più terribili verso i colleghi.
Alla fine degli anni ‘40 risalgono alcune importanti incisioni effettuate per la Columbia- EMI, incisioni che per lungo tempo rimarranno i riferimenti assoluti dell’arte del Maestro: dalla Ciaccona di Bach-Busoni, alla Sonata op.2/3 di Beethoven, le Brahms-Paganini. Documento live importante, anche se di scarsa qualità sonora, è la registrazione delle Variazioni Sinfoniche di Franck eseguite a Los Angeles con Wallenstein nel ‘48. Sempre a quel decennio appartengono due testimonianze scaligere: il Concerto di Grieg con Galliera e quello di Schumann con Pedrotti- non si tratta di esecuzioni pubbliche - e il quinto di Beethoven con Mario Rossi e i complessi della Rai di Torino in trasferta milanese.
Gli anni ‘50 sono documentati discograficamente quasi solamente grazie alle registrazioni dal vivo, con l’eccezione del mirabile Carnaval e dell’op.26 di Schumann incisi dalla Emi nel ‘57 a Londra. Eventi memorabili sono il ciclo mozartiano effettuato con Giulini a Roma nel ‘51 (K.415,466,488) , il recital di Arezzo del ‘52, quello di Varsavia del marzo 1955. Michelangeli era allora in giuria al Concorso Chopin e si rifiutò di firmare la pergamena del secondo premio conferito per maggioranza e non all’unanimità al giovane Ashkenazy, pensando che il concorrente meritasse molto di più.
Per tutto quel decennio Michelangeli suonerà costantemente con i complessi della Rai, cosa che ci permette fortunatamente di accedere alle relative registrazioni (il Concerto in re di Haydn e il K.450 con Caracciolo e con Rossi, il K.503 ancora con Caracciolo, il Concerto di Schumann con Rossi e il Concerto di Ravel con Sanzogno aiutano il collezionista a formare per piccoli tasselli un mosaico che rimarrà pur sempre incompiuto). Due magnifiche esecuzioni del Concerto in mi bemolle di Liszt e del K.466 di Mozart con Mitropoulos al Maggio fiorentino del ‘53 e la mitica registrazione del K.450 con Gracis e l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano (1951) completano il quadro di questi anni ruggenti.
Gli eventi più importanti della carriera italiana di Michelangeli negli anni’60 restano sicuramente il ciclo di videoriprese effettuate dalla Rai a Torino - più volte ritrasmesse e oggi commercializzate dalla Fonit Cetra - e la partecipazione alla messa in opera del Festival pianistico di Brescia e Bergamo, città nelle quali Michelangeli partecipò come solista in concerti sinfonici a cadenza annuale nel periodo 1964-1968. Il contenuto delle video registrazioni Rai costituisce un vero e proprio compendio del repertorio solistico di Michelangeli: sebbene le date di esecuzione dei concerti che abbiamo fino ad ora citato non siano per nulla in relazione alle date in cui tali concerti vennero riversati in disco e resi disponibili al pubblico, è curioso notare come il repertorio solistico incominci ad essere divulgato attraverso il pur limitato media della tv in bianco e nero a partire dal 1962, mentre le incisioni effettuate con orchestra negli anni ‘50 saranno rese pubbliche solamente negli anni settanta, quando iniziò il fenomeno della discografia live e incominciavano a scadere i famosi venti anni indispensabili per la legge italiana a rendere pubblica una esecuzione dal vivo. Il mito di Michelangeli è quindi anche alimentato nell’inconscio collettivo da una situazione di arretratezza tecnologica che non consentiva certo al pubblico italiano non avvezzo alle sale da concerto di poter seguire radiofonicamente i recital di Michelangeli in un paese in cui la Rai faceva certo del suo meglio ma non era così attiva nella divulgazione musicale del recital pianistico come potevano esserlo certe emittenti d’oltralpe.
Gli anni sessanta vedono anche il ritorno di Michelangeli sul palcoscenico del Carnegie Hall, dopo sedici anni di assenza, e l’abbozzo di altre due tournée americane, costellate a volte da rinunce che mandano in bestia il pubblico e la critica. H.Schonberg, recensendo il primo recital del febbraio 1966 e l’esecuzione del quinto di Beethoven con la New York Philarmonic - non vi so precisare chi fosse il direttore - non risparmia le cannonate anche e soprattutto a proposito dei criteri interpretativi: “un pianista che cerca di fare il Romantico senza sapere assolutamente che cosa sia l’approccio romantico all’interpretazione musicale”; “sia la Sonata op.111 che lo Scherzo in si bem.minore di Chopin erano ridotti a un insieme di dettagli e il pianoforte in se stesso e certi artifici pianistici sembravano più importanti che lo scorrimento del discorso musicale”. Certo, per noi Michelangeli non si riduce a questo. Ma vi è qualcuno che onestamente potrebbe sconfessare a ragion veduta le parole di Schonberg ?
