Piano City 2018: quantità, qualità, gestione
Radio Popolare - Rotoclassica 24 Maggio 2018
Giunto alla sua settima edizione, e con un’idea che è stata riproposta in altre città italiane, Piano City è diventato oramai un appuntamento irrinunciabile per i milanesi, che si muovono volentieri e spesso non senza difficoltà per cercare di non perdere eventi di diversa natura che possono soddisfare tutte le esigenze. Rispetto ai primi esperimenti, il numero di concerti è aumentato a dismisura ma la qualità dell’organizzazione degli stessi non ha purtroppo seguito un trend prevedibile e quest’anno ha evidenziato più limiti che successi, riportando alla luce questioni complesse, non sempre facili da analizzare, che vanno anche al di là dell’aspetto puramente gestionale.
I numeri
Quattrocentosettanta appuntamenti in tre giorni sono troppi, non garantirebbero un pubblico sufficiente nemmeno se si tenessero in centri metropolitani ben più grandi del nostro e costituiscono uno spreco di risorse davvero eccessivo. Le prime edizioni puntavano su un numero di concerti decisamente più limitato evitando difficoltà di programmazione e anche di scelta da parte del pubblico, che oggi si trovava in condizione di rinunciare a molti eventi interessanti.
La logistica
La musica in genere, senza distinzioni, è una manifestazione artistica la cui fruizione non dovrebbe necessariamente essere regolamentata da un’accoglienza rigida fatta di prenotazioni, posti numerati, divieti di varia natura. Siamo d’accordo, ma all’atto pratico le cose non funzionano. Il pubblico, se invitato a titolo gratuito, ha comunque diritto all’ascolto in pace e tranquillità, nelle migliori condizioni ambientali possibili. Al di là della specificità degli eventi, questi parametri sono stati spesso elusi, costringendo persone di tutte le età a pesanti maratone nell’assenza totale di posti a sedere e di ripari dal maltempo (che puntualmente ha regalato alla città acquazzoni formidabili) e senza garanzia alcuna del rispetto delle minime condizioni che permettono appunto un ascolto vivo, partecipe, interessato, con la presenza di un viavai indefinito di passanti che a volte non c’entravano nulla con le manifestazioni e disturbavano qualsiasi tipo di concentrazione. A meno che non si voglia ammettere che nove ore di fila di sonate schubertiane o altri recital molto impegnativi possano essere offerti e recepiti nel caos più incontrollato. Il percorso da me personalmente seguito tra sabato e domenica ha purtroppo evidenziato tutti questi grossi limiti.
Piano City e l’offerta musicale milanese
Qui ci si addentra in questioni molto spinose che riguardano possibili “classifiche” e/o posizioni di mercato che non sempre coincidono con la verità ma che hanno di fatto portato un centro musicale come quello milanese - il discorso può essere ovviamente esteso in senso geografico – a ghettizzare una certa classe di solisti che non viene di solito invitata ad esibirsi nei teatri più noti. Ci sono alcune eccezioni, sicuramente, e in genere i parametri di scelta da parte delle organizzazioni musicali milanesi “ufficiali” non sono a priori contestabili, se si fondano su motivazioni che tengono conto delle classifiche redatte in base alle posizioni conquistate dagli artisti nei concorsi internazionali o alla loro conclamata bravura. Piano City ha a mio parere un senso se limita le proprie scelte artistiche a nomi che non hanno ancora avuto occasioni di farsi ascoltare attraverso i normali circuiti cittadini, con una preferenza assoluta che tenga conto del parametro dell’età. Non ha molto senso che pianisti che sono già (o dovrebbero essere) in carriera scendano a compromessi economici (leggi suonare gratuitamente) o ambientali (leggi essere investiti da schizzi d’acqua durante l’esecuzione o suonare su strumenti di discutibile qualità): scelgano costoro di astenersi dalla partecipazione a questo tipo di iniziative e di lasciare il posto alle nuove leve, che non per questo dovrebbero a loro volta accettare di suonare in condizioni proibitive. La qualità innanzitutto, con l’aggravante del fatto che la disponibilità di strumenti “buoni” e di ambienti più protetti di altri spesso non sono stati assegnati in base al valore o alla notorietà dei pianisti in gioco.
