Rossini - Petite Messe solennelle
Milano, Teatro alla Scala, Giugno 1992
Sipario

Concertatore e Direttore:Sir Neville Marriner. Coro
del Teatro alla Scala. Direttore del Coro Roberto Gabbiani. Interpreti:Anna
Caterina Antonacci, Luciana D'Intino, Vincenzo La Scola, Dean
Peterson.Milano,Teatro alla Scala.
Il primo concerto per la riapertura della stagione sinfonica della Scala dopo la pausa estiva ha tirato ancora in causa il Rossini del Bicentenario, con una esecuzione corretta e a tratti ispirata dell'ultimo capolavoro del musicista pesarese. Precisiamo subito che l'accoglienza non eccessivamente entusiastica del pubblico scaligero - sempre più elegante quanto apparentemente lontano dai problemi sociali, economici, politici che travagliano il nostro paese - è da ricercarsi principalmente nella scelta operata dalla Direzione Artistica del Teatro di eseguire la seconda versione di questa Messa enigmatica e affascinante.
E'a tutti noto che la partitura originale della Messa, composta nel 1863, prevede un organico assai singolare composto da quattro voci soliste, il coro e l'accompagnamento di due pianoforti e di un Harmonium.
In questa prima versione, di una modernità impressionante per il sapientissimo impasto timbrico, la Messa ha sempre conosciuto un successo di pubblico straordinario e ha ovviamente entusiasmato studiosi e critici dell'arte rossiniana. Quegli stessi studiosi e critici che non hanno mai digerito del tutto quella versione orchestrale, approntata dal medesimo Rossini nel 1867 in vista di una possibile esecuzione pubblica della Messa in una basilica parigina.
Anche una grandissima orchestra in piena forma non può rendere gradevole questo ripensamento della Messa, che va a perdere tutti quei caratteri di intimità cameristica propri della versione originale. Oltretutto Sir Neville Marriner, con una direzione secca e spigolosa, non ha per nulla aiutato la compagine strumentale a ritrovare quell'atmosfera che rende così affascinante l'impasto timbrico dei pianoforti e dell'harmonium. Lode incondizionata invece al Coro, preparato da Gabbiani e ancora in parte memore delle bellissime recite della Messa ai tempi di Gandolfi, quando negli anni '70 il lavoro di Rosssini era stato presentato più volte alla Scala nella versione originale. La Messa pretenderebbe un quartetto vocale di altissimo livello, non tanto per le difficoltà insite nella partitura quanto per l'impegno interpretativo che tale musica richiede. Tranne il basso Dean Peterson, nessuno degli altri cantanti ci è sembrato all'altezza della situazione; neppure quell'Antonacci, specialista nel campo del Rossini serio giovanile (si ricorderà la sua Elisabetta al San Carlo), stilisticamente ragguardevole ma poco incline a prendere sul serio questa Messa, tanto lontana dai fervori religiosi quanto profondamente ispirata e rivoluzionaria nel suo irripetibile linguaggio musicale.
Il primo concerto per la riapertura della stagione sinfonica della Scala dopo la pausa estiva ha tirato ancora in causa il Rossini del Bicentenario, con una esecuzione corretta e a tratti ispirata dell'ultimo capolavoro del musicista pesarese. Precisiamo subito che l'accoglienza non eccessivamente entusiastica del pubblico scaligero - sempre più elegante quanto apparentemente lontano dai problemi sociali, economici, politici che travagliano il nostro paese - è da ricercarsi principalmente nella scelta operata dalla Direzione Artistica del Teatro di eseguire la seconda versione di questa Messa enigmatica e affascinante.
E'a tutti noto che la partitura originale della Messa, composta nel 1863, prevede un organico assai singolare composto da quattro voci soliste, il coro e l'accompagnamento di due pianoforti e di un Harmonium.
In questa prima versione, di una modernità impressionante per il sapientissimo impasto timbrico, la Messa ha sempre conosciuto un successo di pubblico straordinario e ha ovviamente entusiasmato studiosi e critici dell'arte rossiniana. Quegli stessi studiosi e critici che non hanno mai digerito del tutto quella versione orchestrale, approntata dal medesimo Rossini nel 1867 in vista di una possibile esecuzione pubblica della Messa in una basilica parigina.
Anche una grandissima orchestra in piena forma non può rendere gradevole questo ripensamento della Messa, che va a perdere tutti quei caratteri di intimità cameristica propri della versione originale. Oltretutto Sir Neville Marriner, con una direzione secca e spigolosa, non ha per nulla aiutato la compagine strumentale a ritrovare quell'atmosfera che rende così affascinante l'impasto timbrico dei pianoforti e dell'harmonium. Lode incondizionata invece al Coro, preparato da Gabbiani e ancora in parte memore delle bellissime recite della Messa ai tempi di Gandolfi, quando negli anni '70 il lavoro di Rosssini era stato presentato più volte alla Scala nella versione originale. La Messa pretenderebbe un quartetto vocale di altissimo livello, non tanto per le difficoltà insite nella partitura quanto per l'impegno interpretativo che tale musica richiede. Tranne il basso Dean Peterson, nessuno degli altri cantanti ci è sembrato all'altezza della situazione; neppure quell'Antonacci, specialista nel campo del Rossini serio giovanile (si ricorderà la sua Elisabetta al San Carlo), stilisticamente ragguardevole ma poco incline a prendere sul serio questa Messa, tanto lontana dai fervori religiosi quanto profondamente ispirata e rivoluzionaria nel suo irripetibile linguaggio musicale.
Shostakovic - Una lady Macbeth del distretto di Mzensk
Milano, Teatro alla Scala, Aprile 1992

Concertatore e Direttore:Myung-Whun
Chung.Regia:Andrè Engel.Scene:Nicky Rieti.Costumi:Nicky Rieti e Nicole
Galerne.Interpreti:Aage Haugland, Paolo Barbacini, Mary Jane Johnson, Jacques
Trussel.Milano,Teatro alla Scala.
Il 28 gennaio 1936 - due anni erano trascorsi dalla prima esecuzione a Leningrado del capolavoro teatrale di Sciostakovic, Lady Macbeth del Distretto di Mcensk - il musicista si trovava in viaggio con V.Kubatsky, lo strumentista che Shostakovic avrebbe accompagnato nell'esecuzione della propria nuova Sonata per violoncello e pianoforte. L'attenzione di Shostakovic venne ad un tratto attirata da un articolo di terza pagina della Pravda, intitolato "Il Caos al posto della musica".
L'articolo altro non era che un violento attacco contro Lady Macbeth, la cui musica, secondo l'estensore, era tale per cui "fin dal primo momento l'ascoltatore è sconvolto da una sequenza di suoni confusa e deliberatamente dissonante...frammenti di melodia,frasi embrionalmente compiute affiorano talvolta solo per scomparire di nuovo nel frastuono e nelle urla...".
Una critica così distruttiva e inappellabile non poteva che provenire da Andrei Zdanov, portavoce di Stalin per gli Affari Culturali nel Comitato Centrale del Partito . Stalin intendeva così condannare definitivamente ogni tentativo di apertura dei circoli musicali sovietici verso le "pericolose" tendenze della musica occidentale,colpevole di porre in crisi le basi del Realismo Socialista.
Questo episodio ha sempre condizionato qualsiasi riflessione sui lavori composti da Shostakovic a partire dalla fine degli anni '30. Per questo motivo l'ascolto - del tutto infrequente - dell'opera che si era rivelata come causa scatenante dei conflitti tra l'Autore e il potere politico suscita emozioni profonde che potrebbero persino relegare in secondo piano le considerazioni critiche sulla esecuzione o sulla efficacia della regia. Quando poi la lettura della infuocata partitura di Shostakovic assume i connotati trascinanti impressi dalla bacchetta di Chung, quando gli interpreti tutti, a partire dalla protagonista Mary Jane Johnson, oltre ad assolvere al meglio la loro opera sul piano squisitamente vocale-interpretativo agiscono sul palcoscenico in perfetta adesione a una regia intelligente, priva della presunzione culturale di tanti allestimenti nostrani, ecco che l'emozione si moltiplica e porta il recensore ad approvare a pieni voti la penultima scelta del cartellone scaligero di quest'anno.
Scelta che si era dunque appuntata su una collaudatissima produzione dell'Opéra-Bastille e che si reggeva teatralmente sulla regia di Andrè Engel e sulle scene e i costumi di Nicky Rieti e Nicole Galerne. Engel, sorretto in pieno dalla lettura di Chung, ha fatto comprendere esattamente quanto radicale fosse l'atteggiamento di Shostakovic verso il regime e quanto l'antica accusa di formalismo da parte dell'establishment celasse invece una preoccupata reazione contro il tipo di messaggio eversivo e anti-borghese che trapelava dalla trasposizione in musica delle gesta di questa Lady Macbeth, l'eroina dell'omonimo racconto di Nikolaj Leskov.
L'opera di Shostakovic si inserisce indubbiamente nel filone di quelle poche cose importanti che sono state prodotte dal teatro musicale del novecento, e in particolare è al Wozzeck e alla Lulu di Berg che il pensiero corre più spontaneamente. In Lady Macbeth gli assassini e la visione del sangue, persino l'ultimo fatale gesto dell'annegamento, non riescono ad evocare con la stessa efficacia il clima di angoscia e di lugubre ineluttabilità che è proprio delle analoghe situazioni di Wozzeck. Ed è proprio la musica di Shostakovic, assai lontana dal glaciale espressionismo di Berg, che contribuisce con un linguaggio quanto mai eclettico a deviare l'attenzione da un percorso narrativo uniforme. I frequenti richiami a stili e suggestioni spesso tra loro contrastanti, la mancata rinuncia a un virtuosismo orchestrale memore ancora dei fasti korsakoviani, se contribuisce da un lato a determinare una mancanza di unitarietà drammatica, infonde dall'altro alla partitura una vitalità dirompente che regge ancora oggi alla prova dei fatti.
