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Shostakovic - Sinfonie nn.1,15

Sinfonia n.1 in Fa op.10
I. Allegretto – Allegro non troppo; II. Allegro; III. Lento; IV. Lento-Allegro
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., timp., perc., pf., archi
Nel 1925 il diciannovenne Š. si diploma in composizione sotto la guida di Maximilian Steinberg, presentando proprio questa Sinfonia in fa minore come prova finale. Al Conservatorio di San Pietroburgo Š. era entrato nel 1919, si era diplomato in pianoforte nel ’23, e aveva completato alcuni brevi lavori come il Tema e Variazioni e due Scherzi per orchestra. Prima di licenziare la Sinfonia, Š. sembra accettare i consigli dell’espertissimo e influente Glazunov e si accinge a ritoccare la partitura che l’anziano Professore trova carente in alcuni dettagli. Ma con uno scatto d’orgoglio ne ristabilisce la versione originale poco prima dell’esecuzione ufficiale, che avviene il 12 Maggio del 1926 sotto la direzione di Nikolaj Malko in occasione dell’ultimo concerto della stagione sinfonica. Il celebre direttore resterà affascinato dal prodotto del nuovo astro nascente del sinfonismo russo, tanto da dichiarare che il lavoro apre “una nuova pagina nella storia della musica”. Malko si era del resto rivelato entusiasta fin dal momento in cui aveva ascoltato le linee principali del lavoro suonato dall’autore al pianoforte. La madre di Š. così commentò l’evento della prima esecuzione: “Tutto andò in maniera più che brillante, una splendida orchestra e una magnifica esecuzione. Il pubblico ascoltò con entusiasmo e lo Scherzo dovette essere replicato. Al termine Mitya venne richiamato più volte sul palcoscenico, sia con Malko che da solo.”
La Sinfonia avrà successivamente diverse importanti repliche : a Mosca, due mesi dopo la “prima”, con il compositore al pianoforte, e soprattutto a Berlino il 5 maggio 1927 con Bruno Walter sul podio e a Philadelphia il 2 novembre del 1928 con Stokowski. Walter aveva poco tempo prima incontrato Š. a San Pietroburgo e in quella occasione l’autore gli aveva illustrato la sua creazione al pianoforte. Pur considerando questo successo lusinghiero, il giovane Š. non poteva certo immaginare di avere posto la prima pietra di un edificio di colossale armatura che avrebbe fatto di lui addirittura il massimo sinfonista del ventesimo secolo
La Sinfonia è scritta in un linguaggio che tiene conto sia delle avanguardie musicali più recenti (soprattutto Stravinskij e Prokof’ev) che della eredità mahleriana e in parte di Cajkovsky e Skrjabin. L’op.10 si apre con un Allegretto nel quale si riconoscono già certe caratteristiche proprie del linguaggio dell’autore, una notevole dose di sarcasmo che sembra penetrare nel discorso apparentemente bonario introdotto attraverso il tema principale, la tessitura orchestrale già “trasparente”, chiara nella definizione dei dettagli e abilissima nello sfruttare tutti i timbri disponibili con notevole inventiva. L’apparizione di una seconda idea in ritmo ternario non modifica il carattere quasi improvvisatorio dell’insieme e aggiunge ingredienti per un sottile trattamento contrappuntistico dello spigoloso materiale tematico.
Al secondo posto, uno Scherzo definito come Allegro in partitura ribadisce in sostanza il carattere del movimento precedente e si fa notare per l’inclusione in orchestra del timbro del pianoforte, aspetto tipicamente novecentesco che ci fa pensare al rivoluzionario Stravinskij di → Petruska e che qui assume anche un carattere funzionale alla comparsa di una coda, dopo la ripresa della sezione principale intercalata da un Trio molto ritmato, di carattere paesano.
Se non conoscessimo gli abissi di disperazione nei quali sprofonda il melos di Š. in certi momenti cruciali della sua futura produzione rimarremmo piuttosto sorpresi dalle movenze del Lento che segue, colmo di richiami dolenti che non si possono del resto attribuire a un preciso riferimento programmatico. Ancora al grottesco, ai contrasti espressivi molto marcati, sembra essere poi ispirato il Finale, saggio di brillante scrittura orchestrale e presago di altri momenti importanti della futura produzione del musicista.
Sinfonia n.15 in LA op.141
I.Allegretto; II.Adagio; III.Allegretto; IV.Adagio-Allegretto
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., arc.
L’enigmatica quindicesima e ultima sinfonia di Š., che sembra condotta tutta e solamente sul filo dell’invenzione puramente musicale e strumentale, viene eseguita per la prima volta a Mosca l’8 Gennaio 1972 sotto la direzione del figlio dell’autore, Maxim.