Un itinerario a caso
I percorsi di Piano City, lunghi o brevi che siano, si scelgono in base alle proprie preferenze, magari in relazione al fatto di conoscere o meno gli artisti in gioco o alla fiducia che si ripone in loro. E non sono necessariamente percorsi che riempiono il tempo in maniera ininterrotta lungo il periodo dei tre giorni, pena una notevole stanchezza e la progressiva mancanza di concentrazione da parte dell’ascoltatore. Nel mio caso, la mattina di Sabato 19 è stata la volta del giovane pianista toscano Ludovico Troncanetti, che ha preso di mira con notevole acume un repertorio del tutto desueto che si concentra sul nome del famoso pianista e compositore Anton Rubinstein, approfondito anche grazie agli insegnamenti del fuoriclasse australiano Leslie Howard. Troncanetti ha eseguito con solida tecnica e libera ispirazione la prima sonata op.21: un’esperienza molto interessante che avrebbe meritato una più appropriata “location” e uno strumento migliore del mezzacoda messo a disposizione. L’atrio di ingresso dell’Università Bocconi sarà prestigioso quanto si vuole, ma è un porto di mare attraversato da una miriade di studenti più o meno impegnati in attività correlate al loro stato (di studenti, appunto) e completamente disinteressati all’evento musicale che si stava svolgendo davanti ai loro occhi (tranne qualche isolato caso). Il pubblico, rigorosamente in piedi o accomodato alla meglio per terra o appoggiato a qualche mensola, cercava una improbabile concentrazione, disturbata anche dall’indefesso lavoro dell’addetto alla pulizia delle vetrate dell’edificio.
Nel pomeriggio era la volta di Alberto Chines, pianista siciliano di notevole musicalità e raffinato senso stilistico che ha intrattenuto gli ospiti con la grande Sonata D.960 di Schubert, preceduta da una breve Fantasia di Sweelinck e seguita, come bis, da una famosa Sonata di Domenico Scarlatti. In questo caso l’ambientazione era quella di un cortile all’inizio di Corso Garibaldi, con perfetta disposizione di posti a sedere e relativamente basso impatto sonoro da parte del circondario, nonché assenza di eventi atmosferici avversi. Per la qualità della proposta e per le condizioni al contorno questo era sicuramente un esempio che avrebbe dovuto costituire un riferimento per tutti gli altri eventi del Festival.
Il sabato era dedicato quasi interamente all’ambiziosa integrale delle sonate schubertiane ideata da Luca Ciammarughi, sul quale ovviamente, oltre all’onere organizzativo, pendeva anche la proposta sul campo di tre numeri tratti da questo corpus pianistico di immenso valore. Qui il lato negativo era però rappresentato da due aspetti che hanno messo a dura prova la pazienza di pubblico e solisti: la mancanza quasi totale di punti d’appoggio nel contesto di uno dei cortili della Rocchetta del Castello Sforzesco (leggi sedie) e la presenza di un pianoforte piuttosto mediocre. Le condizioni atmosferiche peggiorate, a partire dal pomeriggio, hanno condizionato ulteriormente lo sviluppo del progetto e causato una tipica reazione di panico da parte del pubblico nel momento in cui un violentissimo temporale si è scatenato colpendo con spruzzi d’acqua persino il fianco dello strumento e del malcapitato pianista (nientemeno che Francesco Libetta). Se al mattino la stanchezza della posizione eretta ci ha permesso comunque di apprezzare moltissimo lo stile, la classe, l’essere a proprio agio con qualsiasi comparto della letteratura pianistica propri di Emanuele Delucchi, ligure milanesizzato e ex allievo, come nel caso di Chines, del pianista e didatta milanese Davide Cabassi, l’ascolto di Libetta in mezzo ai flutti non è stato altrettanto facile. Siamo stati comunque attratti dalla sicurezza e perentorietà con le quali il pianista salentino ha affrontato la difficilissima Sonata D.850. Libetta, da grande professionista quale è, ha trasformato in positivo i limiti dello strumento, come se si trattasse di una belva da addomesticare a proprio uso e consumo, e mai forse si era ascoltata quella Sonata in una esecuzione di così grande vigore e smalto virtuosistico. I pianisti che sanno il fatto loro sanno trarre il meglio da tastiere anche infelici, e di questo si è avuto la riprova poco dopo, quando la bravissima Costanza Principe ha attaccato il suo programma schubertiano con un suono di qualità che pareva lontanissima da quella che aveva caratterizzato poco prima l’intervento di Libetta. Due mondi sonori sempre apprezzabili ma con caratteristiche molto diverse tra loro.
