Recital della pianista Héléne Grimaud
Milano, Società dei Concerti, 1 Dicembre 2010
Recital della pianista Yuja Wang
Milano, Società del Quartetto, 30 Novembre 2010
The Classic Voice n.140
A brevissima distanza di tempo si sono esibite a Milano due
pianiste che vanno oggi per la maggiore e che sono state sostenute in tempi
recenti da ampie campagne pubblicitarie. La ventitreene Yuja Wang, cinese di
origine e studentessa nel famoso Curtis Institute di Philadelphia ha avuto la
fortuna di essere lanciata nel 2009 da un grande direttore come Abbado, che
l'ha accompagnata nel terzo concerto di Prokofiev nel sancta santorum di Lucerna. In quella occasione e nelle successive
esibizioni radiotrasmesse in tutta Europa nelle quali predominava la scelta di
un repertorio molto brillante si erano notati da parte della Wang uno
straordinario nitore e una altrettanto straordinaria velocità di scansione
sulla tastiera tali da eclissare qualsiasi confronto. Richiami questi
irresistibili anche per gli ascoltatori più esigenti, che però attendevano al
varco la pianista nel momento in cui si sarebbe cimentata in un repertorio dove
le sole ragioni della tecnica di velocità non sono sufficienti a sostenere un
discorso strumentale e soprattuto musicale. Ecco dunque che il recital milanese
della Wang si è rivelato un mezza delusione, soprattuto nello Schubert della Sonata in do minore, reso con una
piattezza espressiva piuttosto desolante. Ma i più accorti avranno anche
notato, registrazioni storiche alla mano, che la velocità non è sufficiente
neanche nelle operazioni (a parer nostro inutili) di recupero del mito di
Horowitz (la celeberrima versione della Danse
macabre di Saint-Saens, già trascritta da Liszt) : non ha senso, in altre
parole, eseguire le note con una velocità mozzafiato senza mettere in risalto
tutti quei particolari espressivi che il solo autore della trascrizione era in
grado di comunicare, anche attraverso una palette timbrica straordinaria. Non è
luogo comune pensare che un fisico minuto, leggero, come quello della Wang non sia
in grado di applicare più di tanto una tecnica "di peso" che è
l'unica attraverso la quale si possa raggiungere un suono granitico, intenso. E
la successione di note velocissime, "metalliche" e poco espressive fa
pensare più di una volta che siamo qui al confine con le realizzazioni
ottenibili da un software generatore di suoni nel cosiddetto "formato
midi".
La tecnica "di peso" non è neanche nelle corde della simpatica e comunicativa Grimaud - siamo qui su tutt'altro piano, rispetto alla Wang, per quel che riguarda l'espressione e la musicalità - che produce ondate di suono non sempre gradevoli anche a causa di un impiego esagerato del pedale di risonanza. La Grimaud si è letteralmente avventata sulla malinconica, a tratti tragica Sonata K.310 di Mozart, proiettandola in un universo di emozioni comprensibile ma molto poco mozartiano e proseguendo con una lettura della Sonata di Liszt, appassionata sì ma spesso imprecisa e confusa. Casualmente le due pianiste hanno scelto un medesimo bis : la antiquata quanto si vuole ma affascinante "Danza degli spiriti beati" dall'Orfeo di Gluck nella trascrizione di Sgambati. Qui la sensibilità della Grimaud ha decisamente avuto il sopravvento sulla manierata esecuzione della più giovane collega.
La tecnica "di peso" non è neanche nelle corde della simpatica e comunicativa Grimaud - siamo qui su tutt'altro piano, rispetto alla Wang, per quel che riguarda l'espressione e la musicalità - che produce ondate di suono non sempre gradevoli anche a causa di un impiego esagerato del pedale di risonanza. La Grimaud si è letteralmente avventata sulla malinconica, a tratti tragica Sonata K.310 di Mozart, proiettandola in un universo di emozioni comprensibile ma molto poco mozartiano e proseguendo con una lettura della Sonata di Liszt, appassionata sì ma spesso imprecisa e confusa. Casualmente le due pianiste hanno scelto un medesimo bis : la antiquata quanto si vuole ma affascinante "Danza degli spiriti beati" dall'Orfeo di Gluck nella trascrizione di Sgambati. Qui la sensibilità della Grimaud ha decisamente avuto il sopravvento sulla manierata esecuzione della più giovane collega.
