Puccini - Suor Angelica
Mascagni - Cavalleria rusticana
Bergamo, 2 Novembre 1990
L'Opera
Con la scelta dell'abbinamento tra Suor Angelica e
Cavalleria rusticana - una delle tante possibili nel calcolo combinatorio che
sovraintende ad ogni incastro tra le componenti del Trittico e le due
popolarissime opere del repertorio verista - la stagione bergamasca del
Donizetti è approdata al suo secondo appuntamento autunnale, rispettando i
dettami di una coproduzione che vede protagonisti anche gli Enti del
Teatro Grande di Brescia e del Ponchielli di Cremona.
Un successo non particolarmente brillante ha siglato la conclusione di Suor Angelica, titolo di difficile realizzazione nel quale Regina De Ventura non ha affatto convinto nel ruolo della protagonista (sono mancati persino i tradizionali applausi dopo il "Senza mamma"). La De Ventura era attorniata da uno stuolo di consorelle che hanno contribuito non poco ad alimentare una sgradevole sensazione di cattiva intonazione generale, per quel poco che si poteva cogliere grazie alla pesantissima concertazione di Angelo Campori, del tutto fuori linea rispetto alle richieste implicite nel raffinatissimo tessuto orchestrale pucciniano. Unica presenza interessante, Elisabetta Andreani è stata una Principessa forse più grave e compassata che spietatamente autoritaria ma ha comunque assolto i propri compiti con gusto musicale e appropriato senso scenico.
Elemento comune ai due spettacoli erano le scene di Tito Varisco e la rega di Carlo Maestrini. Varisco, veterano della scenografia lirica è sembrato qui evidentemente alle prese con problemi di spazio, dovuti alla esigua profondità del teatro bergamasco, e con non meno gravi restrizioni di costi che hanno determinato l'esagerata povertà di ambientazione delle due opere (forse che lo sfarzo della Cavalleria zeffirelliana ci ha abituato troppo bene?). Ma la responsabilità di Maestrini è andata ben oltre: il regista ha infatti proposto una lettura estremamente didascalica dei libretti, che a volte sconfinava nel ridicolo. In Suor Angelica ogni invocazione al cielo pronunciata da suore, badesse, zie era immancabilmente contrassegnata da un dito indice puntato verso il soffitto, ogni atto di contrizione e di preghiera era ovviamente accompagnato da mani giunte o strette a pugno sul petto. E nel momento in cui ci si prendeva qualche libertà nei confronti delle indicazioni originali contenute nel libretto, apriti cielo! Dopo che Suor Angelica ha bevuto la fatale pozione di erbe che le darà la morte, "abbandonando lentamente il braccio destro lascia cadere la ciotola a terra...". Ma a Bergamo la ciotola è stata scaraventata a mo'di lancio del disco ed è finita tra le quinte producendo un baccano che ha del tutto rovinato l'atmosfera mistica del finale d'opera. Non parliamo poi della delicata questione intorno al come risolvere la comparsa della Madonna col bambino, questione sulla quale esiste tutto un carteggio pucciniano che il regista avrebbe fatto meglio a consultare. Qui ci si è goffamente limitati a spingere in avanti una Vergine da immaginetta con tanto di bambinello sul cui capo risplendevano tante lucine da presepe. Non si poteva risolvere il tutto in maniera un po'meno pacchiana, con qualche gioco di luce?
In Cavalleria le cose sono andate molto meglio per quanto riguarda le voci e l'esecuzione orchestrale. Dominatrice indiscussa è stata la Santuzza di Rossella Redoglia, passionale al punto giusto, perfettamente padrona del ruolo e soprattutto con una organizzazione vocale fuori dal comune che ha permesso alla cantante di trovare una verità di accenti che è appannaggio solo delle grandi interpreti. Non altrettanto si può dire del Turiddu di Nazzareno Antinori, i cui mezzi vocali sembrano gravemente compromessi, mentre Luigi De Corato si è imposto come un Alfio dalla voce tonante. Il trucco di Anita Caminada-Mamma Lucia era tale per cui la suddetta sembrava la figlia di Turiddu: sembra un particolare sciocco, ma vi assicuro che ne risente anche la musica.
Il regista si è sbizzarrito ovviamente anche in Cavalleria: nell'angusta chiesetta di paese è entrata una processione di preti e chierichetti che penso non possa essere contenuta nemmeno in S.Pietro; nondimeno la piazza è rimasta rigorosamente vuota, a sipario aperto, durante tutta l'esecuzione del Preludio, che normalmente viene eseguito a sipario chiuso.
Sviste di questo tipo non sono più ammissibili neanche nei teatri di provincia, tantomeno nel caso di un luogo che oramai da molti anni è diventato un punto di riferimento assoluto per l'esecuzione donizettiana. Bergamo ha però diritto a estendere i propri orizzonti anche al di là dei festival specializzati: il pubblico del Teatro lo ha capito perfettamente e difficilmente sarà disposto a premiare con il proprio applauso spettacoli come quello dell'altra sera.
Un successo non particolarmente brillante ha siglato la conclusione di Suor Angelica, titolo di difficile realizzazione nel quale Regina De Ventura non ha affatto convinto nel ruolo della protagonista (sono mancati persino i tradizionali applausi dopo il "Senza mamma"). La De Ventura era attorniata da uno stuolo di consorelle che hanno contribuito non poco ad alimentare una sgradevole sensazione di cattiva intonazione generale, per quel poco che si poteva cogliere grazie alla pesantissima concertazione di Angelo Campori, del tutto fuori linea rispetto alle richieste implicite nel raffinatissimo tessuto orchestrale pucciniano. Unica presenza interessante, Elisabetta Andreani è stata una Principessa forse più grave e compassata che spietatamente autoritaria ma ha comunque assolto i propri compiti con gusto musicale e appropriato senso scenico.
Elemento comune ai due spettacoli erano le scene di Tito Varisco e la rega di Carlo Maestrini. Varisco, veterano della scenografia lirica è sembrato qui evidentemente alle prese con problemi di spazio, dovuti alla esigua profondità del teatro bergamasco, e con non meno gravi restrizioni di costi che hanno determinato l'esagerata povertà di ambientazione delle due opere (forse che lo sfarzo della Cavalleria zeffirelliana ci ha abituato troppo bene?). Ma la responsabilità di Maestrini è andata ben oltre: il regista ha infatti proposto una lettura estremamente didascalica dei libretti, che a volte sconfinava nel ridicolo. In Suor Angelica ogni invocazione al cielo pronunciata da suore, badesse, zie era immancabilmente contrassegnata da un dito indice puntato verso il soffitto, ogni atto di contrizione e di preghiera era ovviamente accompagnato da mani giunte o strette a pugno sul petto. E nel momento in cui ci si prendeva qualche libertà nei confronti delle indicazioni originali contenute nel libretto, apriti cielo! Dopo che Suor Angelica ha bevuto la fatale pozione di erbe che le darà la morte, "abbandonando lentamente il braccio destro lascia cadere la ciotola a terra...". Ma a Bergamo la ciotola è stata scaraventata a mo'di lancio del disco ed è finita tra le quinte producendo un baccano che ha del tutto rovinato l'atmosfera mistica del finale d'opera. Non parliamo poi della delicata questione intorno al come risolvere la comparsa della Madonna col bambino, questione sulla quale esiste tutto un carteggio pucciniano che il regista avrebbe fatto meglio a consultare. Qui ci si è goffamente limitati a spingere in avanti una Vergine da immaginetta con tanto di bambinello sul cui capo risplendevano tante lucine da presepe. Non si poteva risolvere il tutto in maniera un po'meno pacchiana, con qualche gioco di luce?
In Cavalleria le cose sono andate molto meglio per quanto riguarda le voci e l'esecuzione orchestrale. Dominatrice indiscussa è stata la Santuzza di Rossella Redoglia, passionale al punto giusto, perfettamente padrona del ruolo e soprattutto con una organizzazione vocale fuori dal comune che ha permesso alla cantante di trovare una verità di accenti che è appannaggio solo delle grandi interpreti. Non altrettanto si può dire del Turiddu di Nazzareno Antinori, i cui mezzi vocali sembrano gravemente compromessi, mentre Luigi De Corato si è imposto come un Alfio dalla voce tonante. Il trucco di Anita Caminada-Mamma Lucia era tale per cui la suddetta sembrava la figlia di Turiddu: sembra un particolare sciocco, ma vi assicuro che ne risente anche la musica.