Chung si è fatto letteralmente travolgere dal linguaggio di questo lavoro emblematico e ha offerto al pubblico una lettura che forse non si poteva immaginare più infuocata. Ma l'esito straordinariamente positivo dello spettacolo è stato determinato dalla somma degli effetti musicali e degli aspetti legati più direttamente al palcoscenico. Engel ha portato i protagonisti verso una recitazione molto vicina a un realismo cinematografico, ed è questo l'aspetto che probabilmente ha più coinvolto un pubblico che generalmente non si dimostra tenero verso le partiture teatrali del nostro secolo. Mary Jane Johnson e Jacques Trussel sono stati quindi più valutati per la loro presenza scenica e l' indiscutibile avvenenza (cosa tutt'altro che frequenti nelle produzioni liriche) che per il pur notevole contributo vocale. Altrettanto a proprio agio nella caratterizzazione del loro non facile ruolo sono apparsi Aage Haugland, il terribile suocero, e Paolo Barbacini, degno figlio di tal padre.
Alla serata felicissima della prima rappresentazione ha assistito anche la vedova del compositore, Irina, in veste di ambasciatrice di una Fondazione Shostakovic che si prepara ad affrontare degnamente le celebrazioni per il ventennale della morte del compositore.
Il 28 gennaio 1936 - due anni erano trascorsi dalla prima esecuzione a Leningrado del capolavoro teatrale di Sciostakovic, Lady Macbeth del Distretto di Mcensk - il musicista si trovava in viaggio con V.Kubatsky, lo strumentista che Shostakovic avrebbe accompagnato nell'esecuzione della propria nuova Sonata per violoncello e pianoforte. L'attenzione di Shostakovic venne ad un tratto attirata da un articolo di terza pagina della Pravda, intitolato "Il Caos al posto della musica".
L'articolo altro non era che un violento attacco contro Lady Macbeth, la cui musica, secondo l'estensore, era tale per cui "fin dal primo momento l'ascoltatore è sconvolto da una sequenza di suoni confusa e deliberatamente dissonante...frammenti di melodia,frasi embrionalmente compiute affiorano talvolta solo per scomparire di nuovo nel frastuono e nelle urla...".
Una critica così distruttiva e inappellabile non poteva che provenire da Andrei Zdanov, portavoce di Stalin per gli Affari Culturali nel Comitato Centrale del Partito . Stalin intendeva così condannare definitivamente ogni tentativo di apertura dei circoli musicali sovietici verso le "pericolose" tendenze della musica occidentale,colpevole di porre in crisi le basi del Realismo Socialista.
Questo episodio ha sempre condizionato qualsiasi riflessione sui lavori composti da Shostakovic a partire dalla fine degli anni '30. Per questo motivo l'ascolto - del tutto infrequente - dell'opera che si era rivelata come causa scatenante dei conflitti tra l'Autore e il potere politico suscita emozioni profonde che potrebbero persino relegare in secondo piano le considerazioni critiche sulla esecuzione o sulla efficacia della regia. Quando poi la lettura della infuocata partitura di Shostakovic assume i connotati trascinanti impressi dalla bacchetta di Chung, quando gli interpreti tutti, a partire dalla protagonista Mary Jane Johnson, oltre ad assolvere al meglio la loro opera sul piano squisitamente vocale-interpretativo agiscono sul palcoscenico in perfetta adesione a una regia intelligente, priva della presunzione culturale di tanti allestimenti nostrani, ecco che l'emozione si moltiplica e porta il recensore ad approvare a pieni voti la penultima scelta del cartellone scaligero di quest'anno.
Scelta che si era dunque appuntata su una collaudatissima produzione dell'Opéra-Bastille e che si reggeva teatralmente sulla regia di Andrè Engel e sulle scene e i costumi di Nicky Rieti e Nicole Galerne. Engel, sorretto in pieno dalla lettura di Chung, ha fatto comprendere esattamente quanto radicale fosse l'atteggiamento di Shostakovic verso il regime e quanto l'antica accusa di formalismo da parte dell'establishment celasse invece una preoccupata reazione contro il tipo di messaggio eversivo e anti-borghese che trapelava dalla trasposizione in musica delle gesta di questa Lady Macbeth, l'eroina dell'omonimo racconto di Nikolaj Leskov.
L'opera di Shostakovic si inserisce indubbiamente nel filone di quelle poche cose importanti che sono state prodotte dal teatro musicale del novecento, e in particolare è al Wozzeck e alla Lulu di Berg che il pensiero corre più spontaneamente. In Lady Macbeth gli assassini e la visione del sangue, persino l'ultimo fatale gesto dell'annegamento, non riescono ad evocare con la stessa efficacia il clima di angoscia e di lugubre ineluttabilità che è proprio delle analoghe situazioni di Wozzeck. Ed è proprio la musica di Shostakovic, assai lontana dal glaciale espressionismo di Berg, che contribuisce con un linguaggio quanto mai eclettico a deviare l'attenzione da un percorso narrativo uniforme. I frequenti richiami a stili e suggestioni spesso tra loro contrastanti, la mancata rinuncia a un virtuosismo orchestrale memore ancora dei fasti korsakoviani, se contribuisce da un lato a determinare una mancanza di unitarietà drammatica, infonde dall'altro alla partitura una vitalità dirompente che regge ancora oggi alla prova dei fatti.
Chung si è fatto letteralmente travolgere dal linguaggio di questo lavoro emblematico e ha offerto al pubblico una lettura che forse non si poteva immaginare più infuocata. Ma l'esito straordinariamente positivo dello spettacolo è stato determinato dalla somma degli effetti musicali e degli aspetti legati più direttamente al palcoscenico. Engel ha portato i protagonisti verso una recitazione molto vicina a un realismo cinematografico, ed è questo l'aspetto che probabilmente ha più coinvolto un pubblico che generalmente non si dimostra tenero verso le partiture teatrali del nostro secolo. Mary Jane Johnson e Jacques Trussel sono stati quindi più valutati per la loro presenza scenica e l' indiscutibile avvenenza (cosa tutt'altro che frequenti nelle produzioni liriche) che per il pur notevole contributo vocale. Altrettanto a proprio agio nella caratterizzazione del loro non facile ruolo sono apparsi Aage Haugland, il terribile suocero, e Paolo Barbacini, degno figlio di tal padre.
Alla serata felicissima della prima rappresentazione ha assistito anche la vedova del compositore, Irina, in veste di ambasciatrice di una Fondazione Shostakovic che si prepara ad affrontare degnamente le celebrazioni per il ventennale della morte del compositore.
Concerto del pianista Maurizio Pollini
Orchestra Filarmonica della Scala
Direttore Riccardo Muti
Milano, Teatro alla Scala, 23 Maggio 1991
Sipario

Il termine "incontro al vertice" viene spesso
utilizzato ogniqualvolta si voglia descrivere una esecuzione musicale da parte
di due o più interpreti di grande valore che abitualmente non suonano assieme.
L'incontro ha dunque un carattere di eccezionalità e solo raramente diventa
l'inizio di una collaborazione continuativa. Già questa considerazione ci porta
a constatare come l'"incontro al vertice" rappresenti un grande
evento che porta quasi sempre l'ascoltatore di fronte a una "esecuzione al
vertice".Questa può peraltro non corrispondere a una "interpretazione al vertice" dell'opera eseguita.
Le distinzioni non sembrino banali nè tantomeno astratte. Sono documentati dalla storia del disco degli incontri tra grandi personaggi che hanno prodotto delle ottime esecuzioni ma delle non altrettanto memorabili interpretazioni (ad esempio il terzo concerto di Beethoven con Rubinstein e Toscanini, testimoni di un incontro al vertice mai più ripetuto, di una esecuzione al vertice, ma non di una interpretazione al vertice). Uno dei massimi incontri di questo tipo è stato ad esempio quello tra Cortot,Thibaud e Casals, un incontro che si è rivelato estremamente fruttuoso anche dal lato interpretativo e che oltretutto ha portato alla costituzione di un trio leggendario di carattere quasi stabile nel tempo.
Il concerto che si è tenuto alla Scala il 23 maggio scorso (con replica il giorno seguente, in memoria di Paolo Grassi) era all'insegna di un incontro al vertice che aveva come protagonisti Riccardo Muti e Maurizio Pollini. L'eccezionalità dell'avvenimento era dovuta al fatto che i due grandi interpreti avevano suonato assieme solamente un paio di volte: la prima più di vent'anni fa a Milano e la seconda più recentemente negli Stati Uniti. L'incontro rappresentava in pratica una novità assoluta per il pubblico e l'attesa per questo evento musicale era grandissima. Non sappiamo se l'incontro porterà a una collaborazione stabile tra i due artisti; possiamo solamente dire che l'esecuzione del primo concerto di Brahms non ha raggiunto quegli apici interpretativi che una parte del pubblico poteva forse attendere. L'origine di un mancato accordo tra Pollini e Muti non coglie di sorpresa invece chi ha seguito le carriere e l'evoluzione interpretativa dei due grandi artisti: il Brahms di Muti, eroico, beethoveniano, non ha nulla a che vedere con quello decadente e intriso di umori mitteleuropei di Abbado, il direttore che storicamente aveva maggiormente collaborato con il pianista milanese nelle non più dimenticate esecuzioni pubbliche dei due concerti per pianoforte e orchestra. Pollini non è un solista che modifica facilmente la propria linea interpretativa a seconda del partner con il quale collabora e non dimentichiamo che egli seppe in passato troncare, in seguito ad una sola esecuzione del Concerto di Schumann, il sodalizio artistico più prestigioso possibile, ossia quello con Karajan. La pur lodevole volontà di ritornare a porre le basi per un lavoro continuativo con Muti non ci è parsa produrre buoni frutti: Pollini ha proseguito per la sua strada frenando in qualche momento la propria meravigliosa determinazione pianistica per assecondare l'impostazione piuttosto enfatica di Muti. Da parte sua il direttore ha saputo sottolineare alcuni dettagli orchestrali del tutto trascurati dagli innumerevoli interpreti presenti e passati di questa pagina famosa: impresa non certo facile che si è andata a sommare alla lettura smagliante delle partiture di Busoni e di Skriabin che completavano il programma. Un grandissimo successo di pubblico ha comunque accompagnato tutte le esecuzioni e una particolare ovazione ha accolto il termine di un incontro al vertice tra i più problematici da noi ascoltati negli ultimi anni.