Recital del pianista Evgenij Kissin
Verbier, 21 e 27 Luglio 2010
The Classic Voice n.136

Due recital con un programma di ampio respiro hanno
consacrato la fama di Evgenij Kissin presso il pubblico del festival di Verbier,
giunto quest’anno al diciassettesimo appuntamento. Seguiamo il pianista quasi
fin dal suo debutto nell’oramai lontano 1984 e il ragazzino dalla chioma
beethoveniana è oramai diventato un quarantenne che si impone sulla scena
internazionale come uno dei rari esempi di concertista “completo”. I due
recital a Verbier hanno confermato di Kissin la straordinaria bravura e la
capacità di dominare pienamente lo stile classico e romantico riassumendo la
grande tradizione della scuola russa ma raccogliendo in generale tutta la
grande eredità del pianismo del ‘900. Recital importanti e impegnativi che hanno
accostato i nomi di Chopin e Schumann, come era doveroso nell’anno in corso e
che hanno rivelato un repertorio in parte inedito all’interno di quello già
vasto affrontato dal pianista. Se davvero impressionante è stata la sequenza
senza soluzione di continuità delle quattro ballate chopiniane, eseguite con
una coerenza di pensiero e una padronanza strumentale che oggi possono essere
accostate solamente a quelle di un Pollini, seducenti e cariche di affetti ci
sono apparse le splendide letture dei Fantasiestücke
op.12 e della Novelletta op.21 n.8 di
Schumann, a tal punto da riportare alla memoria gli esempi di Rubinstein e di
Richter. Inarrivabile in tutti sensi è stata infine l’esecuzione, sempre di
Schumann, della Toccata op.7, pagina
di difficoltà tecnico-interpretativa trascendentale risolta qui con una
facilità e autorevolezza che oggi non hanno eguali e che hanno evocato la
mitica registrazione dello Horowitz degli anni ’30.
I due recital di Kissin hanno avuto luogo nella nuova tensostruttura (“Salle des combins”) che a Verbier ha sostituito la precedente, più piccola, che era collocata nel sito di Medran. Purtroppo anche la nuova sede risente di un difetto imperdonabile (il mancato isolamento dal rumore della pioggia battente nelle frequenti orages estive) che per fortuna non ha causato danni durante i concerti di cui abbiamo appena parlato, ma che ha compromesso con un paio di interruzioni i concerti diretti da Daniel Harding e da Marc Minkowski rispettivamente il 22 e 23 luglio.
I due recital di Kissin hanno avuto luogo nella nuova tensostruttura (“Salle des combins”) che a Verbier ha sostituito la precedente, più piccola, che era collocata nel sito di Medran. Purtroppo anche la nuova sede risente di un difetto imperdonabile (il mancato isolamento dal rumore della pioggia battente nelle frequenti orages estive) che per fortuna non ha causato danni durante i concerti di cui abbiamo appena parlato, ma che ha compromesso con un paio di interruzioni i concerti diretti da Daniel Harding e da Marc Minkowski rispettivamente il 22 e 23 luglio.