Il regista si è sbizzarrito ovviamente anche in Cavalleria: nell'angusta chiesetta di paese è entrata una processione di preti e chierichetti che penso non possa essere contenuta nemmeno in S.Pietro; nondimeno la piazza è rimasta rigorosamente vuota, a sipario aperto, durante tutta l'esecuzione del Preludio, che normalmente viene eseguito a sipario chiuso.
Sviste di questo tipo non sono più ammissibili neanche nei teatri di provincia, tantomeno nel caso di un luogo che oramai da molti anni è diventato un punto di riferimento assoluto per l'esecuzione donizettiana. Bergamo ha però diritto a estendere i propri orizzonti anche al di là dei festival specializzati: il pubblico del Teatro lo ha capito perfettamente e difficilmente sarà disposto a premiare con il proprio applauso spettacoli come quello dell'altra sera.
Donizetti - L'assedio di Calais
Bergamo, 18 Settembre 1990
L'Opera
Ci si sarebbe davvero associati l'altra sera a
Bergamo alle grida di entusiasmo che il pubblico locale lanciava nei confronti
non solo dei protagonisti ma soprattutto dell'Autore de L'assedio di Calais, se
non altro per sostenere una causa giusta e doverosa. Diamo infatti per scontato
che le nostre istituzioni musicali, tra i tanti conti da saldare con musicisti
italiani maggiori e minori tra settecento e ottocento, debbano urgentemente
onorare quelli con Rossini e Donizetti. E se le esecuzioni mirate a raggiungere
il traguardo dell'opera omnia del primo stanno quasi per essere completate, per
il secondo, la cui prolificità è indubbiamente collegata a certi scadimenti
qualitativi, le cose andranno un poco più per le lunghe, anche se l'attuale ritmo
delle riscoperte patrocinate dal Festival bergamasco e appoggiate da casa Ricordi
con la pubblicazioni di dischi e edizioni critiche fanno sperare bene per il
futuro.
E diamo quindi ancora per scontato che all'appuntamento d'inaugurazione del Festival Donizetti e il suo tempo ci si doveva recare con lo spirito di chi vuole procedere nella conoscenza di un repertorio con il quale anche il singolo ascoltatore deve fare i conti. E'inutile, a questo punto, sollevare le solite considerazioni critiche basate sul paragone tra ciò che scriveva il Gaetano nazionale negli anni tra il 1820 e il 1840 e quello che scrivevano "gli altri" in Francia e in Germania, e ancora più scorretto è il prendere come termine di confronto proprio questo Assedio di Calais che certo non è un capolavoro. I motivi di interesse andavano cercati sicuramente nella collocazione di quest'opera all'interno del linguaggio donizettiano, e massimamente in quell'anelito al Grand-Opéra che rappresentava uno dei crucci di un compositore tutt'altro che disattento a quanto accadeva nel resto d'Europa. Rappresentato al S.Carlo nel 1836, poco dopo il Belisario, Il Campanello e la Betly, l'Assedio di Calais è opera nella quale il soggetto storico, tratto da un episodio della Guerra dei cent'anni, si mescola a situazioni dove gli affetti, pur vissuti in maniera corale e "ufficiale", hanno sempre la meglio: ciò non deve stupire più di tanto, visto che a gran parte del melodramma donizettiano quel che fa difetto è proprio la coerenza drammaturgica. Qui si notava invece una ricerca ben precisa mirata ad amalgamare gli interventi corali di stampo militaresco con quelli a sfondo religioso-patriottico che trovano la loro realizzazione massima nel finale dell'atto secondo, quasi un ponte di congiunzione tra i sorprendenti cori a cappella di tante opere rossiniane e i futuri grandi esempi verdiani.
Opera essenzialmente corale, dunque, che lascia spazio ai solisti più da un punto di vista strettamente musicale che da quello della caratterizzazione dei personaggi, e anche in quel senso li lega indissolubilmente a forme complesse dove arie e duetti spesso vengono intercalate da altri interventi. Le figure di Eustachio e di Aurelio, presenti dall'inizio alla fine, sono le uniche ad acquistare un vero spessore, che è negato a un Edoardo III e ancor più alla sua sposa, pure co-protagonisti vocali con tutte le carte in regola.
Questa edizione dell'Assedio si presentava come "prima esecuzione in forma scenica nel nostro secolo" ed era preceduta solamente da una realizzazione in forma di concerto avvenuta a Londra due anni fa. Si poteva dunque meglio puntare, oltre che sulla compagnia di canto e sul direttore, di cui diremo tra breve, anche su due fattori-chiave che erano la completezza dell'esecuzione e il complesso formato da regia, scene e costumi. Per una decisione che è apparsa ben strana a tutti i presenti e che poteva trovare una blanda giustificazione in una lettera dello stesso Donizetti, scritta a seguito della prima rappresentazione del 1836, l'opera veniva eseguita senza le danze del terz'atto, che dovevano essere ingrediente irrinunciabile (anche se probabilmente di pessimo effetto) di un lavoro che si è detto rifarsi al Grand-Opéra. D'altro canto la regia di Sonja Frisell ci è sembrata condizionata dalle asperità di uno svolgimento che non è tanto macchinoso quanto disordinato e le scene di Dada Saligeri insistevano un po' troppo sull'aspetto turrito che una cittadella medioevale non poteva non suggerire.
Se poi consideriamo questo Assedio sotto l'aspetto puramente esecutivo non vi è che da lodare innanzitutto la lettura globale che ne ha dato Roberto Abbado, oramai divenuto un esperto di riscoperte donizettiane, coadiuvato ottimamente dall'Orchestra e dal Coro di Milano della RAI. Nei due ruoli principali di Eustachio e di Aurelio, Paolo Coni e Luciana d'Intino hanno portato alla luce raffinatezze espressive che quasi certamente furono sconosciute ai primi interpreti dell'opera. Michele Pertusi ha conferito nobile dignità al personaggio di Edoardo, cui faceva da spalla l'Isabella di Barbara Frittoli, mentre Nuccia Focile - già presente nel cast dell'edizione londinese - non ha particolarmente brillato nelle vesti di Eleonora, moglie di Aurelio. Ragguardevole anche la prestazione di Gavazzi nel ruolo secondario di Edmondo.
Dalle tre recite dell'Assedio in programma a Bergamo verrà ricavata un'edizione in CD che permetterà ai collezionisti di riempire uno dei tanti vuoti della discografia donizettiana ufficiale.
E diamo quindi ancora per scontato che all'appuntamento d'inaugurazione del Festival Donizetti e il suo tempo ci si doveva recare con lo spirito di chi vuole procedere nella conoscenza di un repertorio con il quale anche il singolo ascoltatore deve fare i conti. E'inutile, a questo punto, sollevare le solite considerazioni critiche basate sul paragone tra ciò che scriveva il Gaetano nazionale negli anni tra il 1820 e il 1840 e quello che scrivevano "gli altri" in Francia e in Germania, e ancora più scorretto è il prendere come termine di confronto proprio questo Assedio di Calais che certo non è un capolavoro. I motivi di interesse andavano cercati sicuramente nella collocazione di quest'opera all'interno del linguaggio donizettiano, e massimamente in quell'anelito al Grand-Opéra che rappresentava uno dei crucci di un compositore tutt'altro che disattento a quanto accadeva nel resto d'Europa. Rappresentato al S.Carlo nel 1836, poco dopo il Belisario, Il Campanello e la Betly, l'Assedio di Calais è opera nella quale il soggetto storico, tratto da un episodio della Guerra dei cent'anni, si mescola a situazioni dove gli affetti, pur vissuti in maniera corale e "ufficiale", hanno sempre la meglio: ciò non deve stupire più di tanto, visto che a gran parte del melodramma donizettiano quel che fa difetto è proprio la coerenza drammaturgica. Qui si notava invece una ricerca ben precisa mirata ad amalgamare gli interventi corali di stampo militaresco con quelli a sfondo religioso-patriottico che trovano la loro realizzazione massima nel finale dell'atto secondo, quasi un ponte di congiunzione tra i sorprendenti cori a cappella di tante opere rossiniane e i futuri grandi esempi verdiani.