A non grande distanza, si sarebbe svolto all’incirca dopo un’ora, il recital beethoveniano di Davide Cabassi, pianista che in questo periodo è particolarmente devoto al grande Ludwig (sta incidendo l’integrale delle sonate per la Decca). Siamo arrivati al GAM (che una volta si chiamava più semplicemente “Villa Reale”) sotto un secondo temporale che ha ulteriormente complicato la situazione. Nei giardini della Villa di Via Palestro, oltre all’acqua si era formata pure una spiacevole fanghiglia e l’ascolto di Cabassi, rigorosamente senza alcun tipo di posto a sedere, è stato particolarmente difficoltoso (tutti i presenti avevano aperto gli ombrelli) e parzialmente migliorato dalla presenza di un sistema di amplificazione che convogliava il suono delle Sonate opp.13, 27 n.2 e 57.
Una breve sosta a casa, giusto per cambiarsi d’abito (inzuppato dall’acqua) e poi via sull’ascensore per la terrazza superiore del Pirellone, dove alle 22 suonava Orazio Sciortino. Questa volta l’ambiente era più che riparato e le condizioni d’ascolto ottimali. Il pianista di origine siracusana, ma da tempo cittadino milanese, ha offerto con la consueta sicurezza e sensibilità un programma composto dalla Sonata K.570 di Mozart, dalla Fantasia op.28 di Mendelssohn e da una breve serie di trascrizioni di lieder di Liszt, ridotti per pianoforte solo dallo stesso autore. Un programma “notturno” che è stato accolto con piacere e molti applausi dal pubblico e che ha siglato la conclusione dell’intera manifestazione.
I numeri
Quattrocentosettanta appuntamenti in tre giorni sono troppi, non garantirebbero un pubblico sufficiente nemmeno se si tenessero in centri metropolitani ben più grandi del nostro e costituiscono uno spreco di risorse davvero eccessivo. Le prime edizioni puntavano su un numero di concerti decisamente più limitato evitando difficoltà di programmazione e anche di scelta da parte del pubblico, che oggi si trovava in condizione di rinunciare a molti eventi interessanti.
La logistica
La musica in genere, senza distinzioni, è una manifestazione artistica la cui fruizione non dovrebbe necessariamente essere regolamentata da un’accoglienza rigida fatta di prenotazioni, posti numerati, divieti di varia natura. Siamo d’accordo, ma all’atto pratico le cose non funzionano. Il pubblico, se invitato a titolo gratuito, ha comunque diritto all’ascolto in pace e tranquillità, nelle migliori condizioni ambientali possibili. Al di là della specificità degli eventi, questi parametri sono stati spesso elusi, costringendo persone di tutte le età a pesanti maratone nell’assenza totale di posti a sedere e di ripari dal maltempo (che puntualmente ha regalato alla città acquazzoni formidabili) e senza garanzia alcuna del rispetto delle minime condizioni che permettono appunto un ascolto vivo, partecipe, interessato, con la presenza di un viavai indefinito di passanti che a volte non c’entravano nulla con le manifestazioni e disturbavano qualsiasi tipo di concentrazione. A meno che non si voglia ammettere che nove ore di fila di sonate schubertiane o altri recital molto impegnativi possano essere offerti e recepiti nel caos più incontrollato. Il percorso da me personalmente seguito tra sabato e domenica ha purtroppo evidenziato tutti questi grossi limiti.