L’organico orchestrale non è amplissimo ma con una variegata scelta di percussioni che danno luogo a combinazioni sonore particolarmente ingegnose, se non a veri e propri passaggi di virtuosismo come nel finale del terzo movimento. Altro lato caratteristico dell’orchestrazione della quindicesima è la presenza di numerosi inserti solistici, che vanno a volte a ricreare – soprattutto nel primo movimento – effetti cameristici che richiamano addirittura le preziose simmetrie di Hindemith, elemento questo che si era già notato nel lavoro di esordio del corpus sinfonico del musicista. A complicare l’enigma vi sono le vistose citazioni di temi riconoscibilissimi presi in prestito da Rossini (il Guglielmo Tell) e Wagner (il tema dell’enigma del destino che risuona soprattutto in Walkiria). Il valore delle citazioni nella Quindicesima può essere in parte chiarito dallo stesso musicista, che parlò effettivamente di residui di un programma che sarebbe stato alla base della sinfonia : la messa in scena di un’opera basata sul Monaco nero di Čechov (1894), lo scrittore che Š. poneva sullo stesso piano del suo massimo ispiratore musicale, Musorgskij. Ma anche alla luce di questa notizia, difficile appare il collegamento tra i temi musicali già citati e i deliri del protagonista del romanzo cechoviano. Tutto questo giustifica in parte l’aspra reazione della critica americana in seguito alla prima esecuzione negli Stati Uniti della Quindicesima. il 28 settembre del ’72, da parte della Philadelphia Orchestra diretta da Eugene Ormandy. Harold Schonberg parlò esageratamente di pseudo-profondità, e definì la Sinfonia “debole, non convincente”. In Russia invece la prima esecuzione ebbe notevole risonanza e rappresentò tra l’altro una importante occasione di suggello ufficiale del ruolo del figlio di Š., che aveva preparato l’esecuzione attraverso numerose prove e discusso ovviamente con il genitore ogni dettaglio tecnico. La cronaca registò dieci minuti di applausi, chiamate alla ribalta, abbracci tra padre e figlio e strette di mano a tutti i componenti dell’orchestra di fronte a un pubblico forse più sensibile ai travagli di salute del musicista che alla decifrazione del difficile messaggio musicale contenuto nell’opera. La reazione dell’establishment musicale sovietico fu ovviamente di grande plauso a patto che, come Khrennikov, si vedesse nella Sinfonia un lavoro “pieno di ottimismo, affermazione della vita, e fiducia nell’inesauribile forza dell’uomo”. Insomma ancora una volta tutto il contrario di ciò che rivela un’analisi più puntuale.
La Sinfonia si apre con un incipit che se fosse attribuibile a Prokof’ev (il tema al flauto) non tarderemmo a definire spensierato, ma che qui tradisce una componente di caustico umorismo, resa ancora più evidenti dai preziosi accostamenti timbrici di flauto, celesta e archi, dalla risposta baldanzosa del fagotto e più in là dalla ripresa mahleriana del tema da parte del violino solista. Un ritmo di fox-trot porta all’aperta citazione del Tell, intonata dalla tromba e poi richiamata diverse volte nel corso dell’Allegretto, anche solo ritmicamente. L’atmosfera di questo movimento, secondo le dichiarazioni dell’autore, è legata al mondo dell’infanzia e in particolare vorrebbe ricordare l’interno di un negozio di giocattoli. Curiosa immagine, che ci riporta al mondo di Caikovski e dello Schiaccianoci
L’Adagio è dominato da un mesto motivo di corale intonato dagli ottoni, evocante appena la citazione del tema del destino dalla Walkiria che sarà esplicitato nel secondo Adagio conclusivo della Sinfonia. Segue un tema di dodici note enunciato dal violoncello, di grande espressività, triste, rassegnato. E’ una delle poche concessioni di Š. alla dodecafonia, esplorata più per le sue evidenti possibilità espressive che per il carattere di rivoluzione formale e comunque impiegata all’interno di un contesto strettamente tonale. L’Adagio si conclude in maniera allucinata, in una atmosfera di gelida calma e con l’intervento della celesta che intona il tema originario del violoncello, esposto in forma inversa con l’apporto del vibrafono e del contrabbasso.
Eseguito senza soluzione di continuità dopo l’Adagio, il breve Scherzo mantiene il carattere graffiante di analoghe pagine che concorrono a formare il linguaggio espressivo del musicista fin dagli esordi. Questo Allegretto inizia ancora con un tema di stampo dodecafonico esposto prima dal clarinetto poi dalla viola, al quale si contrappone una fanfara di trombe, motivo solenne presto sbeffeggiato da una risposta da parte degli strumentini e poi dei tromboni. La conclusione di questo movimento rappresenta uno di quei momenti di virtuosismo musicale cui accennavamo più sopra, eccitante gioco di equilibrismo tra nacchere, xylophono e woodblock.
Un Adagio come finale di Sinfonia rimanda sia alla Patetica di Caikowsky sia alle incompiute “none” di Mahler e di Bruckner e si è davvero portati ad interpretare in parte questa conclusione come un addio alla vita e alla forma sinfonica che tanto Š. aveva coltivato. “Ho terminato un’altra sinfonia, la mia quindicesima – ebbe a scrivere il musicista – Forse smetterò di comporre”. “Tuttavia – aggiunse - non posso vivere senza comporre”.
Il wagneriano “Tema del destino” fa qui la sua comparsa più evidente, ripetendosi all’inizio per ben tre volte e richiamando l’atmosfera della scena quarta nel second’atto di di Walkiria, quando Brunhilde comunica a Siegmund la sua prossima morte per mano di Hunding. Ma non vi è qui una catarsi finale come nella Tetralogia: regna ora un clima di tristezza e di pessimismo, reso ancora più tragico da un’ulteriore citazione wagneriana, quella della famosa idea con la quale si apre il Tristano. Né a cambiare prospettiva concorre il crescendo che porta all’autocitazione presa di peso dalla settima sinfonia. La Quindicesima termina con un accordo di due sole note (la e mi) che solamente lo xylophono contribuisce a trasformare in un accordo di LA, sorta di frammentazione che evoca gli astratti raggiungimenti di Webern.