Opera essenzialmente corale, dunque, che lascia spazio ai solisti più da un punto di vista strettamente musicale che da quello della caratterizzazione dei personaggi, e anche in quel senso li lega indissolubilmente a forme complesse dove arie e duetti spesso vengono intercalate da altri interventi. Le figure di Eustachio e di Aurelio, presenti dall'inizio alla fine, sono le uniche ad acquistare un vero spessore, che è negato a un Edoardo III e ancor più alla sua sposa, pure co-protagonisti vocali con tutte le carte in regola.
Questa edizione dell'Assedio si presentava come "prima esecuzione in forma scenica nel nostro secolo" ed era preceduta solamente da una realizzazione in forma di concerto avvenuta a Londra due anni fa. Si poteva dunque meglio puntare, oltre che sulla compagnia di canto e sul direttore, di cui diremo tra breve, anche su due fattori-chiave che erano la completezza dell'esecuzione e il complesso formato da regia, scene e costumi. Per una decisione che è apparsa ben strana a tutti i presenti e che poteva trovare una blanda giustificazione in una lettera dello stesso Donizetti, scritta a seguito della prima rappresentazione del 1836, l'opera veniva eseguita senza le danze del terz'atto, che dovevano essere ingrediente irrinunciabile (anche se probabilmente di pessimo effetto) di un lavoro che si è detto rifarsi al Grand-Opéra. D'altro canto la regia di Sonja Frisell ci è sembrata condizionata dalle asperità di uno svolgimento che non è tanto macchinoso quanto disordinato e le scene di Dada Saligeri insistevano un po' troppo sull'aspetto turrito che una cittadella medioevale non poteva non suggerire.
Se poi consideriamo questo Assedio sotto l'aspetto puramente esecutivo non vi è che da lodare innanzitutto la lettura globale che ne ha dato Roberto Abbado, oramai divenuto un esperto di riscoperte donizettiane, coadiuvato ottimamente dall'Orchestra e dal Coro di Milano della RAI. Nei due ruoli principali di Eustachio e di Aurelio, Paolo Coni e Luciana d'Intino hanno portato alla luce raffinatezze espressive che quasi certamente furono sconosciute ai primi interpreti dell'opera. Michele Pertusi ha conferito nobile dignità al personaggio di Edoardo, cui faceva da spalla l'Isabella di Barbara Frittoli, mentre Nuccia Focile - già presente nel cast dell'edizione londinese - non ha particolarmente brillato nelle vesti di Eleonora, moglie di Aurelio. Ragguardevole anche la prestazione di Gavazzi nel ruolo secondario di Edmondo.
Dalle tre recite dell'Assedio in programma a Bergamo verrà ricavata un'edizione in CD che permetterà ai collezionisti di riempire uno dei tanti vuoti della discografia donizettiana ufficiale.
Mozart - Così fan tutte
Puccini - La bohéme
Verdi - Requiem
Macerata, Sferisterio e Teatro Lauri Rossi, Agosto 1990
L'Opera
Nel ristretto giro di alcune giornate precedenti il
Ferragosto, una visita a Macerata permetteva al visitatore festivaliero di
collezionare due recite teatrali e un Requiem verdiano divisi tra lo spazio
raccolto del Teatro Lauro Rossi e la singolare cornice dello Sferisterio. In
Teatro, ovviamente, rivivevano le deliziose simmetrie del Così fan tutte
mozartiano, sottoposte a una lettura registica sconvolgente la tradizione ma -
come vedremo tra breve - tutt'altro che risolta in una sequela di banalità come
ci si sarebbe potuto aspettare. All'Arena Sferisterio invece una Bohéme di
eccellente routine, giocata ancora una volta sulla carta di una compagnia dei
giovani, e un problematico Requiem che doveva sopportare il peso delle
celebrazioni per il centenario della nascita di Beniamino Gigli, recanatese.
Al centro delle cronache estive, avide di pettegolezzi, il Così fan tutte messo in scena e diretto da Gustav Kuhn si è rivelato da una parte stimolo inconsueto per una rilettura in chiave psicologica dei personaggi mozartiani, dall'altra operazione teatral-musicale parzialmente riuscita per una serie di motivi che derivano da una disomogenea compagnia di canto, dai ritmi frenetici imposti dallo stesso Kuhn e dalla scarsa attitudine della sfuggente e maliziosa partitura a lasciarsi imbrigliare da una concezione scenica del tutto anticonvenzionale.
Abituati da sempre ad ascoltare il Così proiettato in una dimensione di classicità olimpica, dove contano più le simmetrie musicali di una partitura raffinatissima piuttosto che lo scandaglio della complessa personalità dei protagonisti, la proposta di Kuhn, coadiuvata in tutto e per tutto dalle scene e dai costumi di Peter Pabst, ha colto nel segno ribaltando completamente le prospettive. Prospettive che non sono tanto violentate dalla trasposizione della vicenda in tempi moderni quanto dalla individuazione della natura essenzialmente nevrotica del duo Dorabella-Fiordilligi, della spavalderia da giovanotti da spiaggia della coppia Ferrando-Guglielmo, del sadismo di Don Alfonso, generato da impotenza senile, e della divertita accondiscendenza di Despina, forse l'unico personaggio che sembra uscire moralmente indenne dalla scomposizione spettrale dei caratteri operata da Kuhn. Il gioco delle coppie e dei tradimenti viene ovviamente rispettato, ma ha ragione Kuhn - nei particolari - nel cogliere il nervosismo annoiato delle due damine tramite lo scuotimento isterico dei bicchieri da long-drink o nella manipolazione di un telecomando-TV, quando le regie tradizionali ci proponevano tazzine di bruno cioccolatte e un uso fino ridicolo di ventagli e di altro trovarobame settecentesco che equiparavano la finissima commedia dapontiana a una qualsiasi delle miriadi di opere buffe del filone napoletano che inflazionavano i teatri di quel tempo. C'è purtroppo da dire che i tedeschi si lasciano prendere sovente la mano, e non era necessario presentare Ferrando e Guglielmo in costumi tirolesi alla loro seconda comparsa nelle vesti di amanti tentatori, così come la caratterizzazione di Don Alfonso, che assomiglia molto a quella di un anziano commendatore partenopeo che stenta a muoversi correttamente in scena, sembra essere stata suggerita, quasi imposta, dalle attuali condizioni scenico-vocali di Bruscantini piuttosto che da un disegno registico in linea con tutto il resto.
Kuhn ha impresso alla partitura una svolta del tutto coerente con le proprie scelte drammaturgiche, cancellando in un sol colpo il vecchio, noioso approccio alla Karl Boehm, e proponendo una lettura alternativa a quella - insuperabile sul piano musicale - di Muti.
L'operazione sarebbe stata quasi perfetta, lo si accennava in apertura, se non ci fossero state evidenti disuguaglianze dal punto di vista vocale. Quasi nulla da eccepire nei riguardi del trio femminile, dove Anna Caterina Antonacci si trova sempre più a proprio agio nei ruoli a sfondo drammatico (e tutto sommato Fiordiligi è un personaggio drammatico), la Bacelli ha sottolineato il carattere determinato e intraprendente di Dorabella e Laura Cherici quello maliziosamente complice di Despina. Albert Dohmen e Richard Decker si sono invece lasciati andare ad esagerazioni buffonesche di cattivo gusto che ci sembra strano possano essere state suggerite dal Kuhn regista. In particolare il Ferrando di Decker è parso alquanto compromesso e affaticato sul piano vocale. Resta da accennare alla presenza in scena di una grande gloria del teatro musicale italiano, quel Sesto Bruscantini che qui era quasi l'ombra di se stesso, cosa più che giustificabile dal punto di vista vocale, meno da quello scenico: su quest' ultimo versante egli avrebbe potuto infatti lavorare allo scopo di conferire il giusto risalto alla importantissima figura di Don Alfonso.