Sul terreno discografico si comincia a capire che oramai di Michelangeli, se arriverà qualcosa - in studio o live - arriverà dall’estero. Ecco allora che sono ancora oggi in corso le pubblicazioni “unauthorized” di Ciaccone, Sonate di Beethoven (7,22,111), Chopin (35), Schubert (164) facenti parte del sempre più ristretto repertorio di quegli anni.
Il contratto con la DG aveva nel frattempo portato alla incisione di alcuni Lp di grande valore (quello tutto dedicato a Chopin, dalla copertina nerissima, la Sonata op.7 di Beethoven, proiettata in un classicismo ideale e imperfettibile, la Sonata in la minore - sempre quella! - di Schubert, le Ballate di Brahms riesumate dopo anni di silenzio, l’incisione live del ciclo beethoveniano con Giulini, incisione cui mancano i tasselli del secondo e quarto concerto, che speriamo vengano riesumati. Infine l’exploit dei due libri dei Préludes di Debussy, presentati in quel periodo spesso anche in pubblico.
Negli anni ‘70 e ‘80 il pubblico (soprattutto quello dei giovani che non lo aveva mai ascoltato) deve sobbarcarsi trasferte non certo economiche per seguire gli itinerari del pianista, che mantiene un buon livello numerico di “apparizioni”. Ricordo bene la fatica di un viaggio a Roma per sentire il Maestro suonare in Vaticano (era il 29 aprile del 1977) e la delusione di trovarsi in una sala immensa in cui era davvero difficile gustare in pieno il suono ammaliante del primo libro dei Preludi, delle Ballate di Brahms e della sempre soggiogante Sonata op.35 di Chopin, con quell’accelerando nella stretta del primo tempo che faceva venire i brividi.
Nel giugno dell’80 Michelangeli è a Brescia (quanta fatica per quel biglietto!) per un concerto straordinario in tutti i sensi: prima di tutto perchè si tiene in Italia, poi perchè viene dedicato a Papa Montini (e non a Pertini, come ha scritto qualche giornalista un po’ sprovveduto nei necrologi apparsi in occasione della morte di Michelangeli). Una sala zeppa di ammiratori e di alti prelati fa da lugubre cornice a un concerto che replica esattamente quello romano, con l’aggiunta di un Valzer come bis. Qualche giorno dopo, ascoltando una gioiosa esecuzione del quarto di Beethoven alla Scala con Brendel e Abbado pareva veramente di rinascere, di scoprire che la musica , anche quella più profonda e problematica, poteva rappresentare davvero consolazione per lo spirito e non solo una espressione di penitenza spirituale come pareva essere nel caso di Michelangeli. Il pianista suona allora spesso a Zurigo, Lugano, Bregenz, Monaco di Baviera e anche a Monaco-Principato e le cronache di quei concerti sono state ricordate anche di recente dai quotidiani. Meno noti sono gli ultimi exploit dopo l’attacco cardiaco che colpì il Maestro nell’88 a Bordeaux, ossia il periodo delle incisioni di quattro concerti mozartiani per la DG e le ultime esecuzioni pubbliche con Celibidache. Dell’ultimo lascito di Michelangeli ci aspettiamo sicuramente una proposta editoriale da parte della Sony. E saranno ancora emozioni e ricordi ad affollare la mente di noi ascoltatori.
Michelangeli, durante l’intervista, nega assolutamente l’esistenza di motivi di incomprensione tra lui e il pubblico (“si tratta di un fatto puramente esteriore e superficiale...i rapporti tra i pubblici nordamericani e me sono stati sempre più che cordiali”) e si lancia in una appassionata difesa del repertorio clavicembalistico italiano.
In effetti Michelangeli presenterà nel suo secondo recital al Carnegie Hall (20 gennaio 1950) una prima parte di programma tutto incentrato su autori italiani del sei-settecento : la Sonata in si bem.di Clementi, il Presto di Galuppi (si tratta probabilmente della Sonata in do maggiore) ; un Adagio di Grazioli e un Capriccio di Paradisi che mi sembra siano rimasti discograficamente inediti e le solite sonate di Scarlatti. Nella seconda parte saranno presenti altri tre cavalli di battaglia come la seconda sonata di Chopin, l’Andante e Polacca op.22 e le raveliane Valses nobles.