Le distinzioni non sembrino banali nè tantomeno astratte. Sono documentati dalla storia del disco degli incontri tra grandi personaggi che hanno prodotto delle ottime esecuzioni ma delle non altrettanto memorabili interpretazioni (ad esempio il terzo concerto di Beethoven con Rubinstein e Toscanini, testimoni di un incontro al vertice mai più ripetuto, di una esecuzione al vertice, ma non di una interpretazione al vertice). Uno dei massimi incontri di questo tipo è stato ad esempio quello tra Cortot,Thibaud e Casals, un incontro che si è rivelato estremamente fruttuoso anche dal lato interpretativo e che oltretutto ha portato alla costituzione di un trio leggendario di carattere quasi stabile nel tempo.
Il concerto che si è tenuto alla Scala il 23 maggio scorso (con replica il giorno seguente, in memoria di Paolo Grassi) era all'insegna di un incontro al vertice che aveva come protagonisti Riccardo Muti e Maurizio Pollini. L'eccezionalità dell'avvenimento era dovuta al fatto che i due grandi interpreti avevano suonato assieme solamente un paio di volte: la prima più di vent'anni fa a Milano e la seconda più recentemente negli Stati Uniti. L'incontro rappresentava in pratica una novità assoluta per il pubblico e l'attesa per questo evento musicale era grandissima. Non sappiamo se l'incontro porterà a una collaborazione stabile tra i due artisti; possiamo solamente dire che l'esecuzione del primo concerto di Brahms non ha raggiunto quegli apici interpretativi che una parte del pubblico poteva forse attendere. L'origine di un mancato accordo tra Pollini e Muti non coglie di sorpresa invece chi ha seguito le carriere e l'evoluzione interpretativa dei due grandi artisti: il Brahms di Muti, eroico, beethoveniano, non ha nulla a che vedere con quello decadente e intriso di umori mitteleuropei di Abbado, il direttore che storicamente aveva maggiormente collaborato con il pianista milanese nelle non più dimenticate esecuzioni pubbliche dei due concerti per pianoforte e orchestra. Pollini non è un solista che modifica facilmente la propria linea interpretativa a seconda del partner con il quale collabora e non dimentichiamo che egli seppe in passato troncare, in seguito ad una sola esecuzione del Concerto di Schumann, il sodalizio artistico più prestigioso possibile, ossia quello con Karajan. La pur lodevole volontà di ritornare a porre le basi per un lavoro continuativo con Muti non ci è parsa produrre buoni frutti: Pollini ha proseguito per la sua strada frenando in qualche momento la propria meravigliosa determinazione pianistica per assecondare l'impostazione piuttosto enfatica di Muti. Da parte sua il direttore ha saputo sottolineare alcuni dettagli orchestrali del tutto trascurati dagli innumerevoli interpreti presenti e passati di questa pagina famosa: impresa non certo facile che si è andata a sommare alla lettura smagliante delle partiture di Busoni e di Skriabin che completavano il programma. Un grandissimo successo di pubblico ha comunque accompagnato tutte le esecuzioni e una particolare ovazione ha accolto il termine di un incontro al vertice tra i più problematici da noi ascoltati negli ultimi anni.
Verdi - La traviata
Napoli, Teatro San Carlo, Maggio 1991
Sipario

Maestro Concertatore e Direttore:Rico
Saccani.Regia:Alberto Fassini.Scene e costumi: Pier Luigi
Samaritani.Interpreti:Tiziana Fabbricini,Roberto Alagna,Paolo Coni,Laura
Zannini,Lidia Banditelli,Antonio de Palma,Giuseppe Zecchillo,Guido
Pasella,Carlo del Bosco,Luigi Paolillo.
Orchestra e Coro del Teatro di S.Carlo.Maestro del Coro:Giacomo Maggiore. Compagnia di balletto del Teatro di S.Carlo. Coreografia:Gabriella Borni.
Che lo si voglia ammettere o no, il progetto voluto due anni fa da Riccardo Muti di mettere in scena una Traviata alla Scala con una coppia di protagonisti giovani e sconosciuti ha rappresentato un atto di coraggio eccezionale, atto che è stato ripagato con un successo che è andato al di là di ogni più rosea previsione. Tra le tante cose che si erano dette e scritte in quella occasione c'era stata anche l'ipotesi secondo la quale Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e il più maturo e conosciuto Paolo Coni non avrebbero potuto ripetere il miracolo di una serie di recite felicissime se a guidare l'impresa non ci fosse stata sempre e comunque la bacchetta di un direttore come Muti. Anche per questo motivo la nuova messa in scena di Traviata al San Carlo di Napoli, che annoverava gli stessi interpreti principali, guidati questa volta da Rico Saccani, destava grande curiosità e interesse.
Diciamo subito che lo spettacolo napoletano è riuscito a replicare lo stesso incanto di una partecipazione vocale e scenica davvero travolgente da parte dei tre protagonisti, nonostante gli elementi al contorno si siano rivelati piuttosto inadeguati a reggere il confronto con la produzione scaligera. Segno questo che proprio nella bravura di questi interpreti si trovava riposto in gran parte il segreto di uno dei più convinti successi teatrali di questi anni. Nella concertazione di Rico Saccani mancavano certo tutte le raffinatezze rivelate da un Muti, anche se la sua lettura si è mantenuta su un livello decisamente accettabile, con qualche effetto sgradevole bilanciato da una partecipazione assai intensa nei momenti più infuocati del capolavoro verdiano. Del tutto anti-funzionali e francamente povere sono apparse invece le scene di Pier Luigi Samaritani, uomo di teatro peraltro ammirato in diverse occasioni passate. Samaritani, e con lui il regista Fassini, ha spezzato l'ambientazione delle due grandi scene di festa, in casa di Violetta prima e poi nel palazzo di Flora Bervoix, creando una suddivisione fittizia che isolava evidentemente il dramma dei protagonisti dal clima mondano generale. Samaritani ha infatti marcato la contrapposizione tra la vicenda umana dei protagonisti - che avveniva sempre in primo piano - e la presenza della folla di invitati che rimanevano come appartati al di là di una ben visibile cortina. Scelta poco felice,per nulla arricchita da un arredamento che era tutto il contrario di quello rigoglioso e raffinatissimo che eravamo abituati a trovarci di fronte nella migliore tradizione scenografica che risale alla celebre Traviata viscontiana.
Ma anche la presenza di comprimari ai limiti del tollerabile non è riuscita a scalfire il clima di emozione che ha regnato in teatro per tutta la durata dello spettacolo, clima che è arrivato all'incandescenza soprattutto nel secondo atto con l'apparizione di Paolo Coni. Sul grande baritono si sono riversate infatti in maniera evidente le preferenze del pubblico, che ha giustamente premiato un Di Provenza difficilmente avvicinabile oggi da chicchessia. Ne è rimasta un poco impallidita la pur incantevole intima partecipazione con la quale come sempre ha cantato la Fabbricini,pronta a piegare alle esigenze drammatiche la propria voce, dalle estasi del Sempre libera all'accorata preghiera del Dite alla giovane. Sempre più professionale e in ottima forma, forse a scapito di quello slancio giovanile e un po'naïf che ne aveva caratterizzato le prime recite, è apparso infine Roberto Alagna,Alfredo che ha superato con disinvoltura le notevoli asperità di una parte che probabilmente il pubblico non è abituato a considerare in tutta la sua difficoltà.
Successo grandissimo, anche per il balletto di toreri e zingarelle che al solito hanno rappresentato il doveroso tributo alla moda del tempo nell'economia del grande capolavoro verdiano.
Orchestra e Coro del Teatro di S.Carlo.Maestro del Coro:Giacomo Maggiore. Compagnia di balletto del Teatro di S.Carlo. Coreografia:Gabriella Borni.
Che lo si voglia ammettere o no, il progetto voluto due anni fa da Riccardo Muti di mettere in scena una Traviata alla Scala con una coppia di protagonisti giovani e sconosciuti ha rappresentato un atto di coraggio eccezionale, atto che è stato ripagato con un successo che è andato al di là di ogni più rosea previsione. Tra le tante cose che si erano dette e scritte in quella occasione c'era stata anche l'ipotesi secondo la quale Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e il più maturo e conosciuto Paolo Coni non avrebbero potuto ripetere il miracolo di una serie di recite felicissime se a guidare l'impresa non ci fosse stata sempre e comunque la bacchetta di un direttore come Muti. Anche per questo motivo la nuova messa in scena di Traviata al San Carlo di Napoli, che annoverava gli stessi interpreti principali, guidati questa volta da Rico Saccani, destava grande curiosità e interesse.