Grande successo di pubblico ha avuto il Così fan tutte ma un plauso ancora più grande - data l'ambientazione nello spazio aperto dello Sferisterio - è toccato a una produzione di Bohéme diretta senza particolari finezze da Filippo Zigante e sostenuta da regia e scene (di Lutz Hochstraate e Otto Werner Meyer) importate dal Salzburger Landestheater, dove questa produzione aveva avuto il varo nell'ottobre dell'anno passato. Si è veramente tentati di ringraziare austriaci e tedeschi per le loro esportazioni in terreno wagneriano e straussiano, ma anche di pregar loro di lasciar perdere quando si tratta di Puccini, ché nulla di nuovo o solo di emozionante è saltato fuori da questa Bohéme del tutto convenzionale. Un cast di ottimo livello, nel quale spiccava un La Scola fin troppo professionale, una bravissima Mazzaria - già Mimì a Venezia alcuni anni fa - e il sempre perfetto Roberto Servile ha sollevato le sorti di uno spettacolo che non aveva dunque motivi particolari di fascino. Altrettanto professionali sono stati gli interventi di Orietta Manente (Musetta),Marzio Giossi (Schaunard), Carlo Guelfi (Colline).
Il Requiem di Verdi, infine, è stato giustamente scelto come omaggio per il centenario della nascita di Gigli (ricordato anche in un toccante scritto del Sovrintendente Canessa, inserito nel programma di sala) e come concerto di chiusura della stagione maceratese di quest'anno, così come lo stesso Requiem aveva da poco celebrato il termine delle manifestazioni spoletine, con un cast parzialmente uguale (La Scola e Scandiuzzi). Ogni proposta del capolavoro verdiano travalica sempre i limiti di una esecuzione all'aperto o le eventuali imperfezioni di ordine orchestrale e vocale, tanta è la carica straziante di questa partitura somma, ed è solo perché si è da sempre abituati a letture di straordinario livello strumentale e intellettuale (Karajan,Solti,Abbado,Muti...) che l'impegno considerevole di Kuhn è parso a volte mancante di tensione, risolto nella scelta di tempi ora esageratamente allargati ora eccessivamente veloci. L'analisi minuziosa della partitura ha portato anche alla luce effetti singolari, ma ciò che più si è notato, accanto alle sezioni del Dies Irae e del Sanctus, risolte con grande bravura, è stata l'esagerata dilatazione nel contesto del Lacrymosa, scelta che ha oltretutto messo alla prova la resistenza della compagnia di canto. Ai già citati La Scola e Scandiuzzi, veterani nei rispettivi ruoli, si aggiungeva la luminosa, bellissima interpretazione di Maria Dragoni, mentre una serie di circostanze dovute alla defezione della Valentini Terrani non ha evidentemente permesso a Bruna Baglioni di acquistare la carica necessaria per affrontare l'ardua parte mezzosopranile del Requiem. Un'altra defezione, annunciata già da tempo nel cast di questo Requiem, come del resto da quello del pesarese Ricciardo, ha privato i maceratesi della presenza del divo Merrit, figura che è stata indirettamente al centro delle discussioni tra i vociologhi che sempre più in massa frequentano gli appuntamenti musicali estivi. Merrit a parte, la serata ha avuto un successo di pubblico davvero impressionante, con numerose chiamate nei confronti del quartetto vocale, dei bravissimi componenti dei cori di Bratislava e del marchigiano "Bellini" e ovviamente di Kuhn, vero "factotum" della stagione maceratese di quest'anno
Al centro delle cronache estive, avide di pettegolezzi, il Così fan tutte messo in scena e diretto da Gustav Kuhn si è rivelato da una parte stimolo inconsueto per una rilettura in chiave psicologica dei personaggi mozartiani, dall'altra operazione teatral-musicale parzialmente riuscita per una serie di motivi che derivano da una disomogenea compagnia di canto, dai ritmi frenetici imposti dallo stesso Kuhn e dalla scarsa attitudine della sfuggente e maliziosa partitura a lasciarsi imbrigliare da una concezione scenica del tutto anticonvenzionale.
Abituati da sempre ad ascoltare il Così proiettato in una dimensione di classicità olimpica, dove contano più le simmetrie musicali di una partitura raffinatissima piuttosto che lo scandaglio della complessa personalità dei protagonisti, la proposta di Kuhn, coadiuvata in tutto e per tutto dalle scene e dai costumi di Peter Pabst, ha colto nel segno ribaltando completamente le prospettive. Prospettive che non sono tanto violentate dalla trasposizione della vicenda in tempi moderni quanto dalla individuazione della natura essenzialmente nevrotica del duo Dorabella-Fiordilligi, della spavalderia da giovanotti da spiaggia della coppia Ferrando-Guglielmo, del sadismo di Don Alfonso, generato da impotenza senile, e della divertita accondiscendenza di Despina, forse l'unico personaggio che sembra uscire moralmente indenne dalla scomposizione spettrale dei caratteri operata da Kuhn. Il gioco delle coppie e dei tradimenti viene ovviamente rispettato, ma ha ragione Kuhn - nei particolari - nel cogliere il nervosismo annoiato delle due damine tramite lo scuotimento isterico dei bicchieri da long-drink o nella manipolazione di un telecomando-TV, quando le regie tradizionali ci proponevano tazzine di bruno cioccolatte e un uso fino ridicolo di ventagli e di altro trovarobame settecentesco che equiparavano la finissima commedia dapontiana a una qualsiasi delle miriadi di opere buffe del filone napoletano che inflazionavano i teatri di quel tempo. C'è purtroppo da dire che i tedeschi si lasciano prendere sovente la mano, e non era necessario presentare Ferrando e Guglielmo in costumi tirolesi alla loro seconda comparsa nelle vesti di amanti tentatori, così come la caratterizzazione di Don Alfonso, che assomiglia molto a quella di un anziano commendatore partenopeo che stenta a muoversi correttamente in scena, sembra essere stata suggerita, quasi imposta, dalle attuali condizioni scenico-vocali di Bruscantini piuttosto che da un disegno registico in linea con tutto il resto.
Kuhn ha impresso alla partitura una svolta del tutto coerente con le proprie scelte drammaturgiche, cancellando in un sol colpo il vecchio, noioso approccio alla Karl Boehm, e proponendo una lettura alternativa a quella - insuperabile sul piano musicale - di Muti.
L'operazione sarebbe stata quasi perfetta, lo si accennava in apertura, se non ci fossero state evidenti disuguaglianze dal punto di vista vocale. Quasi nulla da eccepire nei riguardi del trio femminile, dove Anna Caterina Antonacci si trova sempre più a proprio agio nei ruoli a sfondo drammatico (e tutto sommato Fiordiligi è un personaggio drammatico), la Bacelli ha sottolineato il carattere determinato e intraprendente di Dorabella e Laura Cherici quello maliziosamente complice di Despina. Albert Dohmen e Richard Decker si sono invece lasciati andare ad esagerazioni buffonesche di cattivo gusto che ci sembra strano possano essere state suggerite dal Kuhn regista. In particolare il Ferrando di Decker è parso alquanto compromesso e affaticato sul piano vocale. Resta da accennare alla presenza in scena di una grande gloria del teatro musicale italiano, quel Sesto Bruscantini che qui era quasi l'ombra di se stesso, cosa più che giustificabile dal punto di vista vocale, meno da quello scenico: su quest' ultimo versante egli avrebbe potuto infatti lavorare allo scopo di conferire il giusto risalto alla importantissima figura di Don Alfonso.
Grande successo di pubblico ha avuto il Così fan tutte ma un plauso ancora più grande - data l'ambientazione nello spazio aperto dello Sferisterio - è toccato a una produzione di Bohéme diretta senza particolari finezze da Filippo Zigante e sostenuta da regia e scene (di Lutz Hochstraate e Otto Werner Meyer) importate dal Salzburger Landestheater, dove questa produzione aveva avuto il varo nell'ottobre dell'anno passato. Si è veramente tentati di ringraziare austriaci e tedeschi per le loro esportazioni in terreno wagneriano e straussiano, ma anche di pregar loro di lasciar perdere quando si tratta di Puccini, ché nulla di nuovo o solo di emozionante è saltato fuori da questa Bohéme del tutto convenzionale. Un cast di ottimo livello, nel quale spiccava un La Scola fin troppo professionale, una bravissima Mazzaria - già Mimì a Venezia alcuni anni fa - e il sempre perfetto Roberto Servile ha sollevato le sorti di uno spettacolo che non aveva dunque motivi particolari di fascino. Altrettanto professionali sono stati gli interventi di Orietta Manente (Musetta),Marzio Giossi (Schaunard), Carlo Guelfi (Colline).