I. Allegretto – Allegro non troppo; II. Allegro; III. Lento; IV. Lento-Allegro
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., timp., perc., pf., archi
Nel 1925 il diciannovenne Š. si diploma in composizione sotto la guida di Maximilian Steinberg, presentando proprio questa Sinfonia in fa minore come prova finale. Al Conservatorio di San Pietroburgo Š. era entrato nel 1919, si era diplomato in pianoforte nel ’23, e aveva completato alcuni brevi lavori come il Tema e Variazioni e due Scherzi per orchestra. Prima di licenziare la Sinfonia, Š. sembra accettare i consigli dell’espertissimo e influente Glazunov e si accinge a ritoccare la partitura che l’anziano Professore trova carente in alcuni dettagli. Ma con uno scatto d’orgoglio ne ristabilisce la versione originale poco prima dell’esecuzione ufficiale, che avviene il 12 Maggio del 1926 sotto la direzione di Nikolaj Malko in occasione dell’ultimo concerto della stagione sinfonica. Il celebre direttore resterà affascinato dal prodotto del nuovo astro nascente del sinfonismo russo, tanto da dichiarare che il lavoro apre “una nuova pagina nella storia della musica”. Malko si era del resto rivelato entusiasta fin dal momento in cui aveva ascoltato le linee principali del lavoro suonato dall’autore al pianoforte. La madre di Š. così commentò l’evento della prima esecuzione: “Tutto andò in maniera più che brillante, una splendida orchestra e una magnifica esecuzione. Il pubblico ascoltò con entusiasmo e lo Scherzo dovette essere replicato. Al termine Mitya venne richiamato più volte sul palcoscenico, sia con Malko che da solo.”
La Sinfonia avrà successivamente diverse importanti repliche : a Mosca, due mesi dopo la “prima”, con il compositore al pianoforte, e soprattutto a Berlino il 5 maggio 1927 con Bruno Walter sul podio e a Philadelphia il 2 novembre del 1928 con Stokowski. Walter aveva poco tempo prima incontrato Š. a San Pietroburgo e in quella occasione l’autore gli aveva illustrato la sua creazione al pianoforte. Pur considerando questo successo lusinghiero, il giovane Š. non poteva certo immaginare di avere posto la prima pietra di un edificio di colossale armatura che avrebbe fatto di lui addirittura il massimo sinfonista del ventesimo secolo
La Sinfonia è scritta in un linguaggio che tiene conto sia delle avanguardie musicali più recenti (soprattutto Stravinskij e Prokof’ev) che della eredità mahleriana e in parte di Cajkovsky e Skrjabin. L’op.10 si apre con un Allegretto nel quale si riconoscono già certe caratteristiche proprie del linguaggio dell’autore, una notevole dose di sarcasmo che sembra penetrare nel discorso apparentemente bonario introdotto attraverso il tema principale, la tessitura orchestrale già “trasparente”, chiara nella definizione dei dettagli e abilissima nello sfruttare tutti i timbri disponibili con notevole inventiva. L’apparizione di una seconda idea in ritmo ternario non modifica il carattere quasi improvvisatorio dell’insieme e aggiunge ingredienti per un sottile trattamento contrappuntistico dello spigoloso materiale tematico.
Al secondo posto, uno Scherzo definito come Allegro in partitura ribadisce in sostanza il carattere del movimento precedente e si fa notare per l’inclusione in orchestra del timbro del pianoforte, aspetto tipicamente novecentesco che ci fa pensare al rivoluzionario Stravinskij di → Petruska e che qui assume anche un carattere funzionale alla comparsa di una coda, dopo la ripresa della sezione principale intercalata da un Trio molto ritmato, di carattere paesano.
Se non conoscessimo gli abissi di disperazione nei quali sprofonda il melos di Š. in certi momenti cruciali della sua futura produzione rimarremmo piuttosto sorpresi dalle movenze del Lento che segue, colmo di richiami dolenti che non si possono del resto attribuire a un preciso riferimento programmatico. Ancora al grottesco, ai contrasti espressivi molto marcati, sembra essere poi ispirato il Finale, saggio di brillante scrittura orchestrale e presago di altri momenti importanti della futura produzione del musicista.
Sinfonia n.15 in LA op.141
I.Allegretto; II.Adagio; III.Allegretto; IV.Adagio-Allegretto
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., arc.
L’enigmatica quindicesima e ultima sinfonia di Š., che sembra condotta tutta e solamente sul filo dell’invenzione puramente musicale e strumentale, viene eseguita per la prima volta a Mosca l’8 Gennaio 1972 sotto la direzione del figlio dell’autore, Maxim.