Recital del pianista Radu Lupu
Milano, Società del Quartetto, 27 Aprile 2010
The Classic Voice n.133

Forse oggi non vi è pianista che riempia la sala ed eserciti
una sorta di fascino ipnotico sul pubblico così come avviene immancabilmente
con Radu Lupu, 65 anni, una grande carriera alle spalle e una scarsa
propensione a interviste, filmati, registrazioni. Il repertorio di Lupu non è
mai stato vastissimo e si va ulteriormente riducendo negli ultimi anni,
concentrandosi sugli amatissimi classici, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms
e raramente concedendo qualche fuga in avanti nel tempo. Ma la qualità dell’interpretazione,
il fraseggio di ricchezza unica di inflessioni, il suono di qualità
intimissima, quelli rimangono davvero un unicum
e se dovessi avanzare un paragone con il passato direi che Lupu è l’unico
pianista che si possa avvicinare oggi ad Alfred Cortot. La serata di levatura
eccezionale alla Società del Quartetto, pur funestata da tossi, starnuti e
rumori di ogni sorta (al repertorio classico si aggiunge oramai anche
l’apertura con sfiatamento d’aria delle bottigliette di acqua frizzante) si è
aperta con uno Janacek non del tutto sconosciuto (la breve suite ‘Nelle
nebbie’) ma qui rivelato con accenti di sconvolgente verità. Il piatto forte
della serata, per il grande pubblico, era però costituito dall’”Appassionata” e
dalla Sonata in la maggiore D.959 di Schubert. Dire che si è trattato della
lettura più personale e antitradizionale del capolavoro beethoveniano significherebbe
sminuire il livello di profondità di scavo e di riappropriazione del testo che
Lupu è in grado di esercitare nei confronti di pagine considerate intangibili.
Un Beethoven colloquiale, antieroico, spogliato di ogni virtuosismo, come una
visione alternativa rispetto a quella
consacrata dalla grande tradizione. E uno Schubert assecondato in ogni
minimo dettaglio nel suo divagare nel mondo dei suoni, annunciato da un’entrata
del tutto inedita, quasi una successione di arpeggi di chitarra che stabiliscono
la tonalità d’impianto. Il pianista, visibilmente commosso al termine del
concerto, ha ringraziato il pubblico con due Intermezzi (op.116 n.4 e 6) di
Brahms, un autore con il quale Lupu sembra oggi anche fisicamente
immedesimarsi.
Recital del pianista Krystian Zimerman
Milano, Teatro alla Scala, Gennaio 2010
Recital del pianista Rafael Blechacz
Milano, Società del Quartetto, Gennaio 2010
Recital del pianista Murray Perahia
Milano, Società del Quartetto, Febbraio 2010
The Classic Voice n.130
All’inizio dell’anno chopiniano (e schumanniano) non era
così scontato il fatto che l’occasione di ascoltare e riascoltare tanti solisti
diversi, opportunamente invitati dalle grandi istituzioni concertistiche, potesse
dare adito a confronti e giudizi comparativi nonché a ripensamenti dell’ultima
ora. Sull’onda di un ricordo neanche troppo lontano ci siamo quindi recati con
grandi aspettative al recital scaligero di Krystian Zimerman, Premio Chopin nel
1975 e interprete capace di suscitare grandi emozioni. Strumentista
dotatissimo, Zimerman ha ancora una volta fatto onore al proprio nome, ma
questa volta non ha convinto del tutto in relazione ai lavori da lui scelti per
l’impaginazione del programma. Colpa di una serata non del tutto felice ? Colpa
del rumore fastidiosissimo dell’impianto di riscaldamento del teatro, che
rendeva praticamente inudibili i suoni al di sotto del mezzo forte? Solo in
parte. La verità è che Zimerman aveva infiammato l’uditorio milanese qualche
anno fa suonando la quarta Ballata, pagina narrativa per eccellenza dove il suo
eloquio, la sua naturale propensione a “raccontare” ciò che suona si intrecciavano
idealmente con il percorso del capolavoro chopiniano. Ma le due grandi Sonate
opp.35 e 58 non si prestano così bene a quel tipo di lettura e il limite di
Zimerman è apparso evidente : l’approfondimento strutturale delle Sonate è
stato sostituito infatti da una lettura convenzionalmente descrittiva dove all’interno
dell’op.58 veniva privilegiato il lato virtuosistico dello Scherzo e del Finale
e nell’op.35 il quadretto ottocentesco del corteo funebre che avanza da lontano
e poi sparisce nel nulla.