Diciamo subito che lo spettacolo napoletano è riuscito a replicare lo stesso incanto di una partecipazione vocale e scenica davvero travolgente da parte dei tre protagonisti, nonostante gli elementi al contorno si siano rivelati piuttosto inadeguati a reggere il confronto con la produzione scaligera. Segno questo che proprio nella bravura di questi interpreti si trovava riposto in gran parte il segreto di uno dei più convinti successi teatrali di questi anni. Nella concertazione di Rico Saccani mancavano certo tutte le raffinatezze rivelate da un Muti, anche se la sua lettura si è mantenuta su un livello decisamente accettabile, con qualche effetto sgradevole bilanciato da una partecipazione assai intensa nei momenti più infuocati del capolavoro verdiano. Del tutto anti-funzionali e francamente povere sono apparse invece le scene di Pier Luigi Samaritani, uomo di teatro peraltro ammirato in diverse occasioni passate. Samaritani, e con lui il regista Fassini, ha spezzato l'ambientazione delle due grandi scene di festa, in casa di Violetta prima e poi nel palazzo di Flora Bervoix, creando una suddivisione fittizia che isolava evidentemente il dramma dei protagonisti dal clima mondano generale. Samaritani ha infatti marcato la contrapposizione tra la vicenda umana dei protagonisti - che avveniva sempre in primo piano - e la presenza della folla di invitati che rimanevano come appartati al di là di una ben visibile cortina. Scelta poco felice,per nulla arricchita da un arredamento che era tutto il contrario di quello rigoglioso e raffinatissimo che eravamo abituati a trovarci di fronte nella migliore tradizione scenografica che risale alla celebre Traviata viscontiana.
Ma anche la presenza di comprimari ai limiti del tollerabile non è riuscita a scalfire il clima di emozione che ha regnato in teatro per tutta la durata dello spettacolo, clima che è arrivato all'incandescenza soprattutto nel secondo atto con l'apparizione di Paolo Coni. Sul grande baritono si sono riversate infatti in maniera evidente le preferenze del pubblico, che ha giustamente premiato un Di Provenza difficilmente avvicinabile oggi da chicchessia. Ne è rimasta un poco impallidita la pur incantevole intima partecipazione con la quale come sempre ha cantato la Fabbricini,pronta a piegare alle esigenze drammatiche la propria voce, dalle estasi del Sempre libera all'accorata preghiera del Dite alla giovane. Sempre più professionale e in ottima forma, forse a scapito di quello slancio giovanile e un po'naïf che ne aveva caratterizzato le prime recite, è apparso infine Roberto Alagna,Alfredo che ha superato con disinvoltura le notevoli asperità di una parte che probabilmente il pubblico non è abituato a considerare in tutta la sua difficoltà.
Successo grandissimo, anche per il balletto di toreri e zingarelle che al solito hanno rappresentato il doveroso tributo alla moda del tempo nell'economia del grande capolavoro verdiano.
Recital del violinista Shlomo Mintz
Milano, Teatro alla Scala, 15 aprile 1991
Sipario

L'impresa di eseguire in teatro i
24 Capricci di Paganini non ha forse eguali nella prassi concertistica
tradizionale, giacchè è difficile trovare, ad esempio nella letteratura
pianistica, un testo altrettanto ponderoso e difficile, che impegni l'artista in
un continuo susseguirsi di atteggiamenti virtuosistici tra loro tutti
differenti. Ecco quindi che le occasioni di ascoltare il capolavoro paganiniano
nella sua interezza e "dal vivo" si contano assai di rado e si
ricordano sempre come eventi eccezionali anche quando la qualità del suono, l'intonazione, la cura perfetta di ogni particolare difficilmente risultano
essere parametri realizzati dall'inizio alla fine anche dai violinisti più
agguerriti. Ricordiamo con emozione - ma anche con un certo disappunto - le
esecuzioni integrali di Accardo o di Ricci e ci dobbiamo rivolgere al solo
Milstein, peraltro interprete di soli due o tre numeri tra i 24, come esempio
inarrivabile di supremazia tecnico-interpretativa : i Capricci di Paganini
rivelati con un controllo del suono, dell'intonazione, delle legature degni della
lettura di una Partita di Bach.
Il concerto tenuto al Teatro alla Scala da Shlomo Mintz, violinista in genere poco coinvolgente e troppo legato al modo di suonare perfetto ma gelido di uno Stern, ha oltrepassato ogni aspettativa che onestamente ci si poteva pure attendere da un virtuoso del suo calibro. Mintz ha condotto la lettura dei 24 Capricci con una lucidità intellettuale e un'abilità tecnica davvero straordinarie, scoprendo per ciascuna pagina una differente qualità di suono, mantenendo la qualità di intonazione a livelli certo non migliorabili da chicchessia (doverosa era, tra un numero e l'altro, la pausa richiesta per l'accordatura dello strumento).
Il violinista russo-americano di origine israeliana sembra avere trovato in questo testo temibilissimo quell'equilibrio tra doti strumentali e facoltà interpretative che non avevamo colto nelle sue numerose proposte pubbliche (Mintz è molto popolare in Italia) dedicate alla letteratura classica di Bach, Beethoven, Brahms : un obiettivo veramente centrato che merita senza dubbio l'interessamento delle case discografiche per l'oppportuna conservazione futura di una performance irripetibile.
Il concerto tenuto al Teatro alla Scala da Shlomo Mintz, violinista in genere poco coinvolgente e troppo legato al modo di suonare perfetto ma gelido di uno Stern, ha oltrepassato ogni aspettativa che onestamente ci si poteva pure attendere da un virtuoso del suo calibro. Mintz ha condotto la lettura dei 24 Capricci con una lucidità intellettuale e un'abilità tecnica davvero straordinarie, scoprendo per ciascuna pagina una differente qualità di suono, mantenendo la qualità di intonazione a livelli certo non migliorabili da chicchessia (doverosa era, tra un numero e l'altro, la pausa richiesta per l'accordatura dello strumento).
Il violinista russo-americano di origine israeliana sembra avere trovato in questo testo temibilissimo quell'equilibrio tra doti strumentali e facoltà interpretative che non avevamo colto nelle sue numerose proposte pubbliche (Mintz è molto popolare in Italia) dedicate alla letteratura classica di Bach, Beethoven, Brahms : un obiettivo veramente centrato che merita senza dubbio l'interessamento delle case discografiche per l'oppportuna conservazione futura di una performance irripetibile.
Concerto del trio V.Ashkenazy, I.Perlman, L.Harrell
Milano, Serate Musicali, 9 Aprile 1991
Sipario

Il concetto ben noto secondo il quale una formazione
cameristica necessita di strumentisti di grande livello e nello stesso tempo di
un affiatamento tra di essi, protrattosi negli anni, trova parzialmente una
eccezione nel momento in cui la personalità (e la bravura) dei singoli artisti
è talmente elevata da assicurare una esecuzione d'assieme comunque ammirevole.
Lo si è visto nel passato considerando l'unione del cosiddetto "Trio da un
milione di dollari", nel quale tre strumentisti del calibro di
Rubinstein, Heifetz e Piatigorski avevano dato anima per un breve periodo a una
formazione di livello leggendario; lo si è verificato più recentemente (1978)
quando un Horowitz, uno Stern e un Rostropovich hanno eseguito assieme quel
condensato di patetismo russo che è il primo tempo del Trio di Ciaikovskij. Ma nessuno è più riuscito a ripetere il
miracolo dell'unica formazione davvero mitica che la storia
dell'interpretazione ricordi, quel Trio Cortot, Thibaud, Casals dal quale uscirono
proposte memorabili che ancora oggi, fortunatamente, possiamo ascoltare con venerazione
attraverso i reperti discografici degli anni '20.
Ashkenazy, Perlman e Harrell sono tra i solisti giustamente più famosi e acclamati della nostra epoca e dal concerto organizzato dalle Serate Musicali di Milano ci si aspettava - è logico - quello che si poteva definire l'avvenimento musicale dell'anno. E di avvenimento si può onestamente parlare, dato che i tre paladini hanno suonato meravigliosamente (eccezionale Ashkenazy, strumentalmente ammaliante il cellista Harrell, un poco sotto il proprio standard di perfezione il violinista Perlman) e hanno fatto intendere al pubblico tutta la complessità e l'incandescenza del linguaggio brahmsiano racchiusa nei tre Trii dell'op.8, 87 e 101, contenuto monografico di un programma straordinariamente impegnativo.
I tre avevano già sperimentato in passato questa formazione; Ashkenazy ha collaborato inoltre innumerevoli volte in duo e con Perlman e con Harrell: insomma problemi di impasto sonoro o divergenze interpretative praticamente non esistevano. Che cosa voleva intendere allora Ashkenazy l'estate scorsa, dopo una sua esecuzione del quarto di Beethoven per un Festival estivo italiano, quando mi disse che era molto preoccupato del futuro recital in Trio per le Serate Musicali ? Forse si trattava di una preoccupazione del tutto inutile, ma vi assicuro che negli occhi del pianista si poteva veramente percepire un'ombra di timore. Chissà, forse Ashkenazy aveva in mente un'altra serata passata alla storia e documentata dal disco: quella in cui tre altri grandi solisti si erano - forse più umilmente, senza la grancassa pubblicitaria di case discografiche e di interviste - accostati al medesimo repertorio brahmsiano. Forse aveva paura di non sapere cogliere l'essenza del messaggio del musicista amburghese così come era stata rivelata da Edwin Fischer, Wolfgang Schneideran ed Enrico Mainardi in quella lontana serata dell'8 agosto 1953 nella Salisburgo che aveva il privilegio di ereditare gli ultimi bagliori del vecchio Furtwaengler ? Durante il concerto milanese si è avuta come l'impressione che Ashkenazy non solo fungesse da vero e proprio concertatore (e quale sovraumana abilità nel tenere in sottofondo, eppure sempre presente, quelle parti di pianoforte che restano tra le più difficili e intricate di tutto il repertorio cameristico !) , ma che vigilasse, molto più dei suoi compagni, affinchè la celebrazione del rito concertistico fosse indirizzata soprattutto al Compositore e a quelle tre meravigliose pagine nelle quali è racchiusa una essenza di pensiero che non si finisce mai di ammirare. Il pubblico ha senz'altro inteso l'eccezionalità dell'avvenimento e ha attribuito ai tre musicisti, ma forse soprattutto al quarto (quello vero) le meritate ovazioni.