Il Requiem di Verdi, infine, è stato giustamente scelto come omaggio per il centenario della nascita di Gigli (ricordato anche in un toccante scritto del Sovrintendente Canessa, inserito nel programma di sala) e come concerto di chiusura della stagione maceratese di quest'anno, così come lo stesso Requiem aveva da poco celebrato il termine delle manifestazioni spoletine, con un cast parzialmente uguale (La Scola e Scandiuzzi). Ogni proposta del capolavoro verdiano travalica sempre i limiti di una esecuzione all'aperto o le eventuali imperfezioni di ordine orchestrale e vocale, tanta è la carica straziante di questa partitura somma, ed è solo perché si è da sempre abituati a letture di straordinario livello strumentale e intellettuale (Karajan,Solti,Abbado,Muti...) che l'impegno considerevole di Kuhn è parso a volte mancante di tensione, risolto nella scelta di tempi ora esageratamente allargati ora eccessivamente veloci. L'analisi minuziosa della partitura ha portato anche alla luce effetti singolari, ma ciò che più si è notato, accanto alle sezioni del Dies Irae e del Sanctus, risolte con grande bravura, è stata l'esagerata dilatazione nel contesto del Lacrymosa, scelta che ha oltretutto messo alla prova la resistenza della compagnia di canto. Ai già citati La Scola e Scandiuzzi, veterani nei rispettivi ruoli, si aggiungeva la luminosa, bellissima interpretazione di Maria Dragoni, mentre una serie di circostanze dovute alla defezione della Valentini Terrani non ha evidentemente permesso a Bruna Baglioni di acquistare la carica necessaria per affrontare l'ardua parte mezzosopranile del Requiem. Un'altra defezione, annunciata già da tempo nel cast di questo Requiem, come del resto da quello del pesarese Ricciardo, ha privato i maceratesi della presenza del divo Merrit, figura che è stata indirettamente al centro delle discussioni tra i vociologhi che sempre più in massa frequentano gli appuntamenti musicali estivi. Merrit a parte, la serata ha avuto un successo di pubblico davvero impressionante, con numerose chiamate nei confronti del quartetto vocale, dei bravissimi componenti dei cori di Bratislava e del marchigiano "Bellini" e ovviamente di Kuhn, vero "factotum" della stagione maceratese di quest'anno
Palma - I vampiri
Fermo, Luglio 1990
L'Opera
Giunta felicemente al suo quarto anno di
attività, l'estate musicale fermana si trova di fronte a un problema di
soluzione tutt'altro che facile. La programmazione di un Festival come questo
ha fin dalla prima edizione puntato infatti su scelte che ne avvicinano il
carattere a manifestazioni di preciso indirizzo culturale (come il festival che
ha sede a Martina Franca) piuttosto che su quelle proposte di ordine generico
tipiche dei programmi di altre città marchigiane, sedi di altrettanti eventi
musicali estivi. L'operazione culturale lodevolissima del festival fermano è
consistita soprattutto nel riproporre opere dimenticate tratte dal repertorio
settecentesco di scuola napoletana, con una particolare enfasi sui nomi di
Paisiello (Le due contesse, Il Barbiere di Siviglia, Il mondo della luna, La
Modista) e di Cimarosa (con I due Baroni di Roccazzurra, Le astuzie femminili e
L'Italiana in Londra). Il secondo titolo operistico in programma quest'anno è
stato invece scelto nel novero di quegli epigoni della scuola napoletana che
oltre ad avere prodotto lavori oggi del tutto dimenticati, hanno avuto la sorte
di rimanere dimenticati essi stessi, salvo la citazione nei più quotati
dizionari musicali.
E'accaduto così che il nome di Silvestro Palma (1762 - 1834), con il suo I Vampiri (1812), ha sostituito una ennesima ricerca nel folto gruppo di opere di Cimarosa e Paisiello ancora da riportare alla luce. E'quasi certo che il revisore Pietro Andrisani sia stato particolarmente attratto da un titolo che - pensiamo a Der Vampyr di Marschner, del 1828 - prometteva l'elaborazione di un elemento demoniaco ricco di brividi teatrali e musicali. Questo elemento, che attraverso l'opera di Marschner troverà di lì a poco la sua massima esaltazione in quel capolavoro che è il Freischutz, manca totalmente nella zuccherosa commedia di Palma ricavata da un debole libretto del Palomba. Nessun brivido dunque, tranne quello posticcio voluto dalla regia e dalle scene di Gianni e Alessandro Marata che invocano figure vampiresche per animare gli intermezzi orchestrali dell'opera. Nessun elemento particolare nella musica del Palma avrebbe potuto minimamente ricordare il titolo sinistro di questo lavoro. E poiché la musica stessa pareva unicamente funzionale al dipanarsi stanco e scontato di uno di quei soliti intrighi amorosi tipici dell'opera buffa settecentesca, non è stata neppure sufficiente l'attenta concertazione di Fabio Maestri e la perfetta immedesimazione del complesso vocale nel quale spiccavano Romano Franceschetto, Bruno de Simone e Stefania Donzelli a salvare una proposta d'ascolto che probabilmente non troverà repliche negli anni a venire, e soprattutto scoraggerà qualsiasi altra investigazione sul Palma e gli altri accoliti (come Guglielmi e Mosca) della scuola tardo-napoletana.
Si è trattato ovviamente di un esperimento, e come tale anche questa scelta de I Vampiri va rispettata, ma sarebbe consigliabile in futuro spostare l'attenzione non solo su quei lavori del tardo Paisiello e Cimarosa oggi dimenticati, ma estendere la ricerca sia nei confronti del filone comico (il Galuppi del Filosofo in campagna o il Piccinni de La serva onorata) sia di quello serio, dove si potrebbero trovare vere e proprie gemme dimenticate ad opera di Jommelli (il Fetonte scaligero ne è un'abbagliante riprova), Traetta e Salieri.
E'accaduto così che il nome di Silvestro Palma (1762 - 1834), con il suo I Vampiri (1812), ha sostituito una ennesima ricerca nel folto gruppo di opere di Cimarosa e Paisiello ancora da riportare alla luce. E'quasi certo che il revisore Pietro Andrisani sia stato particolarmente attratto da un titolo che - pensiamo a Der Vampyr di Marschner, del 1828 - prometteva l'elaborazione di un elemento demoniaco ricco di brividi teatrali e musicali. Questo elemento, che attraverso l'opera di Marschner troverà di lì a poco la sua massima esaltazione in quel capolavoro che è il Freischutz, manca totalmente nella zuccherosa commedia di Palma ricavata da un debole libretto del Palomba. Nessun brivido dunque, tranne quello posticcio voluto dalla regia e dalle scene di Gianni e Alessandro Marata che invocano figure vampiresche per animare gli intermezzi orchestrali dell'opera. Nessun elemento particolare nella musica del Palma avrebbe potuto minimamente ricordare il titolo sinistro di questo lavoro. E poiché la musica stessa pareva unicamente funzionale al dipanarsi stanco e scontato di uno di quei soliti intrighi amorosi tipici dell'opera buffa settecentesca, non è stata neppure sufficiente l'attenta concertazione di Fabio Maestri e la perfetta immedesimazione del complesso vocale nel quale spiccavano Romano Franceschetto, Bruno de Simone e Stefania Donzelli a salvare una proposta d'ascolto che probabilmente non troverà repliche negli anni a venire, e soprattutto scoraggerà qualsiasi altra investigazione sul Palma e gli altri accoliti (come Guglielmi e Mosca) della scuola tardo-napoletana.