L’organico orchestrale non è amplissimo ma con una variegata scelta di percussioni che danno luogo a combinazioni sonore particolarmente ingegnose, se non a veri e propri passaggi di virtuosismo come nel finale del terzo movimento. Altro lato caratteristico dell’orchestrazione della quindicesima è la presenza di numerosi inserti solistici, che vanno a volte a ricreare – soprattutto nel primo movimento – effetti cameristici che richiamano addirittura le preziose simmetrie di Hindemith, elemento questo che si era già notato nel lavoro di esordio del corpus sinfonico del musicista. A complicare l’enigma vi sono le vistose citazioni di temi riconoscibilissimi presi in prestito da Rossini (il Guglielmo Tell) e Wagner (il tema dell’enigma del destino che risuona soprattutto in Walkiria). Il valore delle citazioni nella Quindicesima può essere in parte chiarito dallo stesso musicista, che parlò effettivamente di residui di un programma che sarebbe stato alla base della sinfonia : la messa in scena di un’opera basata sul Monaco nero di Čechov (1894), lo scrittore che Š. poneva sullo stesso piano del suo massimo ispiratore musicale, Musorgskij. Ma anche alla luce di questa notizia, difficile appare il collegamento tra i temi musicali già citati e i deliri del protagonista del romanzo cechoviano. Tutto questo giustifica in parte l’aspra reazione della critica americana in seguito alla prima esecuzione negli Stati Uniti della Quindicesima. il 28 settembre del ’72, da parte della Philadelphia Orchestra diretta da Eugene Ormandy. Harold Schonberg parlò esageratamente di pseudo-profondità, e definì la Sinfonia “debole, non convincente”. In Russia invece la prima esecuzione ebbe notevole risonanza e rappresentò tra l’altro una importante occasione di suggello ufficiale del ruolo del figlio di Š., che aveva preparato l’esecuzione attraverso numerose prove e discusso ovviamente con il genitore ogni dettaglio tecnico. La cronaca registò dieci minuti di applausi, chiamate alla ribalta, abbracci tra padre e figlio e strette di mano a tutti i componenti dell’orchestra di fronte a un pubblico forse più sensibile ai travagli di salute del musicista che alla decifrazione del difficile messaggio musicale contenuto nell’opera. La reazione dell’establishment musicale sovietico fu ovviamente di grande plauso a patto che, come Khrennikov, si vedesse nella Sinfonia un lavoro “pieno di ottimismo, affermazione della vita, e fiducia nell’inesauribile forza dell’uomo”. Insomma ancora una volta tutto il contrario di ciò che rivela un’analisi più puntuale.
La Sinfonia si apre con un incipit che se fosse attribuibile a Prokof’ev (il tema al flauto) non tarderemmo a definire spensierato, ma che qui tradisce una componente di caustico umorismo, resa ancora più evidenti dai preziosi accostamenti timbrici di flauto, celesta e archi, dalla risposta baldanzosa del fagotto e più in là dalla ripresa mahleriana del tema da parte del violino solista. Un ritmo di fox-trot porta all’aperta citazione del Tell, intonata dalla tromba e poi richiamata diverse volte nel corso dell’Allegretto, anche solo ritmicamente. L’atmosfera di questo movimento, secondo le dichiarazioni dell’autore, è legata al mondo dell’infanzia e in particolare vorrebbe ricordare l’interno di un negozio di giocattoli. Curiosa immagine, che ci riporta al mondo di Caikovski e dello Schiaccianoci
L’Adagio è dominato da un mesto motivo di corale intonato dagli ottoni, evocante appena la citazione del tema del destino dalla Walkiria che sarà esplicitato nel secondo Adagio conclusivo della Sinfonia. Segue un tema di dodici note enunciato dal violoncello, di grande espressività, triste, rassegnato. E’ una delle poche concessioni di Š. alla dodecafonia, esplorata più per le sue evidenti possibilità espressive che per il carattere di rivoluzione formale e comunque impiegata all’interno di un contesto strettamente tonale. L’Adagio si conclude in maniera allucinata, in una atmosfera di gelida calma e con l’intervento della celesta che intona il tema originario del violoncello, esposto in forma inversa con l’apporto del vibrafono e del contrabbasso.
Eseguito senza soluzione di continuità dopo l’Adagio, il breve Scherzo mantiene il carattere graffiante di analoghe pagine che concorrono a formare il linguaggio espressivo del musicista fin dagli esordi. Questo Allegretto inizia ancora con un tema di stampo dodecafonico esposto prima dal clarinetto poi dalla viola, al quale si contrappone una fanfara di trombe, motivo solenne presto sbeffeggiato da una risposta da parte degli strumentini e poi dei tromboni. La conclusione di questo movimento rappresenta uno di quei momenti di virtuosismo musicale cui accennavamo più sopra, eccitante gioco di equilibrismo tra nacchere, xylophono e woodblock.
Un Adagio come finale di Sinfonia rimanda sia alla Patetica di Caikowsky sia alle incompiute “none” di Mahler e di Bruckner e si è davvero portati ad interpretare in parte questa conclusione come un addio alla vita e alla forma sinfonica che tanto Š. aveva coltivato. “Ho terminato un’altra sinfonia, la mia quindicesima – ebbe a scrivere il musicista – Forse smetterò di comporre”. “Tuttavia – aggiunse - non posso vivere senza comporre”.
Il wagneriano “Tema del destino” fa qui la sua comparsa più evidente, ripetendosi all’inizio per ben tre volte e richiamando l’atmosfera della scena quarta nel second’atto di di Walkiria, quando Brunhilde comunica a Siegmund la sua prossima morte per mano di Hunding. Ma non vi è qui una catarsi finale come nella Tetralogia: regna ora un clima di tristezza e di pessimismo, reso ancora più tragico da un’ulteriore citazione wagneriana, quella della famosa idea con la quale si apre il Tristano. Né a cambiare prospettiva concorre il crescendo che porta all’autocitazione presa di peso dalla settima sinfonia. La Quindicesima termina con un accordo di due sole note (la e mi) che solamente lo xylophono contribuisce a trasformare in un accordo di LA, sorta di frammentazione che evoca gli astratti raggiungimenti di Webern.