Ashkenazy, Perlman e Harrell sono tra i solisti giustamente più famosi e acclamati della nostra epoca e dal concerto organizzato dalle Serate Musicali di Milano ci si aspettava - è logico - quello che si poteva definire l'avvenimento musicale dell'anno. E di avvenimento si può onestamente parlare, dato che i tre paladini hanno suonato meravigliosamente (eccezionale Ashkenazy, strumentalmente ammaliante il cellista Harrell, un poco sotto il proprio standard di perfezione il violinista Perlman) e hanno fatto intendere al pubblico tutta la complessità e l'incandescenza del linguaggio brahmsiano racchiusa nei tre Trii dell'op.8, 87 e 101, contenuto monografico di un programma straordinariamente impegnativo.
I tre avevano già sperimentato in passato questa formazione; Ashkenazy ha collaborato inoltre innumerevoli volte in duo e con Perlman e con Harrell: insomma problemi di impasto sonoro o divergenze interpretative praticamente non esistevano. Che cosa voleva intendere allora Ashkenazy l'estate scorsa, dopo una sua esecuzione del quarto di Beethoven per un Festival estivo italiano, quando mi disse che era molto preoccupato del futuro recital in Trio per le Serate Musicali ? Forse si trattava di una preoccupazione del tutto inutile, ma vi assicuro che negli occhi del pianista si poteva veramente percepire un'ombra di timore. Chissà, forse Ashkenazy aveva in mente un'altra serata passata alla storia e documentata dal disco: quella in cui tre altri grandi solisti si erano - forse più umilmente, senza la grancassa pubblicitaria di case discografiche e di interviste - accostati al medesimo repertorio brahmsiano. Forse aveva paura di non sapere cogliere l'essenza del messaggio del musicista amburghese così come era stata rivelata da Edwin Fischer, Wolfgang Schneideran ed Enrico Mainardi in quella lontana serata dell'8 agosto 1953 nella Salisburgo che aveva il privilegio di ereditare gli ultimi bagliori del vecchio Furtwaengler ? Durante il concerto milanese si è avuta come l'impressione che Ashkenazy non solo fungesse da vero e proprio concertatore (e quale sovraumana abilità nel tenere in sottofondo, eppure sempre presente, quelle parti di pianoforte che restano tra le più difficili e intricate di tutto il repertorio cameristico !) , ma che vigilasse, molto più dei suoi compagni, affinchè la celebrazione del rito concertistico fosse indirizzata soprattutto al Compositore e a quelle tre meravigliose pagine nelle quali è racchiusa una essenza di pensiero che non si finisce mai di ammirare. Il pubblico ha senz'altro inteso l'eccezionalità dell'avvenimento e ha attribuito ai tre musicisti, ma forse soprattutto al quarto (quello vero) le meritate ovazioni.
Recital del pianista Evgenij Kissin
Milano, Teatro alla Scala, 15 Marzo 1991
Sipario

Dicembre
1986,nella bellissima casa nuovayorkese di Harold Schonberg,critico
"eminente" del New York Times e uno tra i massimi esperti di cose
pianistiche,si discute di vecchi e nuovi interpreti. "Hai sentito i dischi
Melodya di quel giovane sovietico,Evgeny Kissin? E'un talento straordinario,
interpreta i Concerti di Chopin come se dalle sue mani uscisse un condensato di
Hoffman, Godowsky e Rachmaninov". Mi ritorna subito in mente il concetto
che chiude il ben noto libro di Schonberg dedicato ai Great Pianists : "Nell'interpretazione pianistica, così come
in fisiologia, l'ontogenesi riassume la filogenesi". Ossia la formazione
culturale e strumentale di ogni nuovo interprete ripercorre - più o meno
inconsciamente - l'evoluzione storica dell'interpretazione pianistica così come
è stata determinata da generazioni e generazioni di grandi figure del passato.
Ascolto il secondo concerto di Chopin inciso da un Kissin dodicenne e ho la rivelazione esatta di questo concetto, la sensazione di trovarmi di fronte non a un interprete "nuovo" ma al concentrato di una fetta di storia che mi è ben nota dall'ascolto di tante registrazioni appartenenti a quella che lo stesso Schonberg chiama la golden age del pianoforte.
Dicembre 1988: ho finalmente l'opportunità di trovarmi di fronte a un ragazzo che ha oramai sedici anni e che,su invito della Società dei Concerti di Milano,partecipa alla tournèe dei Virtuosi di Mosca. Kissin interpreta un Concerto di Mozart (il K.414) ,il Concerto op.35 di Sciostakovic ,ma abbaglia soprattutto con i bis: uno Studio Trascendentale di Liszt affrontato con tempestosa partecipazione ,un Preludio bachiano trascritto da Siloti, omaggio a quella antica tradizione strumentale cui si accennava poco fa.
La curiosità di riascoltare Kissin è sempre molto forte. Sprigiona da questo ragazzino dall'aspetto corrucciato (sembra un piccolo Beethoven) un magnetismo che rende indiscutibile l'approccio non sempre ortodosso ai testi classici : tipico è l'esempio del Concerto in re minore di Mozart accompagnato da Abbado e dall'European Chamber Orchestra a Ferrara lo scorso ottobre, una interpretazione del tutto fuori dagli schemi e per questo totalmente incompresa da gran parte della critica.
Marzo 1991: preceduto da un'eco pubblicitaria persino esagerata, sulla scia di un acclamatissimo recital alla Carnegie Hall del settembre 1990,Kissin si presenta per la prima volta alla Scala.
Ha oramai diciannove anni,e il volto da bambino corrucciato lascia il posto a una figura di giovane uomo che sa il fatto suo e che affronta una grande platea con la sicurezza di un veterano del palcoscenico. Kissin ripropone alla Scala il programma di debutto alla Carnegie Hall,che il pubblico in parte già conosce perchè la casa discografica RCA ne ha già pubblicato i contenuti. Si inizia con Schumann, un autore particolarmente caro a certi interpreti di scuola sovietica,uno dei punti fermi del romanticismo pianistico già dai tempi dei famosi "programmi storici" diffusi in mezzo mondo dal nume tutelare dello strumentismo russo,Anton Rubinstein.
Il dittico di variazioni presentato da Kissin ha a dire il vero poche cose in comune: variazioni brillanti in stile Biedermeier sono le Abegg op.1,studi in forma di variazione,dai contenuti assai più profondi,gli Studi Sinfonici op.13,nei quali Kissin "incastra" come è oggi d'obbligo le cinque variazioni postume. Già a partire dalle Abegg Kissin dimostra di andare controcorrente, articolando eccessivamente le filigrane di note che infittiscono lo spartito e stravolgendo quindi tutta una tradizione di "legati" che si possono fare risalire alla storica interpretazione di Clara Haskil. Il risultato,lo confessiamo,non è dei migliori,nè Kissin sembra dire qualcosa di nuovo nei più impegnativi Studi Sinfonici,un luogo dove tentare l'impresa di una lettura riassuntiva di una tradizione troppo variegata (Richter, Cortot, Pollini...) è avventura davvero impossibile. Decisamente migliore è invece l'impostazione della seconda parte della serata, aperta da una sesta sonata di Prokofiev serratissima e tecnicamente ragguardevole. Ma dove finalmente si ha l'impressione di avere di fronte il Kissin depositario degli antichi miti pianistici è nel successivo dittico lisztiano : nel celeberrimo Sogno d'amore egli è davvero l'evocatore medianico di un passato che oggi viene troppo spesso imitato maldestramente dalle giovani generazioni di interpreti,soprattutto francesi e inglesi. A un insipido manierismo Kissin contrappone davvero il patrimonio filogenetico di cent'anni di storia del pianoforte; egli individua dunque nel Liebestraum il fulcro dell'invenzione pianistica dei Backhaus,di D'Albert,Godowsky, Lhevinne e ci fa rivivere per un attimo la magia di quelle antiche esecuzioni testimoniate dai fruscianti 78 giri. Lo stesso discorso varrà anche parzialmente nella pirotecnica Rapsodia Spagnola,risolta con grande senso del virtuosismo tardo-lisztiano. Poi il dono dei bis,dove la devozione di Kissin verso i progenitori che hanno reso possibile il suo sviluppo artistico si fa oramai scoperta: nella trascrizione lisztiana di un lied di Schumann (Widmung) e in quella di Sgambati di un famoso luogo dell'Orfeo di Gluck Kissin è già al di là di una barriera temporale che ci fa completamente perdere il senso dell'orientamento. La Scala diventa un palcoscenico di Pietroburgo,o lo studio di Busoni o quello di Godowsky che abbiamo visto in qualche fotografia ingiallita dal tempo. Il mito del pianoforte continua ,il pubblico applaude sempre più convinto, il ragazzo-medium si ritira infine dal palcoscenico del grande Teatro, uno dei tanti che egli visiterà nel corso di una probabile lunga carriera.
Ascolto il secondo concerto di Chopin inciso da un Kissin dodicenne e ho la rivelazione esatta di questo concetto, la sensazione di trovarmi di fronte non a un interprete "nuovo" ma al concentrato di una fetta di storia che mi è ben nota dall'ascolto di tante registrazioni appartenenti a quella che lo stesso Schonberg chiama la golden age del pianoforte.