Si è trattato ovviamente di un esperimento, e come tale anche questa scelta de I Vampiri va rispettata, ma sarebbe consigliabile in futuro spostare l'attenzione non solo su quei lavori del tardo Paisiello e Cimarosa oggi dimenticati, ma estendere la ricerca sia nei confronti del filone comico (il Galuppi del Filosofo in campagna o il Piccinni de La serva onorata) sia di quello serio, dove si potrebbero trovare vere e proprie gemme dimenticate ad opera di Jommelli (il Fetonte scaligero ne è un'abbagliante riprova), Traetta e Salieri.
Arcà - Il carillon del gesuita
Gretry - Denis le tyran
Fermo, 28 Luglio 1989
L'Opera
Per il proprio doveroso omaggio al bicentenario della
Rivoluzione Francese il Festival di Fermo ha proposto nella stessa serata
un'interessante accoppiata di due brevi atti lirici: Denys le Tyran, prima
opera rivoluzionaria (1794) di quel Gretry che fino a poco tempo prima era un
rispettato musicista di corte, e un lavoro - Il carillon del gesuita, su libretto
di Giovanni Carli Ballola - appositamente commissionato al giovane compositore
romano Paolo Arcà, alla sua seconda prova teatrale. Il Gretry accondiscendente
al Terrore si avvale di un edificante libretto di Pierre Sylvain Maréchal che
narra della fuga del Tiranno Dionisio, scacciato da Siracusa e riparato a
Corinto dove esercita, da buon precario, l'attività di maestro di scuola. Il
Tiranno perde il trono ma non il vizio, sembra essere la morale della storiella:
Dionisio perde le staffe molto facilmente nei confronti di una scolaresca
invero chiassosa e indisciplinata (ma cosa è venuto in mente al regista Stefano
Vizioli di coprire la già non eccelsa musica di Gretry prendendo troppo alla
lettera una lunga e rumorosa scena durante la quale i discoli alunni si
abbandonano alla più selvaggia delle ricreazioni durante l'assenza del maestro-tiranno?)
e viene facilmente smascherato da un coro popolare che tra l'altro è interprete
del lato artisticamente più felice di questa poco felice opera. Tutto finisce
in gaudio, addirittura con la Marsigliese intonata dall'intera compagnia (ma la
trovata è ancora e solo del regista).
Ben altre emozioni aveva espresso in precedenza il delizioso lavoro di Ballola e Arcà. Anteponiamo per una volta il librettista al compositore non certo per una questione di età ed esperienza musicologico-letteraria o peggio ancora per una presa di posizione "all'Abate Casti" ma per sottolineare come le pur pregevoli e a tratti affascinanti idee di Arcà non sempre siano riuscite a farsi carico integralmente di tutti gli aspetti che possono scaturire da un soggetto cos ricco di riferimenti storici, musicali e drammaturgici.
Il libretto di Carli-Ballola prende le mosse da un'episodio secondario ma assai affascinante di storia della Rivoluzione Francese : la scomparsa (1795) del figlio decenne di Luigi XVI, mancato Luigi XVII, prigioniero ma non ghigliottinato come mamma e papà durante il Terrore. Con la partecipazione della figura di un umanitario Jean-Jacques Laurent, membro della Convenzione e custode della salvaguardia del Delfino, del suo aiuto Michel, e della figura intrigante del violinista e compositore Bartolomeo Bruni "incaricato della confisca e dell'inventario degli strumenti musicali già appartenenti agli emigrati e ai condannati a morte" Carli Ballola riesce a tessere una trama fitta di suspense, organizzando la sparizione del Delfino in virtù del suono di un carillon magico, regolarmente confiscato a un gesuita che si avviava al patibolo. Il carillon, invece di evocare Papagene o benevole fatine, ha il potere di far resuscitare i morti: ombre dell'Ancien Régime che si aggirano come zombi e rendono la libertà al piccolo Re trascinandolo nell'al di là (o meglio al di là di un emblematico giglio borbonico disegnato su un pannello bianco che fa da fondale, secondo la bellissima soluzione del regista e scenografo Vizioli). Soggetto zeppo di possibili riferimenti storico-musicali per il quale, mettiamo il caso, uno Strauss sarebbe andato a nozze.
Attraverso quale tipo di linguaggio un giovane compositore contemporaneo, allievo di Donatoni e con dichiarate tendenze filo-operistiche, poteva dar vita a un simile libretto? Nella musica di Arcà si trova un po'di tutto: Britten e Henze sono le figure ispiratrici secondo lo stesso autore, ma a noi è parso scorgere anche l'ombra di Dallapiccola e fino di Menotti. Piuttosto, in un lavoro che dura in tutto 36 minuti, l'inevitabile gioco dei riferimenti musicali ha rischiato di occupare troppo spazio. La citazione mozartiana è d'obbligo quando il musicista Bruni elenca tra gli strumenti confiscati un flauto e un arpa ("indovinate un po'...la duchessa di Guines ...Mozart...concerto in do...e neanche gliel pagò") e giù l'Allegro del K.299. Quella clementina è più scontata quando l'inventario considera il "fortepiano inglese, ottave sei...in palissandro e mogano/già di Muzio Clementi", proveniente - immaginiamo noi - da qualche saldo della finanziariamente malconcia società Longman, Clementi & Co. Ma si sfiora addirittura il plagio proprio nel momento magico dell'opera, quando "Gradatamente, e quasi inavvertitamente, il carillon cambia motivo, intonando un tempo di minuetto, aulico ed elegante. Al suono del quale, dall'oscurità in cui sarà immersa la scena affioreranno le ombre dell'Ancien Régime." Perché invece di dare libero sfogo alla propria fantasia Arcà ha ritenuto opportuno prendere a prestito un innocente Andantino in mi bemolle scritto da Mozart presumibilmente nel 1790 per l'Album di J.B.Cramer? Diamo atto tuttavia ad Arcà di aver saputo introdurre il tema mozartiano con grande sapienza, sovrapponendolo a un motivo risolto con un tremolo degli archi che creava una suggestiva atmosfera di attesa, del tutto in linea con i dettami del libretto. Lo spettacolo ha rivelato quindi momenti di grande bellezza; solamente ha lasciato al termine la sensazione di qualcosa di inespresso, sensazione che è sicuramente da imputare alla ricchezza e alla concentrazione degli spunti che il libretto suggeriva.
Un cordiale applauso è stato indirizzato dal pubblico ad Arcà e a tutti gli interpreti coinvolti nella "doppia serata", da Bruno de Simone (Dionisio e Laurent) e Claudio di Segni (Timoleon e Bruni), impegnati in ambedue i lavori, alla brava Paola Romanò (Michel) e al direttore Francesco Vizioli che ha condotto con mano sicura l'Orchestra Internazionale d'Italia.
Ben altre emozioni aveva espresso in precedenza il delizioso lavoro di Ballola e Arcà. Anteponiamo per una volta il librettista al compositore non certo per una questione di età ed esperienza musicologico-letteraria o peggio ancora per una presa di posizione "all'Abate Casti" ma per sottolineare come le pur pregevoli e a tratti affascinanti idee di Arcà non sempre siano riuscite a farsi carico integralmente di tutti gli aspetti che possono scaturire da un soggetto cos ricco di riferimenti storici, musicali e drammaturgici.
Il libretto di Carli-Ballola prende le mosse da un'episodio secondario ma assai affascinante di storia della Rivoluzione Francese : la scomparsa (1795) del figlio decenne di Luigi XVI, mancato Luigi XVII, prigioniero ma non ghigliottinato come mamma e papà durante il Terrore. Con la partecipazione della figura di un umanitario Jean-Jacques Laurent, membro della Convenzione e custode della salvaguardia del Delfino, del suo aiuto Michel, e della figura intrigante del violinista e compositore Bartolomeo Bruni "incaricato della confisca e dell'inventario degli strumenti musicali già appartenenti agli emigrati e ai condannati a morte" Carli Ballola riesce a tessere una trama fitta di suspense, organizzando la sparizione del Delfino in virtù del suono di un carillon magico, regolarmente confiscato a un gesuita che si avviava al patibolo. Il carillon, invece di evocare Papagene o benevole fatine, ha il potere di far resuscitare i morti: ombre dell'Ancien Régime che si aggirano come zombi e rendono la libertà al piccolo Re trascinandolo nell'al di là (o meglio al di là di un emblematico giglio borbonico disegnato su un pannello bianco che fa da fondale, secondo la bellissima soluzione del regista e scenografo Vizioli). Soggetto zeppo di possibili riferimenti storico-musicali per il quale, mettiamo il caso, uno Strauss sarebbe andato a nozze.