Siamo dunque nel 1949-50 e già dall’esame di questa intervista e dei programmi di due soli recital ci troviamo di fronte al microcosmo michelangiolesco, un microcosmo dove trovano posto i clavicembalisti italiani, ricreati con un suono e una attitudine interpretativa che nulla hanno a che fare con un approccio scientifico e integrato verso la letteratura pre-pianistica. Dove trova posto lo Chopin giovanile interpretato divinamente ma secondo uno stile decisamente personale derivato da una tradizione spuria, quella dell’insegnamento di Anfossi. Dove trova posto infine la magia del pianoforte di Ravel, esempio questo di come la sensibilità naturale di un interprete possa trovare completa rispondenza in quella di un autore, a prescindere dalla diversità dei contesti storici e intellettuali entro i quali l’uno e l’altro si sono formati. Michelangeli riesce fin da giovane a proiettare tre dei capolavori raveliani (oltre alle Valses, come è noto, vi sono e vi saranno fino all’ultimo Gaspard de la nuit e il Concerto in sol) in un contesto di perfezione formale e di rabbrividente immedesimazione artistica, superando gli esiti di altri e sulla carta ben più accreditati interpreti (pensiamo soprattutto a Gieseking e a Casadesus).
Nel 1949 Michelangeli era un pianista già più che affermato, che aveva vinto dieci anni prima il Concorso di Ginevra dopo essersi piazzato in settima posizione nel ‘38 all’allora Concorso Ysaye di Bruxelles, quando il vincitore era stato Gilels (la giuria di Bruxelles era composta tra gli altri da Sauer, Gieseking, Friedman e dal buon Arthur Rubinstein, che annotò la performance di Michelangeli come “insoddisfacente”, pur riconoscendo le doti tecniche del giovane italiano).
Gli anni ‘40 sono caratterizzati da una impegnativa attività concertistica per lo più limitata all’Italia (si contano, tra gli altri, 15 concerti alla Scala durante i quali il pianista affronta il ben noto nucleo del proprio repertorio, dal quinto di Beethoven ai Concerti di Schumann, Grieg, Ravel ,le Variazioni sinfoniche di Franck, il primo concerto e la Totentanz di Liszt). Nel 1946 Michelangeli suona per la prima volta a Londra all’Albert Hall; poi vi saranno le già ricordate tournèe americane.
Uniche interpretazioni di quegli anni perse per sempre risultano essere la Ballata di Martin, il Triplo Concerto di Beethoven - eseguito alla Scala con Kulenkampff e Mainardi nel ‘42 - i Concerti di Peragallo e di Margola. Già dai primi anni ‘40 Michelangeli aveva al suo attivo alcune incisioni sempre centrate sul repertorio di cui parlavamo poc’anzi. Il rapporto tra Michelangeli e il disco fu come è a tutti noto estremamente problematico, tant’è che oggi la discografia del pianista è costituita in buona percentuale da riprese dal vivo non autorizzate o autorizzate a forza (le riprese della Rai degli anni ‘50 e ‘60). L’esame dei titoli , che diventa poi un esame della frequenza con la quale il pianista eseguiva gli stessi in concerto, porta poi a considerare ciclicamente le stesse cose, con alcune eccezioni rappresentate ad esempio da sonate beethoveniane eseguite con minor frequenza perchè assenti dai programmi giovanili (l’op.7 e l’op.22) o il primo Scherzo di Chopin - anch’esso “riscoperto” solo alla fine degli anni ‘80 o le Variazioni Sinfoniche di Franck, mai più riprese dopo gli anni ‘40.
Le prime incisioni di Michlangeli sono state da poco riversate in cd dalla Decca e ci mostrano un giovane dandy che sfoggia una tecnica digitale impressionante in Scarlatti, una stupefacente quanto ipercostruita tecnica della differenziazione dei piani sonori nel Concerto Italiano di Bach, lo sdilinquimento puro nella Mazurka op.33 n.4 e nella Berceuse di Chopin. Viene fatto di paragonare l’atteggiamento del giovane Michelangeli a quello del giovane Horowitz delle prime incisioni : ambedue mostrano al mondo con giovanilistica sfrontatezza ciò di cui sono capaci alla tastiera. L’approccio manieristico alla Mazurka in si minore verrà più tardi abbandonato; ricordo che Michelangeli nei suoi ultimi concerti suonava questa bellissima pagina caricandola di contenuti drammatici e sottolinendone un’andatura lentissima (Nikita Magaloff e la moglie Irene, ascoltando una registrazione di un concerto di Bregenz mi rivelarono tutto il loro sconcerto di fronte a una lettura così lugubre e “tirata” : “si tratta pur sempre di una Mazurka” - gemeva Magaloff con la sua voce cantilenante attraverso la quale poteva confidare da gran signore le critiche più terribili verso i colleghi.