Dicembre 1988: ho finalmente l'opportunità di trovarmi di fronte a un ragazzo che ha oramai sedici anni e che,su invito della Società dei Concerti di Milano,partecipa alla tournèe dei Virtuosi di Mosca. Kissin interpreta un Concerto di Mozart (il K.414) ,il Concerto op.35 di Sciostakovic ,ma abbaglia soprattutto con i bis: uno Studio Trascendentale di Liszt affrontato con tempestosa partecipazione ,un Preludio bachiano trascritto da Siloti, omaggio a quella antica tradizione strumentale cui si accennava poco fa.
La curiosità di riascoltare Kissin è sempre molto forte. Sprigiona da questo ragazzino dall'aspetto corrucciato (sembra un piccolo Beethoven) un magnetismo che rende indiscutibile l'approccio non sempre ortodosso ai testi classici : tipico è l'esempio del Concerto in re minore di Mozart accompagnato da Abbado e dall'European Chamber Orchestra a Ferrara lo scorso ottobre, una interpretazione del tutto fuori dagli schemi e per questo totalmente incompresa da gran parte della critica.
Marzo 1991: preceduto da un'eco pubblicitaria persino esagerata, sulla scia di un acclamatissimo recital alla Carnegie Hall del settembre 1990,Kissin si presenta per la prima volta alla Scala.
Ha oramai diciannove anni,e il volto da bambino corrucciato lascia il posto a una figura di giovane uomo che sa il fatto suo e che affronta una grande platea con la sicurezza di un veterano del palcoscenico. Kissin ripropone alla Scala il programma di debutto alla Carnegie Hall,che il pubblico in parte già conosce perchè la casa discografica RCA ne ha già pubblicato i contenuti. Si inizia con Schumann, un autore particolarmente caro a certi interpreti di scuola sovietica,uno dei punti fermi del romanticismo pianistico già dai tempi dei famosi "programmi storici" diffusi in mezzo mondo dal nume tutelare dello strumentismo russo,Anton Rubinstein.
Il dittico di variazioni presentato da Kissin ha a dire il vero poche cose in comune: variazioni brillanti in stile Biedermeier sono le Abegg op.1,studi in forma di variazione,dai contenuti assai più profondi,gli Studi Sinfonici op.13,nei quali Kissin "incastra" come è oggi d'obbligo le cinque variazioni postume. Già a partire dalle Abegg Kissin dimostra di andare controcorrente, articolando eccessivamente le filigrane di note che infittiscono lo spartito e stravolgendo quindi tutta una tradizione di "legati" che si possono fare risalire alla storica interpretazione di Clara Haskil. Il risultato,lo confessiamo,non è dei migliori,nè Kissin sembra dire qualcosa di nuovo nei più impegnativi Studi Sinfonici,un luogo dove tentare l'impresa di una lettura riassuntiva di una tradizione troppo variegata (Richter, Cortot, Pollini...) è avventura davvero impossibile. Decisamente migliore è invece l'impostazione della seconda parte della serata, aperta da una sesta sonata di Prokofiev serratissima e tecnicamente ragguardevole. Ma dove finalmente si ha l'impressione di avere di fronte il Kissin depositario degli antichi miti pianistici è nel successivo dittico lisztiano : nel celeberrimo Sogno d'amore egli è davvero l'evocatore medianico di un passato che oggi viene troppo spesso imitato maldestramente dalle giovani generazioni di interpreti,soprattutto francesi e inglesi. A un insipido manierismo Kissin contrappone davvero il patrimonio filogenetico di cent'anni di storia del pianoforte; egli individua dunque nel Liebestraum il fulcro dell'invenzione pianistica dei Backhaus,di D'Albert,Godowsky, Lhevinne e ci fa rivivere per un attimo la magia di quelle antiche esecuzioni testimoniate dai fruscianti 78 giri. Lo stesso discorso varrà anche parzialmente nella pirotecnica Rapsodia Spagnola,risolta con grande senso del virtuosismo tardo-lisztiano. Poi il dono dei bis,dove la devozione di Kissin verso i progenitori che hanno reso possibile il suo sviluppo artistico si fa oramai scoperta: nella trascrizione lisztiana di un lied di Schumann (Widmung) e in quella di Sgambati di un famoso luogo dell'Orfeo di Gluck Kissin è già al di là di una barriera temporale che ci fa completamente perdere il senso dell'orientamento. La Scala diventa un palcoscenico di Pietroburgo,o lo studio di Busoni o quello di Godowsky che abbiamo visto in qualche fotografia ingiallita dal tempo. Il mito del pianoforte continua ,il pubblico applaude sempre più convinto, il ragazzo-medium si ritira infine dal palcoscenico del grande Teatro, uno dei tanti che egli visiterà nel corso di una probabile lunga carriera.
Lehar - La vedova allegra
Napoli, Teatro San Carlo, Febbraio 1991
Sipario

Maestro Concertatore e Direttore:Daniel Oren.Regia:Mauro
Bolognini.Scene:Mario Martone.Interpreti:Raina Kabaivanska, Daniela Mazzucato
,Mikael Melbye, Max Renè Cosotti, Andrea Snarski, Silvano Pagliuca, Elio
Pandolfi.Napoli,Teatro di San Carlo.
Un grande successo ha accolto anche quest'anno la terza replica di una produzione de La vedova allegra che sembra essere proprio entrato nel cuore degli spettatori napoletani. Al 1985 risaliva infatti la prima rappresentazione di questo allestimento firmato dalla regia di Bolognini e caratterizzato dalla scelta giustissima della lingua italiana come veicolo per meglio comprendere i lunghi dialoghi di quella che è pur sempre un'operetta. La direzione del capolavoro di Léhar era stata affidata anche allora a Daniel Oren (sostituito solamente nell'86 da Martin Fischer-Dieskau), lo stesso Oren che è tornato oggi a condurre con mano agile anche se un po'pesante il collaudatissimo spettacolo, coinvolgendo il pubblico con battimani cadenzati nei punti di maggiore partecipazione collettiva.
Tutto funziona a meraviglia, in questo allestimento: Raina Kabaivanska fa il suo ingresso trionfale nel salone del Palazzo dell'Ambasciata di Pontevedro a Parigi, circondata da ammiratori più o meno preoccupati del futuro finanziario dello staterello balcanico; il Conte Danilo, alias il bravissimo Mikael Melbye risolve tutte le proprie preoccupazioni esistenziali "andando da Maxim"; Max Renè Cosotti (Camillo de Rossillon) e Daniela Mazzucato (Valencienne) si prestano spiritosamente ai giochi di scambio delle coppie e infine l'esilarante Elio Pandolfi tratteggia con molto humour la figura del Cancelliere d'ambasciata, lasciandosi ogni tanto andare a qualche battuta espressamente ricamata per l'allestimento 1991 ("Questo testamento è peggio di Beautiful" dirà a proposito del controverso documento che regola l'eredità della Vedova !).
Insomma l'appuntamento sancarliano si è rivelato ancora una volta all'altezza delle aspettative del pubblico, che si è divertito come forse è lecito e doveroso divertirsi in simili occasioni. Ma durante la rappresentazione dubbi sempre più assillanti hanno assalito il critico che è abituato a considerare tutto ciò che è musica e teatro sotto un certo manto di sacralità. In altre parole, quanto La vedova allegra napoletana aveva da spartire con l'operetta in tre atti scritta da Léhar e rappresentata al Theater an der Wien nel 1905, nel pieno della Vienna di Richard Strauss e di Mahler? E dove andava a finire, in certi momenti della concertazione di Oren, tutto il fascino dei "rubati" che traspariva dalle antiche e mai più dimenticate bacchette di Karajan e di Von Matacic? Forse la sola Kabaivanska, da grande attrice e grande cantante quale è, ha assicurato con la propria presenza carismatica quel livello di autorevolezza e di aristocrazia che a parer nostro rimane pur sempre una caratteristica imprescindibile della leggiadra partitura di Lèhar.
Una speciale menzione d'onore va riservata alla parte coreografica di questa produzione sancarliana, preparata da Roberto Fascilla e Zoe Dolle, che prevedeva la partecipazione di un ottimo Raffaele Paganini, validamente supportato dalla Compagnia di Balletto dell'Ente.
Un grande successo ha accolto anche quest'anno la terza replica di una produzione de La vedova allegra che sembra essere proprio entrato nel cuore degli spettatori napoletani. Al 1985 risaliva infatti la prima rappresentazione di questo allestimento firmato dalla regia di Bolognini e caratterizzato dalla scelta giustissima della lingua italiana come veicolo per meglio comprendere i lunghi dialoghi di quella che è pur sempre un'operetta. La direzione del capolavoro di Léhar era stata affidata anche allora a Daniel Oren (sostituito solamente nell'86 da Martin Fischer-Dieskau), lo stesso Oren che è tornato oggi a condurre con mano agile anche se un po'pesante il collaudatissimo spettacolo, coinvolgendo il pubblico con battimani cadenzati nei punti di maggiore partecipazione collettiva.
Tutto funziona a meraviglia, in questo allestimento: Raina Kabaivanska fa il suo ingresso trionfale nel salone del Palazzo dell'Ambasciata di Pontevedro a Parigi, circondata da ammiratori più o meno preoccupati del futuro finanziario dello staterello balcanico; il Conte Danilo, alias il bravissimo Mikael Melbye risolve tutte le proprie preoccupazioni esistenziali "andando da Maxim"; Max Renè Cosotti (Camillo de Rossillon) e Daniela Mazzucato (Valencienne) si prestano spiritosamente ai giochi di scambio delle coppie e infine l'esilarante Elio Pandolfi tratteggia con molto humour la figura del Cancelliere d'ambasciata, lasciandosi ogni tanto andare a qualche battuta espressamente ricamata per l'allestimento 1991 ("Questo testamento è peggio di Beautiful" dirà a proposito del controverso documento che regola l'eredità della Vedova !).