Shostakovic - Sinfonie nn.2,12

Sinfonia n.2 in SI op.14 “all’Ottobre” per Coro e orchestra
I.Largo - Poco meno mosso
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., sirena, archi, coro
I grandi temi della storia della Russia nel ventesimo secolo si avvicendano più volte all’interno delle Sinfonie di Š. a partire proprio dalla seconda (1927) scritta nel decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Seguiranno in successione la settima (1942) che descrive l’assedio di San Pietroburgo, l’ottava (1943) legata non esplicitamente ancora ai fatti di guerra, l’undicesima (1957) che rievoca la fallita rivoluzione del 1905 e infine la dodicesima (1961) che riprende il tema di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre. E’ ancora Nikolaj Malko, che aveva presentato al pubblico di San Pietroburgo nel 1926 il primo lavoro sinfonico di Š., a tenere a battesimo la seconda , il 5 novembre dell’anno successivo in quella città dove l’autore aveva terminato i propri studi solamente l’anno prima.
Pensata originariamente come poema sinfonico (“All’Ottobre, una dedica sinfonica”) che secondo Š. doveva descrivere “il pathos della lotta e della vittoria”, la seconda sinfonia viene composta su commissione del dipartimento della Casa editrice di Stato diretta da Rozlaveč, il compositore che più di tutti si avvicinava alle avanguardie della musica occidentale, proprio per commemorare la grande svolta del 1917 in una Russia che sperimentava già da qualche anno l’egemonia staliniana. Se nelle sinfonie successive Š. sottintende sempre al messaggio ufficiale una seconda chiave di lettura molto più intima e veritiera che fa spesso uso di spunti musicali parodistici e ironici, nella lettura della seconda sinfonia questo meccanismo non funziona, perché l’aderenza dell’autore all’intento celebrativo del lavoro sembra sincero e solamente nel linguaggio musicale astratto utilizzato qui da Š. si può cogliere semmai una dichiarazione di intenti che contraddice la richiesta di un contenuto “popolare” e facilmente comprensibile dalle masse. La Sinfonia mantiene una struttura in un unico movimento che si conclude con l’intervento di un coro su un testo celebrativo del nome di Lenin scritto dal poeta Alexander Bezymenskij, coro che -- sebbene considerato da Š. di un “populismo abominevole” -- viene inteso dal musicista come un positivo omaggio agli ideali di rinnovamento che negli stessi anni iniziavano a venire oscurati dal regime. Se nel suo impianto complessivo la sinfonia si allinea con le tendenze dell’epoca che facevano capo al movimento trasversale del costruttivismo, abbracciato in musica da autori come Prokof’ev, Mosolov e Desedov, e che vedeva soprattutto nell’architettura contemporanea un’esplosione di progetti di edifici colossali e un vero e proprio inno alla “civiltà delle macchine”, anche in questo caso la personalità di Š. si impone con grande evidenza nel costruire un quadro musicale di indubbia efficacia. Domina in questo lavoro la mancanza di riferimenti tematici facilmente riconoscibili, elemento questo che venne criticato successivamente dallo stesso autore parlando di “eccessivo astrattismo” e che giustifica ampiamente la scarsa popolarità di questo lavoro nelle sale da concerto. Si coglie però nella Sinfonia tutta l’atmosfera di rinnovamento che indubbiamente caratterizzava i primi anni ’20 in una Russia appena rinata dalle ceneri delle rivoluzione e della guerra civile. La scomparsa di Lenin e la sua immediata ascesa verso un’immortalità che giustifica la richiesta di lavori su commissione come questo, la presenza carismatica di un Commissario del popolo per l’istruzione come Lunačarskij, la proliferazione delle avanguardie artistiche rappresentano elementi di riferimento essenziali per comprendere il clima nel quale nasce la seconda sinfonia.
Il nuovo lavoro di Š. si apre con un fugato (Largo) che nasce dal profondo della voce degli archi e che apparve decisamente moderno per l’ascoltatore dell’epoca, anche nel momento in cui agli archi si sovrappone il lamento atonale di una tromba e la risposta corale degli ottoni. Un colpo di timpano annuncia la drammatizzazione ulteriore del discorso che si svolge attraverso un contraddittorio strumentale di sapore hindemithiano fino a raggiungere un parossismo espressivo al quale partecipa l’intera orchestra, con l’approdo a un appello di stampo tonale più facilmente riconoscibile. Un episodio di carattere meditativo precede una nuova breve sezione in carattere di marcia in tempo puntato, cui segue una terza sezione ancora concepita come fugato esposto in maniera cameristica dal violino solista. Anche in questo caso appare evidente il debito di Š. verso le avanguardie occidentali e il già citato Hindemith. L’orchestra intera ancora una volta raccoglie l’eredità di questo incipit portando il discorso a un livello sonoro e a uno stridore armonico quasi provocatori.
Il coro finale a quattro voci che inneggia ai “vessilli della nostra causa : Ottobre! Comunismo! Lenin!” viene introdotto in maniera del tutto anticonvenzionale e “futurista” da un fischio di sirena che ci riconduce a quel richiamo al proletariato che doveva essere elemento comune a tutte le manifestazioni culturali dell’epoca. Nonostante una certa trivialità dell’insieme Š. riesce qui a condurre il discorso musicale secondo una prospettiva di linguaggio indubbiamente interessante e a suo modo “progressista”.
