Recital del pianista Mikhail Pletnev
Milano, Serate Musicali, 7 Giugno 2021
Ogni nuovo appuntamento con Mikhail Pletnev è giustamente imperdibile causa l’unicità dell’arte di questo vero e proprio sopravvissuto in un mondo sempre più povero di voci che possono aggiungere qualche elemento di interesse, soprattutto nel campo del grande repertorio consolidato. L’occasione offerta dalle Serate Musicali era piuttosto ghiotta perché il programma era centrato su una scelta di dieci mazurke chopiniane, banco di prova quanto mai insidioso per qualsiasi pianista perché le difficoltà tecniche - di per sé non certo trascendentali - vanno di pari passo con quelle interpretative, che sono invece assai elevate.
Tutta la lettura delle dieci mazurke - scelte lungo l'esteso arco creativo, dall'op.6 n.4 all'op.68 n.3 - ha rivelato una sapientissima arte del tocco e della gestione dell'aspetto narrativo, che se da una parte portano all'apoteosi del manierismo e del ricordo delle grandi interpretazione dei pianisti della "golden age", dall'altra sembrano volere ammaliare il pubblico con l'unicità di un pianismo dalle qualità oramai scomparse. Tra i solisti delle generazioni successive, per ciò che riguarda le Mazurke, ho notato solamente nel polacco Rafal Blechacz una capacità introspettiva paragonabile a quella di Pletnev, ma in tal caso, e in quello di Zimerman, si coglie una sorta di rifiuto del passato, un approccio più genuino, attraverso quelle modalità che fanno sì che i pianisti polacchi possano guardare al loro conterraneo con un pizzico di orgoglio campanilistico e , perché no, di cameratismo, di rapporto privilegiato.
In tutti gli esempi Pletnev ha giustamente sottolineato l'intreccio delle voci, la struttura tripartita, esibendo un rubato di ordinanza difficile da esprimere in maniera così raffinata. In particolare si sono ascoltati bellissimi effetti timbrici e di eco nella parte centrale nell’op.6 n.1, reminiscenze danzanti nell’op. 7 n.1, il richiamo a un senso di tristezza cosmica come poteva essere evocato da uno Horowitz nell’op.17 n.4. La Mazurca op.30 n.4 in do diesis minore era straordinaria per la varietà del fraseggio così come la Mazurca op.24 n.2 in do maggiore lo era per la caratterizzazione della sezione centrale e per gli accenti inauditi nelle componenti meccaniche e ripetitive nella ripresa dell'idea principale. Appena sussurrata pareva l’op.33 n.3 in do maggiore, mentre nella Mazurca op.63 n.3 in do diesis minore la complicata tessitura contrappuntistica veniva come sottaciuta e affrontata a una velocità decisamente inferiore a quella che governa l’intera mazurka. Il ciclo che chiudeva la prima parte del programma terminava con la Mazurka op.68 n.3 in fa maggiore che, nonostante l’alto numero d’opera, risale al 1830, epoca alla quale appartiene la Mazurka dell’op.6 che aveva aperto il programma.
L’esecuzione della Sonata in si minore è parsa di stampo più tradizionale (la struttura è tale da non permettere grandi varianti) anche se qui, come spesso accade in Pletnev, le varianti stesse sembravano concepite apposta per distinguersi parzialmente dalla tradizione, con risultati forse più lodevoli dal punto di vista strettamente pianistico (il passaggio a note discendenti alla penultima battuta, legatissimo, era ad esempio da manuale) che da quello musicale. Tre bis (l'Alouette di Glinka-Balakirev, prediletto da Magaloff, la Fuga in si bem.minore dal secondo libro del "Clavicembalo", ua Sonata in re minore di Scarlatti) hanno chiuso questo recital di gran classe.
Tutta la lettura delle dieci mazurke - scelte lungo l'esteso arco creativo, dall'op.6 n.4 all'op.68 n.3 - ha rivelato una sapientissima arte del tocco e della gestione dell'aspetto narrativo, che se da una parte portano all'apoteosi del manierismo e del ricordo delle grandi interpretazione dei pianisti della "golden age", dall'altra sembrano volere ammaliare il pubblico con l'unicità di un pianismo dalle qualità oramai scomparse. Tra i solisti delle generazioni successive, per ciò che riguarda le Mazurke, ho notato solamente nel polacco Rafal Blechacz una capacità introspettiva paragonabile a quella di Pletnev, ma in tal caso, e in quello di Zimerman, si coglie una sorta di rifiuto del passato, un approccio più genuino, attraverso quelle modalità che fanno sì che i pianisti polacchi possano guardare al loro conterraneo con un pizzico di orgoglio campanilistico e , perché no, di cameratismo, di rapporto privilegiato.
In tutti gli esempi Pletnev ha giustamente sottolineato l'intreccio delle voci, la struttura tripartita, esibendo un rubato di ordinanza difficile da esprimere in maniera così raffinata. In particolare si sono ascoltati bellissimi effetti timbrici e di eco nella parte centrale nell’op.6 n.1, reminiscenze danzanti nell’op. 7 n.1, il richiamo a un senso di tristezza cosmica come poteva essere evocato da uno Horowitz nell’op.17 n.4. La Mazurca op.30 n.4 in do diesis minore era straordinaria per la varietà del fraseggio così come la Mazurca op.24 n.2 in do maggiore lo era per la caratterizzazione della sezione centrale e per gli accenti inauditi nelle componenti meccaniche e ripetitive nella ripresa dell'idea principale. Appena sussurrata pareva l’op.33 n.3 in do maggiore, mentre nella Mazurca op.63 n.3 in do diesis minore la complicata tessitura contrappuntistica veniva come sottaciuta e affrontata a una velocità decisamente inferiore a quella che governa l’intera mazurka. Il ciclo che chiudeva la prima parte del programma terminava con la Mazurka op.68 n.3 in fa maggiore che, nonostante l’alto numero d’opera, risale al 1830, epoca alla quale appartiene la Mazurka dell’op.6 che aveva aperto il programma.
L’esecuzione della Sonata in si minore è parsa di stampo più tradizionale (la struttura è tale da non permettere grandi varianti) anche se qui, come spesso accade in Pletnev, le varianti stesse sembravano concepite apposta per distinguersi parzialmente dalla tradizione, con risultati forse più lodevoli dal punto di vista strettamente pianistico (il passaggio a note discendenti alla penultima battuta, legatissimo, era ad esempio da manuale) che da quello musicale. Tre bis (l'Alouette di Glinka-Balakirev, prediletto da Magaloff, la Fuga in si bem.minore dal secondo libro del "Clavicembalo", ua Sonata in re minore di Scarlatti) hanno chiuso questo recital di gran classe.