Senza l’esperienza concertistica di uno Zimerman si era invece presentato pochi giorni prima davanti al pubblico della Società del Quartetto il venticinquenne Rafael Blechacz, Premio Chopin 2005, dotato di altrettanto, anche se differente, smalto virtuosistico. Nessuna tentazione descrittiva qui, ma un vero e proprio rito celebrativo di riproposta della Polonaise Fantaisie, l’intima e tutta polacca partecipazione alle pagine segrete delle Mazurke (l’op.50) e infine il ricordare a tutti i presenti quanto audaci fossero le armonie attraverso le quali si dipana lo Scherzo op.20 del diciannovenne compositore. Un bellissimo concerto, arricchito da un’ottima esecuzione della prima Partita bachiana e della Suite pour le piano di Debussy.
Murray Perahia, alla perenne ricerca di se stesso, ha confermato invece quanto la sua fama poggi oramai quasi esclusivamente su una qualità di suono veramente ammaliante e su una certa affinità col linguaggio bachiano, anche se rivisto attraverso lo sguardo del Romantico. Perahia non è pianista beethoveniano, poiché la sua “109” sacrificava alla bellezza esteriore del suono tutta l’originale carica eversiva. E purtroppo, al contrario di Zimerman e Blechacz, non è nemmeno pianista chopiniano. Che senso ha proporre un programma da antologia (tre studi, tre mazurke, un notturno ...) se l’esecuzione non è appunto da antologia, con pecche interpretative molto fastidiose soprattutto nelle mazurke e un approccio tecnico che suona “innaturale” anche e soprattutto nel quarto Scherzo ? E come mai le qualità timbriche del pianismo di Perahia non risultano esaltate proprio nelle musiche scritte dall’autore che alle sonorità dello strumento teneva moltissimo ? Nelle sue scelte dell’altra sera Perahia ha evocato lo spirito di due grandi interpreti scomparsi ai quali era molto legato, Horowitz e Serkin. Viene quasi da pensare che l’ombra di questi giganti rappresenti oggi per il pianista americano una sorta di impedimento, anziché una fonte di ispirazione.
Senza l’esperienza concertistica di uno Zimerman si era invece presentato pochi giorni prima davanti al pubblico della Società del Quartetto il venticinquenne Rafael Blechacz, Premio Chopin 2005, dotato di altrettanto, anche se differente, smalto virtuosistico. Nessuna tentazione descrittiva qui, ma un vero e proprio rito celebrativo di riproposta della Polonaise Fantaisie, l’intima e tutta polacca partecipazione alle pagine segrete delle Mazurke (l’op.50) e infine il ricordare a tutti i presenti quanto audaci fossero le armonie attraverso le quali si dipana lo Scherzo op.20 del diciannovenne compositore. Un bellissimo concerto, arricchito da un’ottima esecuzione della prima Partita bachiana e della Suite pour le piano di Debussy.
Murray Perahia, alla perenne ricerca di se stesso, ha confermato invece quanto la sua fama poggi oramai quasi esclusivamente su una qualità di suono veramente ammaliante e su una certa affinità col linguaggio bachiano, anche se rivisto attraverso lo sguardo del Romantico. Perahia non è pianista beethoveniano, poiché la sua “109” sacrificava alla bellezza esteriore del suono tutta l’originale carica eversiva. E purtroppo, al contrario di Zimerman e Blechacz, non è nemmeno pianista chopiniano. Che senso ha proporre un programma da antologia (tre studi, tre mazurke, un notturno ...) se l’esecuzione non è appunto da antologia, con pecche interpretative molto fastidiose soprattutto nelle mazurke e un approccio tecnico che suona “innaturale” anche e soprattutto nel quarto Scherzo ? E come mai le qualità timbriche del pianismo di Perahia non risultano esaltate proprio nelle musiche scritte dall’autore che alle sonorità dello strumento teneva moltissimo ? Nelle sue scelte dell’altra sera Perahia ha evocato lo spirito di due grandi interpreti scomparsi ai quali era molto legato, Horowitz e Serkin. Viene quasi da pensare che l’ombra di questi giganti rappresenti oggi per il pianista americano una sorta di impedimento, anziché una fonte di ispirazione.