Sinfonia n.12 in Re op.112
“L’anno 1917”
I.Moderato (Pietrogrado rivoluzionaria); II.Allegro - Adagio (Razliv); III.Allegretto (Aurora); IV.L’istesso tempo (L’alba dell’umanità)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., arc.
Il messaggio che scaturisce dalla dodicesima sinfonia è esplicitamente diretto -- più che a celebrare una cronistoria della Rivoluzione d’Ottobre -- alla celebrazione della figura di Lenin. Il venerdì 13 aprile 1917 Lenin torna a San Pietroburgo approdando alla stazione “Finlandia” : l’undicenne Š. e lo zio Maksim assistono all’avvenimento e ascoltano il discorso rivoluzionario del leader. Secondo le parole dello stesso musicista, la carica emotiva che lo aiuta durante la composizione della dodicesima sinfonia deriva direttamente da quello storico momento : “Quali circostanze mi aiutano nell’affrontare il mio difficile compito?” – scrive Šostakovič nel 1960 – “Sono stato testimone degli eventi della rivoluzione d’Ottobre. Ero uno di quelli che hanno ascoltato il discorso di Vladimir Il’ic tenuto sulla piazza davanti alla stazione Finlandia il giorno del suo arrivo. Sebbene allora fossi molto giovane, questo evento s’impresse in modo indelebile nella mia memoria. I miei ricordi di quei giorni indimenticabili, naturalmente, mi aiutano nel lavoro alla sinfonia”. E ancora : “E’difficile parlare di una propria composizione, ma sono molto emozionato dall’argomento della nuova sinfonia e mi sembra che quest’opera diventerà un punto di riferimento molto importante nella mia carriera artistica…”.
Il primo programma che doveva essere alla base della nuova sinfonia è citato con precisione dall’autore : “Il lavoro avrà quattro movimenti. Il primo è una descrizione dell’arrivo di Lenin a Pietrogrado nell’aprile del 1917 e dei suoi incontri con i lavoratori. Il secondo illustra gli storici avvenimenti del 7 novembre. Il terzo la guerra civile e il quarto la vittoria della grande rivoluzione d’ottobre…”. Successivamente, alla descrizione della guerra civile venne sostituita una più profonda considerazione sul pensiero di Lenin.
Š. lavora alla dodicesima tra il 1960 e l’anno successivo e la prima esecuzione della sinfonia avviene a San Pietroburgo il 1 ottobre 1961 sotto la direzione di Mravinskij con un buon successo che si ripete nelle successive repliche a Mosca e che è in parte influenzato dalla inclusione del lavoro nell’ambito delle celebrazioni del ventesimo anniversario del PCUS.
Dopo la presentazione della Dodicesima al festival di Edimburgo nel 1962 la critica parlò immediatamente di propaganda sovietica e negò addirittura alla sinfonia il carattere di sperimentalismo giovanile che stava alla base della negletta Seconda. Si tratta di considerazioni tutto sommato obiettive perché l’intero apparato della Sinfonia fa più pensare a un contenuto encomiastico poco sorretto da una vera ispirazione musicale, là dove la seconda sinfonia, partendo da premesse “ufficiali”, nascondeva una grinta e una abbondanza di idee straordinarie.
La dodicesima sinfonia prevede quattro movimenti che, pur annotati con titoli e indicazioni di tempo differenti, procedono senza una vera e propria soluzione di continuità e condividono come una specie di leitmotiv un tema all’unisono presentato all’inizio.
Il primo movimento, oltre al già citato tema che aumenta via via la propria tensione interna fino a sfociare in un grande crescendo, richiama i modi delle due canzoni rivoluzionarie che erano state incluse nel finale dell’undicesima sinfonia. Il carattere generale di questa prima parte è volto comunque a dipingere il clima di attesa dell’avvenimento che sconvolge il quadro della città di San Pietroburgo (a quei tempi Pietrograd), sfruttando molto bene l’analoga descrizione operata nell’undicesima sinfonia nel contesto dell’attesa dei luttuosi avvenimenti del 1905.
Il secondo movimento è un Adagio espressivo intitolato al nome della località a nord di San Pietroburgo nella quale Lenin si era rifugiato per sottrarsi alle ricerche della polizia del Governo provvisorio di Kerenskij nell’imminenza della rivoluzione d’ottobre. Compaiono qui diversi brevi elementi tematici originali, la ripresa ciclica del “tema all’unisono”, una citazione di una precedente incompiuta “marcia funebre per le vittime della rivoluzione” e ancora un tema dell’undicesima sinfonia.
Il terzo breve movimento prende il nome di “Aurora” dal nome dell’incrociatore dal quale venne sparato il primo colpo di cannone a salve verso il Palazzo d’inverno, segnale d’inizio della rivoluzione. L’immagine della nave che emerge dalla calma della notte autunnale si staglia chiaramente nell’immaginario dell’ascoltatore grazie a una prima idea caratterizzata dai timpani e dal pizzicato degli archi, quasi una variazione del “tema all’unisono”. Il discorso si anima generando ulteriore tensione fino ad evocare lo storico colpo di cannone ma si collega rapidamente all’ultimo movimento con la citazione eroica del tema della “marcia funebre” da parte dei corni.