Alla fine degli anni ‘40 risalgono alcune importanti incisioni effettuate per la Columbia- EMI, incisioni che per lungo tempo rimarranno i riferimenti assoluti dell’arte del Maestro: dalla Ciaccona di Bach-Busoni, alla Sonata op.2/3 di Beethoven, le Brahms-Paganini. Documento live importante, anche se di scarsa qualità sonora, è la registrazione delle Variazioni Sinfoniche di Franck eseguite a Los Angeles con Wallenstein nel ‘48. Sempre a quel decennio appartengono due testimonianze scaligere: il Concerto di Grieg con Galliera e quello di Schumann con Pedrotti- non si tratta di esecuzioni pubbliche - e il quinto di Beethoven con Mario Rossi e i complessi della Rai di Torino in trasferta milanese.
Gli anni ‘50 sono documentati discograficamente quasi solamente grazie alle registrazioni dal vivo, con l’eccezione del mirabile Carnaval e dell’op.26 di Schumann incisi dalla Emi nel ‘57 a Londra. Eventi memorabili sono il ciclo mozartiano effettuato con Giulini a Roma nel ‘51 (K.415,466,488) , il recital di Arezzo del ‘52, quello di Varsavia del marzo 1955. Michelangeli era allora in giuria al Concorso Chopin e si rifiutò di firmare la pergamena del secondo premio conferito per maggioranza e non all’unanimità al giovane Ashkenazy, pensando che il concorrente meritasse molto di più.
Per tutto quel decennio Michelangeli suonerà costantemente con i complessi della Rai, cosa che ci permette fortunatamente di accedere alle relative registrazioni (il Concerto in re di Haydn e il K.450 con Caracciolo e con Rossi, il K.503 ancora con Caracciolo, il Concerto di Schumann con Rossi e il Concerto di Ravel con Sanzogno aiutano il collezionista a formare per piccoli tasselli un mosaico che rimarrà pur sempre incompiuto). Due magnifiche esecuzioni del Concerto in mi bemolle di Liszt e del K.466 di Mozart con Mitropoulos al Maggio fiorentino del ‘53 e la mitica registrazione del K.450 con Gracis e l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano (1951) completano il quadro di questi anni ruggenti.
Gli eventi più importanti della carriera italiana di Michelangeli negli anni’60 restano sicuramente il ciclo di videoriprese effettuate dalla Rai a Torino - più volte ritrasmesse e oggi commercializzate dalla Fonit Cetra - e la partecipazione alla messa in opera del Festival pianistico di Brescia e Bergamo, città nelle quali Michelangeli partecipò come solista in concerti sinfonici a cadenza annuale nel periodo 1964-1968. Il contenuto delle video registrazioni Rai costituisce un vero e proprio compendio del repertorio solistico di Michelangeli: sebbene le date di esecuzione dei concerti che abbiamo fino ad ora citato non siano per nulla in relazione alle date in cui tali concerti vennero riversati in disco e resi disponibili al pubblico, è curioso notare come il repertorio solistico incominci ad essere divulgato attraverso il pur limitato media della tv in bianco e nero a partire dal 1962, mentre le incisioni effettuate con orchestra negli anni ‘50 saranno rese pubbliche solamente negli anni settanta, quando iniziò il fenomeno della discografia live e incominciavano a scadere i famosi venti anni indispensabili per la legge italiana a rendere pubblica una esecuzione dal vivo. Il mito di Michelangeli è quindi anche alimentato nell’inconscio collettivo da una situazione di arretratezza tecnologica che non consentiva certo al pubblico italiano non avvezzo alle sale da concerto di poter seguire radiofonicamente i recital di Michelangeli in un paese in cui la Rai faceva certo del suo meglio ma non era così attiva nella divulgazione musicale del recital pianistico come potevano esserlo certe emittenti d’oltralpe.