Attraverso quale tipo di linguaggio un giovane compositore contemporaneo, allievo di Donatoni e con dichiarate tendenze filo-operistiche, poteva dar vita a un simile libretto? Nella musica di Arcà si trova un po'di tutto: Britten e Henze sono le figure ispiratrici secondo lo stesso autore, ma a noi è parso scorgere anche l'ombra di Dallapiccola e fino di Menotti. Piuttosto, in un lavoro che dura in tutto 36 minuti, l'inevitabile gioco dei riferimenti musicali ha rischiato di occupare troppo spazio. La citazione mozartiana è d'obbligo quando il musicista Bruni elenca tra gli strumenti confiscati un flauto e un arpa ("indovinate un po'...la duchessa di Guines ...Mozart...concerto in do...e neanche gliel pagò") e giù l'Allegro del K.299. Quella clementina è più scontata quando l'inventario considera il "fortepiano inglese, ottave sei...in palissandro e mogano/già di Muzio Clementi", proveniente - immaginiamo noi - da qualche saldo della finanziariamente malconcia società Longman, Clementi & Co. Ma si sfiora addirittura il plagio proprio nel momento magico dell'opera, quando "Gradatamente, e quasi inavvertitamente, il carillon cambia motivo, intonando un tempo di minuetto, aulico ed elegante. Al suono del quale, dall'oscurità in cui sarà immersa la scena affioreranno le ombre dell'Ancien Régime." Perché invece di dare libero sfogo alla propria fantasia Arcà ha ritenuto opportuno prendere a prestito un innocente Andantino in mi bemolle scritto da Mozart presumibilmente nel 1790 per l'Album di J.B.Cramer? Diamo atto tuttavia ad Arcà di aver saputo introdurre il tema mozartiano con grande sapienza, sovrapponendolo a un motivo risolto con un tremolo degli archi che creava una suggestiva atmosfera di attesa, del tutto in linea con i dettami del libretto. Lo spettacolo ha rivelato quindi momenti di grande bellezza; solamente ha lasciato al termine la sensazione di qualcosa di inespresso, sensazione che è sicuramente da imputare alla ricchezza e alla concentrazione degli spunti che il libretto suggeriva.
Un cordiale applauso è stato indirizzato dal pubblico ad Arcà e a tutti gli interpreti coinvolti nella "doppia serata", da Bruno de Simone (Dionisio e Laurent) e Claudio di Segni (Timoleon e Bruni), impegnati in ambedue i lavori, alla brava Paola Romanò (Michel) e al direttore Francesco Vizioli che ha condotto con mano sicura l'Orchestra Internazionale d'Italia.
Pergolesi - San Guglielmo, Duca d'Aquitania
Martina Franca, 25 Luglio 1989
L'Opera
Dopo una inaugurazione tutta centrata sulle figure di
Haendel e di Bach (il Giulio Cesare e la Messa in si minore) il quindicesimo Festival
della Valle d'Itria di Martina Franca sembra essere ritornato alle originali
premesse che privilegiavano la produzione di musicisti di origine strettamente
meridionale, o gravitanti attorno alla scuola napoletana. Al
Mercadante, al Paisiello e al Bellini di qualche anno fa si è voluto felicemente
aggiungere un Pergolesi d'annata che va a cogliere oltretutto una fase di
estremo interesse nella produzione del celebre maestro di Jesi, giovane e
promettente discepolo del Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo a Napoli. Il
Dramma sacro, che per esteso si intitola Li prodigi della Divina Grazia nella
conversione e morte di S.Guglielmo Duca d'Aquitania è il frutto di un Pergolesi
fresco di studi (1731) e ossequiente a un genere di composizione molto in voga
tra i giovani musicisti napoletani dell'epoca. Dramma sacro, ma con
l'inserimento di una parte buffa che sconvolge i canoni della tradizione
accademica e che lascia ad intendere una possibile rappresentazione scenica
dell'opera - è opinione del musicologo Frank Walker - avvenuta all'epoca della
prima esecuzione, il Guglielmo è stato proposto a Martina Franca in forma di
concerto sulla scorta dell'edizione critica condotta da Gabriele Catalucci e
Fabio Maestri in base alla copia manoscritta ma non autografa del
lavoro, conservata presso la Biblioteca del Conservatorio S.Pietro a Majella di
Napoli. L'edizione critica era stata a dire il vero approntata in occasione di
una precedente esecuzione del Guglielmo avvenuta tre anni fa al Teatro Sociale
di Amelia, nei pressi di Terni, sotto la direzione dello stesso Maestri.
Un confronto tra l'esecuzione di Amelia, recentemente edita da Bongiovanni in compact disc, e quella di Martina Franca ci rivela la presenza di un cast vocale di spicco nel secondo caso e di una buona concertazione nel primo. La direzione di Marcello Panni a Martina Franca, con l'apporto dell'Orchestra RAI di Napoli, non ha infatti certo giovato all'equilibrio dell'insieme (la stessa cosa era successa qualche sera prima nel Giulio Cesare haendeliano) ma in compenso le voci di Maria Angeles Peters (Guglielmo), Bruno Praticò (Capitan Cuòsemo), Michele Pertusi (il Demonio) e Adelisa Tabiadon (S.Bernardo) hanno contribuito al raggiungimento di una lettura intensa e commovente del lavoro pergolesiano. La Peters, alla quale solamente si può rimproverare un canto tenuto sui mezzi fiati nei passaggi di agilità, ha delineato con grande efficacia i tratti sempre cangianti della figura del protagonista, mentre Bruno Praticò si è letteralmente impadronito, quasi da napoletano verace, della stuzzicante macchietta partenopea di Cuòsemo. Più serio e compassato che veramente demoniaco, ma sempre estremamente corretto dal punto di vista vocale, ci è parso Michele Pertusi. La Tabiadon, anch'essa ottima professionista, non ci sembra invece trovare nella vocalità settecentesca il terreno adatto per le sue indubbie qualità liriche, più portate verso il grande repertorio verdiano. Resta poi da segnalare la presenza di Gabriella Morigi nella difficile parte dell'Angelo, portata a termine con bravura nonostante la qualità naturale di una voce di per sé sottile e tendente a una certa fissità negli acuti.
Morigi, Pertusi, Tabiadon e Peters sono arrivati comunque in un vero e proprio stato di grazia ad interpretare il bellissimo quartetto che conclude l'Atto I, momento geniale e inaspettato di questo saggio pergolesiano, tanto sfuggente nella sua definizione teorica quanto ricolmo di poesia che si proietta nel firmamento delle cose assolute.
Un confronto tra l'esecuzione di Amelia, recentemente edita da Bongiovanni in compact disc, e quella di Martina Franca ci rivela la presenza di un cast vocale di spicco nel secondo caso e di una buona concertazione nel primo. La direzione di Marcello Panni a Martina Franca, con l'apporto dell'Orchestra RAI di Napoli, non ha infatti certo giovato all'equilibrio dell'insieme (la stessa cosa era successa qualche sera prima nel Giulio Cesare haendeliano) ma in compenso le voci di Maria Angeles Peters (Guglielmo), Bruno Praticò (Capitan Cuòsemo), Michele Pertusi (il Demonio) e Adelisa Tabiadon (S.Bernardo) hanno contribuito al raggiungimento di una lettura intensa e commovente del lavoro pergolesiano. La Peters, alla quale solamente si può rimproverare un canto tenuto sui mezzi fiati nei passaggi di agilità, ha delineato con grande efficacia i tratti sempre cangianti della figura del protagonista, mentre Bruno Praticò si è letteralmente impadronito, quasi da napoletano verace, della stuzzicante macchietta partenopea di Cuòsemo. Più serio e compassato che veramente demoniaco, ma sempre estremamente corretto dal punto di vista vocale, ci è parso Michele Pertusi. La Tabiadon, anch'essa ottima professionista, non ci sembra invece trovare nella vocalità settecentesca il terreno adatto per le sue indubbie qualità liriche, più portate verso il grande repertorio verdiano. Resta poi da segnalare la presenza di Gabriella Morigi nella difficile parte dell'Angelo, portata a termine con bravura nonostante la qualità naturale di una voce di per sé sottile e tendente a una certa fissità negli acuti.