Questo finale è tanto estroverso quanto ricolmo di effetti esteriori che meritarono le già citate critiche da parte dei commentatori occidentali. Il movimento, della durata di una decina di minuti, è assai povero di idee originali e si limita in un certo senso a riassumere quelle presentate nelle tre parti che lo precedono. E’stato ulteriormente notato come anche in questo caso Š si confermi autore di “finali” dove spesso prevale la retorica, che qui non sembra sorretta né da una valida ispirazione musicale né da alcun riferimento a certi graffianti sottintesi che si celano nelle opere davvero rivoluzionare del musicista.
I.Largo - Poco meno mosso
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., sirena, archi, coro
I grandi temi della storia della Russia nel ventesimo secolo si avvicendano più volte all’interno delle Sinfonie di Š. a partire proprio dalla seconda (1927) scritta nel decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Seguiranno in successione la settima (1942) che descrive l’assedio di San Pietroburgo, l’ottava (1943) legata non esplicitamente ancora ai fatti di guerra, l’undicesima (1957) che rievoca la fallita rivoluzione del 1905 e infine la dodicesima (1961) che riprende il tema di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre. E’ ancora Nikolaj Malko, che aveva presentato al pubblico di San Pietroburgo nel 1926 il primo lavoro sinfonico di Š., a tenere a battesimo la seconda , il 5 novembre dell’anno successivo in quella città dove l’autore aveva terminato i propri studi solamente l’anno prima.
Pensata originariamente come poema sinfonico (“All’Ottobre, una dedica sinfonica”) che secondo Š. doveva descrivere “il pathos della lotta e della vittoria”, la seconda sinfonia viene composta su commissione del dipartimento della Casa editrice di Stato diretta da Rozlaveč, il compositore che più di tutti si avvicinava alle avanguardie della musica occidentale, proprio per commemorare la grande svolta del 1917 in una Russia che sperimentava già da qualche anno l’egemonia staliniana. Se nelle sinfonie successive Š. sottintende sempre al messaggio ufficiale una seconda chiave di lettura molto più intima e veritiera che fa spesso uso di spunti musicali parodistici e ironici, nella lettura della seconda sinfonia questo meccanismo non funziona, perché l’aderenza dell’autore all’intento celebrativo del lavoro sembra sincero e solamente nel linguaggio musicale astratto utilizzato qui da Š. si può cogliere semmai una dichiarazione di intenti che contraddice la richiesta di un contenuto “popolare” e facilmente comprensibile dalle masse. La Sinfonia mantiene una struttura in un unico movimento che si conclude con l’intervento di un coro su un testo celebrativo del nome di Lenin scritto dal poeta Alexander Bezymenskij, coro che -- sebbene considerato da Š. di un “populismo abominevole” -- viene inteso dal musicista come un positivo omaggio agli ideali di rinnovamento che negli stessi anni iniziavano a venire oscurati dal regime. Se nel suo impianto complessivo la sinfonia si allinea con le tendenze dell’epoca che facevano capo al movimento trasversale del costruttivismo, abbracciato in musica da autori come Prokof’ev, Mosolov e Desedov, e che vedeva soprattutto nell’architettura contemporanea un’esplosione di progetti di edifici colossali e un vero e proprio inno alla “civiltà delle macchine”, anche in questo caso la personalità di Š. si impone con grande evidenza nel costruire un quadro musicale di indubbia efficacia. Domina in questo lavoro la mancanza di riferimenti tematici facilmente riconoscibili, elemento questo che venne criticato successivamente dallo stesso autore parlando di “eccessivo astrattismo” e che giustifica ampiamente la scarsa popolarità di questo lavoro nelle sale da concerto. Si coglie però nella Sinfonia tutta l’atmosfera di rinnovamento che indubbiamente caratterizzava i primi anni ’20 in una Russia appena rinata dalle ceneri delle rivoluzione e della guerra civile. La scomparsa di Lenin e la sua immediata ascesa verso un’immortalità che giustifica la richiesta di lavori su commissione come questo, la presenza carismatica di un Commissario del popolo per l’istruzione come Lunačarskij, la proliferazione delle avanguardie artistiche rappresentano elementi di riferimento essenziali per comprendere il clima nel quale nasce la seconda sinfonia.
Il nuovo lavoro di Š. si apre con un fugato (Largo) che nasce dal profondo della voce degli archi e che apparve decisamente moderno per l’ascoltatore dell’epoca, anche nel momento in cui agli archi si sovrappone il lamento atonale di una tromba e la risposta corale degli ottoni. Un colpo di timpano annuncia la drammatizzazione ulteriore del discorso che si svolge attraverso un contraddittorio strumentale di sapore hindemithiano fino a raggiungere un parossismo espressivo al quale partecipa l’intera orchestra, con l’approdo a un appello di stampo tonale più facilmente riconoscibile. Un episodio di carattere meditativo precede una nuova breve sezione in carattere di marcia in tempo puntato, cui segue una terza sezione ancora concepita come fugato esposto in maniera cameristica dal violino solista. Anche in questo caso appare evidente il debito di Š. verso le avanguardie occidentali e il già citato Hindemith. L’orchestra intera ancora una volta raccoglie l’eredità di questo incipit portando il discorso a un livello sonoro e a uno stridore armonico quasi provocatori.
Il coro finale a quattro voci che inneggia ai “vessilli della nostra causa : Ottobre! Comunismo! Lenin!” viene introdotto in maniera del tutto anticonvenzionale e “futurista” da un fischio di sirena che ci riconduce a quel richiamo al proletariato che doveva essere elemento comune a tutte le manifestazioni culturali dell’epoca. Nonostante una certa trivialità dell’insieme Š. riesce qui a condurre il discorso musicale secondo una prospettiva di linguaggio indubbiamente interessante e a suo modo “progressista”.