Piano City e l’offerta musicale milanese
Qui ci si addentra in questioni molto spinose che riguardano possibili “classifiche” e/o posizioni di mercato che non sempre coincidono con la verità ma che hanno di fatto portato un centro musicale come quello milanese - il discorso può essere ovviamente esteso in senso geografico – a ghettizzare una certa classe di solisti che non viene di solito invitata ad esibirsi nei teatri più noti. Ci sono alcune eccezioni, sicuramente, e in genere i parametri di scelta da parte delle organizzazioni musicali milanesi “ufficiali” non sono a priori contestabili, se si fondano su motivazioni che tengono conto delle classifiche redatte in base alle posizioni conquistate dagli artisti nei concorsi internazionali o alla loro conclamata bravura. Piano City ha a mio parere un senso se limita le proprie scelte artistiche a nomi che non hanno ancora avuto occasioni di farsi ascoltare attraverso i normali circuiti cittadini, con una preferenza assoluta che tenga conto del parametro dell’età. Non ha molto senso che pianisti che sono già (o dovrebbero essere) in carriera scendano a compromessi economici (leggi suonare gratuitamente) o ambientali (leggi essere investiti da schizzi d’acqua durante l’esecuzione o suonare su strumenti di discutibile qualità): scelgano costoro di astenersi dalla partecipazione a questo tipo di iniziative e di lasciare il posto alle nuove leve, che non per questo dovrebbero a loro volta accettare di suonare in condizioni proibitive. La qualità innanzitutto, con l’aggravante del fatto che la disponibilità di strumenti “buoni” e di ambienti più protetti di altri spesso non sono stati assegnati in base al valore o alla notorietà dei pianisti in gioco.
Un itinerario a caso
I percorsi di Piano City, lunghi o brevi che siano, si scelgono in base alle proprie preferenze, magari in relazione al fatto di conoscere o meno gli artisti in gioco o alla fiducia che si ripone in loro. E non sono necessariamente percorsi che riempiono il tempo in maniera ininterrotta lungo il periodo dei tre giorni, pena una notevole stanchezza e la progressiva mancanza di concentrazione da parte dell’ascoltatore. Nel mio caso, la mattina di Sabato 19 è stata la volta del giovane pianista toscano Ludovico Troncanetti, che ha preso di mira con notevole acume un repertorio del tutto desueto che si concentra sul nome del famoso pianista e compositore Anton Rubinstein, approfondito anche grazie agli insegnamenti del fuoriclasse australiano Leslie Howard. Troncanetti ha eseguito con solida tecnica e libera ispirazione la prima sonata op.21: un’esperienza molto interessante che avrebbe meritato una più appropriata “location” e uno strumento migliore del mezzacoda messo a disposizione. L’atrio di ingresso dell’Università Bocconi sarà prestigioso quanto si vuole, ma è un porto di mare attraversato da una miriade di studenti più o meno impegnati in attività correlate al loro stato (di studenti, appunto) e completamente disinteressati all’evento musicale che si stava svolgendo davanti ai loro occhi (tranne qualche isolato caso). Il pubblico, rigorosamente in piedi o accomodato alla meglio per terra o appoggiato a qualche mensola, cercava una improbabile concentrazione, disturbata anche dall’indefesso lavoro dell’addetto alla pulizia delle vetrate dell’edificio.
Nel pomeriggio era la volta di Alberto Chines, pianista siciliano di notevole musicalità e raffinato senso stilistico che ha intrattenuto gli ospiti con la grande Sonata D.960 di Schubert, preceduta da una breve Fantasia di Sweelinck e seguita, come bis, da una famosa Sonata di Domenico Scarlatti. In questo caso l’ambientazione era quella di un cortile all’inizio di Corso Garibaldi, con perfetta disposizione di posti a sedere e relativamente basso impatto sonoro da parte del circondario, nonché assenza di eventi atmosferici avversi. Per la qualità della proposta e per le condizioni al contorno questo era sicuramente un esempio che avrebbe dovuto costituire un riferimento per tutti gli altri eventi del Festival.