Insomma l'appuntamento sancarliano si è rivelato ancora una volta all'altezza delle aspettative del pubblico, che si è divertito come forse è lecito e doveroso divertirsi in simili occasioni. Ma durante la rappresentazione dubbi sempre più assillanti hanno assalito il critico che è abituato a considerare tutto ciò che è musica e teatro sotto un certo manto di sacralità. In altre parole, quanto La vedova allegra napoletana aveva da spartire con l'operetta in tre atti scritta da Léhar e rappresentata al Theater an der Wien nel 1905, nel pieno della Vienna di Richard Strauss e di Mahler? E dove andava a finire, in certi momenti della concertazione di Oren, tutto il fascino dei "rubati" che traspariva dalle antiche e mai più dimenticate bacchette di Karajan e di Von Matacic? Forse la sola Kabaivanska, da grande attrice e grande cantante quale è, ha assicurato con la propria presenza carismatica quel livello di autorevolezza e di aristocrazia che a parer nostro rimane pur sempre una caratteristica imprescindibile della leggiadra partitura di Lèhar.
Una speciale menzione d'onore va riservata alla parte coreografica di questa produzione sancarliana, preparata da Roberto Fascilla e Zoe Dolle, che prevedeva la partecipazione di un ottimo Raffaele Paganini, validamente supportato dalla Compagnia di Balletto dell'Ente.
Mozart - Don Giovanni
Piacenza, Teatro municipale, Febbraio 1991
Sipario

Maestro Concertatore e Direttore:Amedeo Monetti.Regia:Vincenzo Grisostomi Travaglini. Scene:Michele Achille. Interpreti:Michele Pertusi, Rossella Ragatzu, Francesco Piccoli, Carmela Apollonio, Marcello Lippi, Lucetta Bizzi, Romano Franceschetto, Alfredo Zanazzo
Don Giovanni - ma il discorso si può facilmente estendere a tutto il teatro mozartiano - lancia a tutti coloro che partecipano all'allestimento dell'opera una sfida che non è possibile raccogliere solamente con le armi dell'entusiasmo e del coraggio che hanno contraddistinto in parte i presupposti della recita piacentina alla quale abbiamo assistito. Nell'affrontare il grande repertorio mozartiano esistono dei punti fermi,sanciti non da una tradizione sterilmente ripetitiva ,ma da quell'insieme di risultati faticosamente raggiunti dai grandi interpreti nel lavoro di scavo di queste partiture immense. Tali risultati ,se non devono necessariamente costituire un modello inalterabile dal quale è vietato allontanarsi, indicano tuttavia certi parametri stilistici che lo spettatore ben conosce (sia detto soprattutto per la parte strumentale e vocale) attraverso il vero e proprio bombardamento di pubblicazioni discografiche che hanno il merito di rendere possibili tutti i confronti del caso. Ora,il fatto che la concertazione di Amedeo Monetti non sia stata per nulla in sintonia con queste premesse,ha compromesso in parte il successo di uno spettacolo che pure poteva contare su alcuni lati apprezzabili sia per la partecipazione di una compagnia di canto nel complesso lodevole,sia per le idee che affollavano la regia di Vincenzo Grisostomi e le scene di Michele Achille. Se in parte la costante problematicità degli attacchi orchestrali poteva essere dovuta a uno scarso numero di prove,non così si potevano giustificare talune vistose incertezze da parte del Concertatore nell'affrontare luoghi arcinoti del dramma giocoso mozartiano.
Valga per tutti l'esempio di un "Notte e giorno faticar" ,in cui un ritmo perlomeno costante si è fatto lungamente attendere dopo un incipit disastroso per eccessiva flessibilità di tactus. Ma in generale è mancata in Monetti la capacità di reggere in tutta la sua complessità una partitura che richiede un controllo totale di aspetti stilistici estremamente eterogenei. Aspetti stilistici che,se vogliamo,non sono stati neppure rispettati sul piano vocale dai personaggi che più affermano la loro personalità nel corso dell'opera. Nel canto di Carmela Apollonio si sentono ancora troppe suggestioni di un repertorio centrato su Puccini e Verdi,che nulla ha a che spartire con la vocalità di Donna Elvira, volutamente proiettata (si consideri l'"Ah,fuggi il traditor!") verso un arcaico universo haendeliano. Più corretta ,ma in compenso meno agguerrita,era la Donna Anna di Rossella Ragatzu,come pure lodevoli sono stati gli interventi di Lucetta Bizzi (Zerlina) e Romano Franceschetto (Masetto). Sorvoliamo volentieri sul Don Ottavio di Francesco Piccoli e sul Leporello di Marcello Lippi per approdare al vero protagonista,sul quale grava un'ulteriore responsabilità,quella appunto di essere Don Giovanni. Michele Pertusi è un basso di appena venticinque anni che da tempo seguiamo con grande interesse: l'ottima preparazione tecnica,un timbro di voce gradevolissimo e soprattutto l'enorme versatilità di repertorio fanno del cantante emiliano uno dei più dotati protagonisti del mondo della lirica italiana. Il suo Don Giovanni è stato ineccepibile in tutto tranne forse che nella presenza scenica: avremmo in altre parole desiderato un protagonista che,oltre a cantare bene,si immedesimasse un po'di più nel ruolo. Non tutti del resto possono raggiungere i vertici espressivi che sono stati di un Ghiaurov,di un Raimondi o di un Siepi.
Vincenzo Grisostomi ha affrontato la regia con quell'accuratezza quasi maniacale del dettaglio che rimane una caratteristica molto personale del suo modo di rileggere i libretti del melodramma. L'impostazione generale tentava di seguire la complessa disposizione scenica ideata da Michele Achille,autore di una trasposizione del barocco spagnolo in chiave liberty che era ricca di spunti non adeguatamente sfruttati. Grisostomi ha fatto centro ancora una volta sul singolo particolare,inventando ad esempio un azione scenica da parte del protagonista che,pur non essendo riportata esplicitamente sul libretto del Da Ponte,non ha mancato di illuminare di nuovi significati la complessa psicologia del dissoluto punito. Don Giovanni,nel momento che precede appena l'ultimo,mortale colpo di spada che provocherà la morte del Commendatore,si toglie di colpo la maschera che era servita a tenere celato il proprio sguardo di libertino giunto a minare la virtù di Donn'Anna. Il carnefice infligge così alla propria vittima un ulteriore dolore: quello di riconoscere in extremis non un comune bandito ma un personaggio noto e a suo modo rispettato. Si spiega così,in maniera molto più efficace,l'iniziale clima di formalità e di imbarazzo che caratterizza il primo incontro di Don Giovanni,Donn'Anna e Don Ottavio in seguito all'assassinio, incontro che culmina con il monito di Donna Elvira ("Non ti fidare , o misera") ,primo atto di accusa che porterà inesorabilmente alla condanna umana e divina del protagonista.
Le valenze presenti nell'allestimento scenico e nella regia e la generale tenuta della compagnia di canto hanno in conclusione risollevato le sorti di uno spettacolo che dal punto di vista strettamente musicale non ha per nulla convinto e hanno contribuito a un parziale successo di pubblico,spiegabile in parte grazie alla incorrutibile bellezza del capolavoro mozartiano.
Verdi - Nabucco
Napoli, Teatro San Carlo, Gennaio 1991
Sipario

Maestro Concertatore e
Direttore:Daniel Oren.Regia:Fabio Sparvoli.Scene:Mauro Carosi.Costumi:Sybille Ulsamer.Interpreti:Piero
Cappuccilli,Nunzio Todisco,Roberto Scandiuzzi,Linda Roark Strummer,Gabriele
Monici,Angelo Casertano,Francesca Garbi
Il minuto di silenzio richiesto dai dirigenti del Teatro S.Carlo per commemorare le vittime della Guerra del Golfo, la sera della prima rappresentazione di Nabucco, ha sottolineato ancora di più l'inevitabile coincidenza tra una realtà di palcoscenico e una, ben più triste, vissuta in questi giorni da tutti noi con il fiato sospeso. Come evitare infatti, ripercorrendo mentalmente i conflitti che si agitano nel libretto di Temistocle Solera, il paragone tra Babilonesi e Iracheni, tra Ebrei assaliti dalla violenza alterna di Nabucco e di Abigaille e Israeliani coinvolti ancora una volta in una guerra sanguinosa e terribilmente distruttiva? E che dire della presenza di un Direttore israeliano come Daniel Oren, ulteriore anello nella catena delle coincidenze, che ha guidato al successo con enorme partecipazione la compagnia di canto e l'Orchestra e il Coro del Teatro partenopeo? Per fortuna l'avvenimento artistico ha assolto ancora una volta le sue funzioni catartiche e di sublimazione dei conflitti reali, a tal punto che il riscontro emotivo da parte del pubblico si è rivelato assai più caloroso e spontaneo di quanto non sarebbe potuto accadere in momenti più tranquilli.