Gli anni sessanta vedono anche il ritorno di Michelangeli sul palcoscenico del Carnegie Hall, dopo sedici anni di assenza, e l’abbozzo di altre due tournée americane, costellate a volte da rinunce che mandano in bestia il pubblico e la critica. H.Schonberg, recensendo il primo recital del febbraio 1966 e l’esecuzione del quinto di Beethoven con la New York Philarmonic - non vi so precisare chi fosse il direttore - non risparmia le cannonate anche e soprattutto a proposito dei criteri interpretativi: “un pianista che cerca di fare il Romantico senza sapere assolutamente che cosa sia l’approccio romantico all’interpretazione musicale”; “sia la Sonata op.111 che lo Scherzo in si bem.minore di Chopin erano ridotti a un insieme di dettagli e il pianoforte in se stesso e certi artifici pianistici sembravano più importanti che lo scorrimento del discorso musicale”. Certo, per noi Michelangeli non si riduce a questo. Ma vi è qualcuno che onestamente potrebbe sconfessare a ragion veduta le parole di Schonberg ?
Sul terreno discografico si comincia a capire che oramai di Michelangeli, se arriverà qualcosa - in studio o live - arriverà dall’estero. Ecco allora che sono ancora oggi in corso le pubblicazioni “unauthorized” di Ciaccone, Sonate di Beethoven (7,22,111), Chopin (35), Schubert (164) facenti parte del sempre più ristretto repertorio di quegli anni.
Il contratto con la DG aveva nel frattempo portato alla incisione di alcuni Lp di grande valore (quello tutto dedicato a Chopin, dalla copertina nerissima, la Sonata op.7 di Beethoven, proiettata in un classicismo ideale e imperfettibile, la Sonata in la minore - sempre quella! - di Schubert, le Ballate di Brahms riesumate dopo anni di silenzio, l’incisione live del ciclo beethoveniano con Giulini, incisione cui mancano i tasselli del secondo e quarto concerto, che speriamo vengano riesumati. Infine l’exploit dei due libri dei Préludes di Debussy, presentati in quel periodo spesso anche in pubblico.
Negli anni ‘70 e ‘80 il pubblico (soprattutto quello dei giovani che non lo aveva mai ascoltato) deve sobbarcarsi trasferte non certo economiche per seguire gli itinerari del pianista, che mantiene un buon livello numerico di “apparizioni”. Ricordo bene la fatica di un viaggio a Roma per sentire il Maestro suonare in Vaticano (era il 29 aprile del 1977) e la delusione di trovarsi in una sala immensa in cui era davvero difficile gustare in pieno il suono ammaliante del primo libro dei Preludi, delle Ballate di Brahms e della sempre soggiogante Sonata op.35 di Chopin, con quell’accelerando nella stretta del primo tempo che faceva venire i brividi.
Nel giugno dell’80 Michelangeli è a Brescia (quanta fatica per quel biglietto!) per un concerto straordinario in tutti i sensi: prima di tutto perchè si tiene in Italia, poi perchè viene dedicato a Papa Montini (e non a Pertini, come ha scritto qualche giornalista un po’ sprovveduto nei necrologi apparsi in occasione della morte di Michelangeli). Una sala zeppa di ammiratori e di alti prelati fa da lugubre cornice a un concerto che replica esattamente quello romano, con l’aggiunta di un Valzer come bis. Qualche giorno dopo, ascoltando una gioiosa esecuzione del quarto di Beethoven alla Scala con Brendel e Abbado pareva veramente di rinascere, di scoprire che la musica , anche quella più profonda e problematica, poteva rappresentare davvero consolazione per lo spirito e non solo una espressione di penitenza spirituale come pareva essere nel caso di Michelangeli. Il pianista suona allora spesso a Zurigo, Lugano, Bregenz, Monaco di Baviera e anche a Monaco-Principato e le cronache di quei concerti sono state ricordate anche di recente dai quotidiani. Meno noti sono gli ultimi exploit dopo l’attacco cardiaco che colpì il Maestro nell’88 a Bordeaux, ossia il periodo delle incisioni di quattro concerti mozartiani per la DG e le ultime esecuzioni pubbliche con Celibidache. Dell’ultimo lascito di Michelangeli ci aspettiamo sicuramente una proposta editoriale da parte della Sony. E saranno ancora emozioni e ricordi ad affollare la mente di noi ascoltatori.
Ferruccio Busoni in America
Piano Time, Settembre 1993

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Wilhelm Backhaus in America - Piano Time 1993

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