Il sabato era dedicato quasi interamente all’ambiziosa integrale delle sonate schubertiane ideata da Luca Ciammarughi, sul quale ovviamente, oltre all’onere organizzativo, pendeva anche la proposta sul campo di tre numeri tratti da questo corpus pianistico di immenso valore. Qui il lato negativo era però rappresentato da due aspetti che hanno messo a dura prova la pazienza di pubblico e solisti: la mancanza quasi totale di punti d’appoggio nel contesto di uno dei cortili della Rocchetta del Castello Sforzesco (leggi sedie) e la presenza di un pianoforte piuttosto mediocre. Le condizioni atmosferiche peggiorate, a partire dal pomeriggio, hanno condizionato ulteriormente lo sviluppo del progetto e causato una tipica reazione di panico da parte del pubblico nel momento in cui un violentissimo temporale si è scatenato colpendo con spruzzi d’acqua persino il fianco dello strumento e del malcapitato pianista (nientemeno che Francesco Libetta). Se al mattino la stanchezza della posizione eretta ci ha permesso comunque di apprezzare moltissimo lo stile, la classe, l’essere a proprio agio con qualsiasi comparto della letteratura pianistica propri di Emanuele Delucchi, ligure milanesizzato e ex allievo, come nel caso di Chines, del pianista e didatta milanese Davide Cabassi, l’ascolto di Libetta in mezzo ai flutti non è stato altrettanto facile. Siamo stati comunque attratti dalla sicurezza e perentorietà con le quali il pianista salentino ha affrontato la difficilissima Sonata D.850. Libetta, da grande professionista quale è, ha trasformato in positivo i limiti dello strumento, come se si trattasse di una belva da addomesticare a proprio uso e consumo, e mai forse si era ascoltata quella Sonata in una esecuzione di così grande vigore e smalto virtuosistico. I pianisti che sanno il fatto loro sanno trarre il meglio da tastiere anche infelici, e di questo si è avuto la riprova poco dopo, quando la bravissima Costanza Principe ha attaccato il suo programma schubertiano con un suono di qualità che pareva lontanissima da quella che aveva caratterizzato poco prima l’intervento di Libetta. Due mondi sonori sempre apprezzabili ma con caratteristiche molto diverse tra loro.
A non grande distanza, si sarebbe svolto all’incirca dopo un’ora, il recital beethoveniano di Davide Cabassi, pianista che in questo periodo è particolarmente devoto al grande Ludwig (sta incidendo l’integrale delle sonate per la Decca). Siamo arrivati al GAM (che una volta si chiamava più semplicemente “Villa Reale”) sotto un secondo temporale che ha ulteriormente complicato la situazione. Nei giardini della Villa di Via Palestro, oltre all’acqua si era formata pure una spiacevole fanghiglia e l’ascolto di Cabassi, rigorosamente senza alcun tipo di posto a sedere, è stato particolarmente difficoltoso (tutti i presenti avevano aperto gli ombrelli) e parzialmente migliorato dalla presenza di un sistema di amplificazione che convogliava il suono delle Sonate opp.13, 27 n.2 e 57.
Una breve sosta a casa, giusto per cambiarsi d’abito (inzuppato dall’acqua) e poi via sull’ascensore per la terrazza superiore del Pirellone, dove alle 22 suonava Orazio Sciortino. Questa volta l’ambiente era più che riparato e le condizioni d’ascolto ottimali. Il pianista di origine siracusana, ma da tempo cittadino milanese, ha offerto con la consueta sicurezza e sensibilità un programma composto dalla Sonata K.570 di Mozart, dalla Fantasia op.28 di Mendelssohn e da una breve serie di trascrizioni di lieder di Liszt, ridotti per pianoforte solo dallo stesso autore. Un programma “notturno” che è stato accolto con piacere e molti applausi dal pubblico e che ha siglato la conclusione dell’intera manifestazione.