Elementi di spicco di questa nuova produzione sancarliana sono stati senz'altro la concertazione di Oren, l'impianto scenico di Mauro Carosi e la presenza carismatica di almeno un interprete di altissimo livello, Piero Cappuccilli. Oren ha evidentemente mantenuto con il pubblico napoletano un rapporto di stima e di affetto reciproci che la lontananza del Direttore non ha minimamente scalfito: se ne è avuta la riprova l'altra sera attraverso le ovazioni che hanno accompagnato ogni sua apparizione alla ribalta e che hanno complessivamente superato in intensità quelle rivolte alla compagnia di canto. Del resto se Oren voleva in qualche modo riconquistarsi il favore del pubblico nessun'altra partitura gli avrebbe consentito un tale dispiego di forza e di vitalità che ha portato all'incandescenza il clima della serata. Che in Nabucco le forti passioni, i ritmi marziali, lo spontaneo, accorato melodizzare del coro abbiano il sopravvento su qualsiasi altro elemento che possa suggerire letture di tipo intimistico, è cosa risaputa. Oren si è completamente immerso in una visione spontaneista (e non del tutto corretta dal punto di vista filologico) del capolavoro verdiano, nella quale la violenza fonica, il taglio netto e deciso delle singole scene, la sottolineatura quasi bandistica e paesana di certi accompagnamenti hanno condizionato - a volte con effetti decisamente esagerati - la lettura complessiva dell'opera. Certo si poteva giocare con molta maggiore raffinatezza, come fa ad esempio Muti, sugli scarti dinamici e ritmici della pure irruente partitura verdiana; si poteva tentare di conseguenza un più discreto accompagnamento degli interventi vocali (a favore di qualche cantante che si è trovato letteralmente "coperto" dal suono dell'orchestra). Ma in quel contesto l'impeto trascinante di Oren non è apparso fuori luogo, anzi si può dire abbia agito da elemento propulsore per uno spettacolo che forse le singole altre componenti non avrebbero saputo reggere appieno. Paradossalmente, le voci che più parevano seguire l'impostazione d'assalto voluta dal Direttore sono state quelle che meno hanno convinto dal punto di vista tecnico e interpretativo. L'Abigaille di Linda Roark Strummer manifestava solamente il lato feroce, sanguigno di un personaggio che vive pure una sua mutazione psicologica verso sentimenti decisamente più umanitari, attraverso una voce di timbro tutt'altro che gradevole, con una fastidiosa tendenza a forzare l'intonazione. Nulla si poteva tuttavia eccepire per ciò che riguardava l'abilità del soprano nell'affrontare una delle parti virtuosisticamente più spaventevoli di tutto il repertorio verdiano, tanto che il pubblico ha premiato al termine con un misto di applausi e zittii una performance a dir poco contrastante. Altrettanto sopra le righe era l'Ismaele di Nunzio Todisco, un tenore le cui doti naturali - se maggiormente controllate - avrebbero potuto portare a risultati artisticamente molto più validi. Su tutt'altra linea si snodavano invece il bellissimo canto di Roberto Scandiuzzi, uno Zaccaria di grande levatura anche da un punto di vista scenico, e l'altrettanto preziosa voce di Elisabetta Fiorillo, Fenena deliziosa e davvero agli antipodi rispetto alla isterica sorellastra. Tuttora in stato di grazia, Piero Cappuccilli si è infine rivelato il grandissimo artista che tutti conosciamo: ogni suo intervento riusciva a spezzare persino il ritmo serratissimo della concertazione di Oren, costringendo il pubblico ad un ascolto più attento dei non pochi momenti preziosi racchiusi nella partitura verdiana. Non poteva mancare, in una serata come questa, la celebrazione dell'evento culminante rappresentato dal Va pensiero, sottolineato giustamente da Oren come apice del clima narrativo. La richiesta del bis - esaudita in barba a tutte le convenzioni snobistiche - ha premiato di conseguenza e il consenso popolare e l'ottima prestazione del Coro del S.Carlo, istruito da Giacomo Maggiore. L'allestimento si giovava delle monumentali scene approntate da Mauro Carosi, fedele collaboratore di De Simone e autore della scenografia di un applaudito Nabucco scaligero (1986-87) e dei costumi accuratissimi di Sybille Ulsamer. La regia di Fabio Sparvoli non è apparsa particolarmente ricca di idee, ma si è rivelata perlomeno funzionale alla impostazione generale dello spettacolo. Grande successo, per una serata che a qualcuno sarà parsa interminabile a causa dei tre lunghi intervalli che separavano le quattro parti dell'opera.
Il minuto di silenzio richiesto dai dirigenti del Teatro S.Carlo per commemorare le vittime della Guerra del Golfo, la sera della prima rappresentazione di Nabucco, ha sottolineato ancora di più l'inevitabile coincidenza tra una realtà di palcoscenico e una, ben più triste, vissuta in questi giorni da tutti noi con il fiato sospeso. Come evitare infatti, ripercorrendo mentalmente i conflitti che si agitano nel libretto di Temistocle Solera, il paragone tra Babilonesi e Iracheni, tra Ebrei assaliti dalla violenza alterna di Nabucco e di Abigaille e Israeliani coinvolti ancora una volta in una guerra sanguinosa e terribilmente distruttiva? E che dire della presenza di un Direttore israeliano come Daniel Oren, ulteriore anello nella catena delle coincidenze, che ha guidato al successo con enorme partecipazione la compagnia di canto e l'Orchestra e il Coro del Teatro partenopeo? Per fortuna l'avvenimento artistico ha assolto ancora una volta le sue funzioni catartiche e di sublimazione dei conflitti reali, a tal punto che il riscontro emotivo da parte del pubblico si è rivelato assai più caloroso e spontaneo di quanto non sarebbe potuto accadere in momenti più tranquilli.
Elementi di spicco di questa nuova produzione sancarliana sono stati senz'altro la concertazione di Oren, l'impianto scenico di Mauro Carosi e la presenza carismatica di almeno un interprete di altissimo livello, Piero Cappuccilli. Oren ha evidentemente mantenuto con il pubblico napoletano un rapporto di stima e di affetto reciproci che la lontananza del Direttore non ha minimamente scalfito: se ne è avuta la riprova l'altra sera attraverso le ovazioni che hanno accompagnato ogni sua apparizione alla ribalta e che hanno complessivamente superato in intensità quelle rivolte alla compagnia di canto. Del resto se Oren voleva in qualche modo riconquistarsi il favore del pubblico nessun'altra partitura gli avrebbe consentito un tale dispiego di forza e di vitalità che ha portato all'incandescenza il clima della serata. Che in Nabucco le forti passioni, i ritmi marziali, lo spontaneo, accorato melodizzare del coro abbiano il sopravvento su qualsiasi altro elemento che possa suggerire letture di tipo intimistico, è cosa risaputa. Oren si è completamente immerso in una visione spontaneista (e non del tutto corretta dal punto di vista filologico) del capolavoro verdiano, nella quale la violenza fonica, il taglio netto e deciso delle singole scene, la sottolineatura quasi bandistica e paesana di certi accompagnamenti hanno condizionato - a volte con effetti decisamente esagerati - la lettura complessiva dell'opera. Certo si poteva giocare con molta maggiore raffinatezza, come fa ad esempio Muti, sugli scarti dinamici e ritmici della pure irruente partitura verdiana; si poteva tentare di conseguenza un più discreto accompagnamento degli interventi vocali (a favore di qualche cantante che si è trovato letteralmente "coperto" dal suono dell'orchestra). Ma in quel contesto l'impeto trascinante di Oren non è apparso fuori luogo, anzi si può dire abbia agito da elemento propulsore per uno spettacolo che forse le singole altre componenti non avrebbero saputo reggere appieno. Paradossalmente, le voci che più parevano seguire l'impostazione d'assalto voluta dal Direttore sono state quelle che meno hanno convinto dal punto di vista tecnico e interpretativo. L'Abigaille di Linda Roark Strummer manifestava solamente il lato feroce, sanguigno di un personaggio che vive pure una sua mutazione psicologica verso sentimenti decisamente più umanitari, attraverso una voce di timbro tutt'altro che gradevole, con una fastidiosa tendenza a forzare l'intonazione. Nulla si poteva tuttavia eccepire per ciò che riguardava l'abilità del soprano nell'affrontare una delle parti virtuosisticamente più spaventevoli di tutto il repertorio verdiano, tanto che il pubblico ha premiato al termine con un misto di applausi e zittii una performance a dir poco contrastante. Altrettanto sopra le righe era l'Ismaele di Nunzio Todisco, un tenore le cui doti naturali - se maggiormente controllate - avrebbero potuto portare a risultati artisticamente molto più validi. Su tutt'altra linea si snodavano invece il bellissimo canto di Roberto Scandiuzzi, uno Zaccaria di grande levatura anche da un punto di vista scenico, e l'altrettanto preziosa voce di Elisabetta Fiorillo, Fenena deliziosa e davvero agli antipodi rispetto alla isterica sorellastra. Tuttora in stato di grazia, Piero Cappuccilli si è infine rivelato il grandissimo artista che tutti conosciamo: ogni suo intervento riusciva a spezzare persino il ritmo serratissimo della concertazione di Oren, costringendo il pubblico ad un ascolto più attento dei non pochi momenti preziosi racchiusi nella partitura verdiana. Non poteva mancare, in una serata come questa, la celebrazione dell'evento culminante rappresentato dal Va pensiero, sottolineato giustamente da Oren come apice del clima narrativo. La richiesta del bis - esaudita in barba a tutte le convenzioni snobistiche - ha premiato di conseguenza e il consenso popolare e l'ottima prestazione del Coro del S.Carlo, istruito da Giacomo Maggiore. L'allestimento si giovava delle monumentali scene approntate da Mauro Carosi, fedele collaboratore di De Simone e autore della scenografia di un applaudito Nabucco scaligero (1986-87) e dei costumi accuratissimi di Sybille Ulsamer. La regia di Fabio Sparvoli non è apparsa particolarmente ricca di idee, ma si è rivelata perlomeno funzionale alla impostazione generale dello spettacolo. Grande successo, per una serata che a qualcuno sarà parsa interminabile a causa dei tre lunghi intervalli che separavano le quattro parti dell'opera.