Morigi, Pertusi, Tabiadon e Peters sono arrivati comunque in un vero e proprio stato di grazia ad interpretare il bellissimo quartetto che conclude l'Atto I, momento geniale e inaspettato di questo saggio pergolesiano, tanto sfuggente nella sua definizione teorica quanto ricolmo di poesia che si proietta nel firmamento delle cose assolute.
Cimarosa - I due baroni di Roccazzurra
Fermo, 21 Luglio 1989
L'Opera
Giunto ormai alla sua terza edizione, il Festival di Fermo
sembra voler concentrare tutte le proprie proposte in vista di un tanto atteso
avvenimento che sicuramente è destinato a sconvolgere il quadro mondano e
culturale di questa meravigliosa roccaforte delle Marche papaline. Il tema del
restauro e della riapertura del famoso Teatro dell'Aquila, costruito alla fine
del secolo diciottesimo e capace di oltre mille posti, oltre ad essere
tenacemente perseguito nei fatti (i lavori proseguono a ritmo serrato in vista
di una probabile conclusione entro il 1990) è costantemente commentato da
alcune scelte di repertorio che si rifanno proprio alle passate gloriose
stagioni fermiane, quando il Teatro dell'Aquila era considerato uno dei più
importanti luoghi musicali d'Italia. Non a caso gli organizzatori hanno questa
volta incoraggiato la distribuzione di una serie di fotocopie del libretto de I
due Baroni di Rocca Azzurra nella edizione originale stampata nel 1789 (sono
passati esattamente 200 anni!) proprio per la rappresentazione dell'opera
cimarosiana nel Teatro dell'Aquila. Tutto, anche questo particolare che può
sembrare di poco peso, ha contribuito a trasformare gli splendidi giardini di
Villa Vitali in un luogo ideale per l'ambientazione di un'operina
che, rappresentata in un teatro "di città", apparirebbe esattamente per
quello che è: una gustosa farsa rococò e nulla di più. I due Baroni di Rocca Azzurra
appartiene al primo periodo romano-napoletano del musicista di
Aversa, precedente quindi l'exploit del Matrimonio Segreto o degli Orazi; l'opera
venne rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma nel febbraio
1783 e conobbe un grande successo anche all'estero, come è testimoniato dalle
numerose repliche viennesi negli anni in cui l'opera italiana imperversava
nella capitale austriaca, magari a danno di tale Wolfgang Amadeus che nel
frattempo veleggiava verso tutt'altri lidi. Così come gli esempi mozartiani
gettano un ponte verso il futuro, la musica di Cimarosa resta bene ancorata nel
pieno del secolo dei lumi : lo si è capito definitivamente nel momento in cui
si è ascoltata l'aria intercalare che Mozart scrisse per una rappresentazione
viennese dei Baroni nel 1789. L'aria mozartiana "Alma grande e nobil
core" si incastra perfettamente dal punto di vista stilistico nel bel
mezzo della farsa cimarosiana ma vuoi per l'ingrediente virtuosistico (il pezzo
era stato scritto in vista delle straordinarie possibilità di Louise
Villeneuve, prima interprete del personaggio di Dorabella nel Così fan tutte)
vuoi per i contenuti puramente musicali, lo spettatore che si stava francamente abituando alle stereotipate simmetrie armoniche cimarosiane si risveglia
d'improvviso in un altro mondo, per poi ripiombare - ahimé - nella routine per
un'altra buona ora di spettacolo.
I Baroni si prestano, questo è vero, al gioco teatrale fine a se stesso e di ciò ha approfittato in parte la regia di Luca Verdone, almeno nei momenti in cui la sovrabbondanza di azioni secondarie del tutto inutili - una fastidiosa e ripetuta macchietta che aveva come protagonisti degli improbabili giovani mendicanti mezzo addormentati, regolarmente allontanati dalla scena da due ancora più improbabili guardie borboniche - non guastava il rispetto dei rapporti scenici tra i protagonisti. Assai convenzionali a questo riguardo ci sono sembrate le scene, firmate dallo stesso Verdone e da Rocco Pugliese.
Se l'opera gravita teatralmente attorno alle figure dei due "baroncini" Totaro e Demofonte ( e qui va lodata la gustosa caratterizzazione di Romano Franceschetto nei panni del Baron Zio), la vera protagonista è quella Madama Laura nobilitata dall'aria mozartiana di cui si diceva. Anna Caterina Antonacci, Laura in questa edizione fermiana, è cantante di indubbi talenti ma ci è apparsa come intimorita in un ruolo che esigeva molta più convinzione scenica e vocale. Laura non è certo un prototipo di grande dama mozartiana, ma è senza dubbio il solo personaggio nell'opera cimarosiana a vivere passionalmente il gioco arciscontato degli intrighi e delle sostituzioni di persona. E' accaduto dunque che il ruolo di protagonista è scivolato naturalmente sul personaggio di Totaro, al quale il bravissimo Roberto Servile ha messo a disposizione la propria superba vocalità e presenza scenica. Nessuna emozione particolare è scaturita dal canto di Stefania Donzelli e soprattutto di Frédéric Plantak, il quale ultimo avrebbe potuto risolvere con ben altra intelligenza il non banale ruolo di Franchetto. Più che corretta e professionale è stata la concertazione del giovane Aldo Tarchetti, alle prove con un macchinario teatrale assai difficile da reggere. Certo, a rileggere la locandina dei ruoli nella edizione fermiana del 1789 ci si immerge nell'affascinante mondo degli evirati cantori: ...Madama Laura...il Signor Paolo Belli, Virtuoso della Cappella di Camerino. Che la riapertura del Teatro dell'Aquila sia capace anche di simili miracoli?
I Baroni si prestano, questo è vero, al gioco teatrale fine a se stesso e di ciò ha approfittato in parte la regia di Luca Verdone, almeno nei momenti in cui la sovrabbondanza di azioni secondarie del tutto inutili - una fastidiosa e ripetuta macchietta che aveva come protagonisti degli improbabili giovani mendicanti mezzo addormentati, regolarmente allontanati dalla scena da due ancora più improbabili guardie borboniche - non guastava il rispetto dei rapporti scenici tra i protagonisti. Assai convenzionali a questo riguardo ci sono sembrate le scene, firmate dallo stesso Verdone e da Rocco Pugliese.
Se l'opera gravita teatralmente attorno alle figure dei due "baroncini" Totaro e Demofonte ( e qui va lodata la gustosa caratterizzazione di Romano Franceschetto nei panni del Baron Zio), la vera protagonista è quella Madama Laura nobilitata dall'aria mozartiana di cui si diceva. Anna Caterina Antonacci, Laura in questa edizione fermiana, è cantante di indubbi talenti ma ci è apparsa come intimorita in un ruolo che esigeva molta più convinzione scenica e vocale. Laura non è certo un prototipo di grande dama mozartiana, ma è senza dubbio il solo personaggio nell'opera cimarosiana a vivere passionalmente il gioco arciscontato degli intrighi e delle sostituzioni di persona. E' accaduto dunque che il ruolo di protagonista è scivolato naturalmente sul personaggio di Totaro, al quale il bravissimo Roberto Servile ha messo a disposizione la propria superba vocalità e presenza scenica. Nessuna emozione particolare è scaturita dal canto di Stefania Donzelli e soprattutto di Frédéric Plantak, il quale ultimo avrebbe potuto risolvere con ben altra intelligenza il non banale ruolo di Franchetto. Più che corretta e professionale è stata la concertazione del giovane Aldo Tarchetti, alle prove con un macchinario teatrale assai difficile da reggere. Certo, a rileggere la locandina dei ruoli nella edizione fermiana del 1789 ci si immerge nell'affascinante mondo degli evirati cantori: ...Madama Laura...il Signor Paolo Belli, Virtuoso della Cappella di Camerino. Che la riapertura del Teatro dell'Aquila sia capace anche di simili miracoli?