Sinfonia n.12 in Re op.112
“L’anno 1917”
I.Moderato (Pietrogrado rivoluzionaria); II.Allegro - Adagio (Razliv); III.Allegretto (Aurora); IV.L’istesso tempo (L’alba dell’umanità)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., arc.
Il messaggio che scaturisce dalla dodicesima sinfonia è esplicitamente diretto -- più che a celebrare una cronistoria della Rivoluzione d’Ottobre -- alla celebrazione della figura di Lenin. Il venerdì 13 aprile 1917 Lenin torna a San Pietroburgo approdando alla stazione “Finlandia” : l’undicenne Š. e lo zio Maksim assistono all’avvenimento e ascoltano il discorso rivoluzionario del leader. Secondo le parole dello stesso musicista, la carica emotiva che lo aiuta durante la composizione della dodicesima sinfonia deriva direttamente da quello storico momento : “Quali circostanze mi aiutano nell’affrontare il mio difficile compito?” – scrive Šostakovič nel 1960 – “Sono stato testimone degli eventi della rivoluzione d’Ottobre. Ero uno di quelli che hanno ascoltato il discorso di Vladimir Il’ic tenuto sulla piazza davanti alla stazione Finlandia il giorno del suo arrivo. Sebbene allora fossi molto giovane, questo evento s’impresse in modo indelebile nella mia memoria. I miei ricordi di quei giorni indimenticabili, naturalmente, mi aiutano nel lavoro alla sinfonia”. E ancora : “E’difficile parlare di una propria composizione, ma sono molto emozionato dall’argomento della nuova sinfonia e mi sembra che quest’opera diventerà un punto di riferimento molto importante nella mia carriera artistica…”.
Il primo programma che doveva essere alla base della nuova sinfonia è citato con precisione dall’autore : “Il lavoro avrà quattro movimenti. Il primo è una descrizione dell’arrivo di Lenin a Pietrogrado nell’aprile del 1917 e dei suoi incontri con i lavoratori. Il secondo illustra gli storici avvenimenti del 7 novembre. Il terzo la guerra civile e il quarto la vittoria della grande rivoluzione d’ottobre…”. Successivamente, alla descrizione della guerra civile venne sostituita una più profonda considerazione sul pensiero di Lenin.
Š. lavora alla dodicesima tra il 1960 e l’anno successivo e la prima esecuzione della sinfonia avviene a San Pietroburgo il 1 ottobre 1961 sotto la direzione di Mravinskij con un buon successo che si ripete nelle successive repliche a Mosca e che è in parte influenzato dalla inclusione del lavoro nell’ambito delle celebrazioni del ventesimo anniversario del PCUS.
Dopo la presentazione della Dodicesima al festival di Edimburgo nel 1962 la critica parlò immediatamente di propaganda sovietica e negò addirittura alla sinfonia il carattere di sperimentalismo giovanile che stava alla base della negletta Seconda. Si tratta di considerazioni tutto sommato obiettive perché l’intero apparato della Sinfonia fa più pensare a un contenuto encomiastico poco sorretto da una vera ispirazione musicale, là dove la seconda sinfonia, partendo da premesse “ufficiali”, nascondeva una grinta e una abbondanza di idee straordinarie.
La dodicesima sinfonia prevede quattro movimenti che, pur annotati con titoli e indicazioni di tempo differenti, procedono senza una vera e propria soluzione di continuità e condividono come una specie di leitmotiv un tema all’unisono presentato all’inizio.
Il primo movimento, oltre al già citato tema che aumenta via via la propria tensione interna fino a sfociare in un grande crescendo, richiama i modi delle due canzoni rivoluzionarie che erano state incluse nel finale dell’undicesima sinfonia. Il carattere generale di questa prima parte è volto comunque a dipingere il clima di attesa dell’avvenimento che sconvolge il quadro della città di San Pietroburgo (a quei tempi Pietrograd), sfruttando molto bene l’analoga descrizione operata nell’undicesima sinfonia nel contesto dell’attesa dei luttuosi avvenimenti del 1905.
Il secondo movimento è un Adagio espressivo intitolato al nome della località a nord di San Pietroburgo nella quale Lenin si era rifugiato per sottrarsi alle ricerche della polizia del Governo provvisorio di Kerenskij nell’imminenza della rivoluzione d’ottobre. Compaiono qui diversi brevi elementi tematici originali, la ripresa ciclica del “tema all’unisono”, una citazione di una precedente incompiuta “marcia funebre per le vittime della rivoluzione” e ancora un tema dell’undicesima sinfonia.
Il terzo breve movimento prende il nome di “Aurora” dal nome dell’incrociatore dal quale venne sparato il primo colpo di cannone a salve verso il Palazzo d’inverno, segnale d’inizio della rivoluzione. L’immagine della nave che emerge dalla calma della notte autunnale si staglia chiaramente nell’immaginario dell’ascoltatore grazie a una prima idea caratterizzata dai timpani e dal pizzicato degli archi, quasi una variazione del “tema all’unisono”. Il discorso si anima generando ulteriore tensione fino ad evocare lo storico colpo di cannone ma si collega rapidamente all’ultimo movimento con la citazione eroica del tema della “marcia funebre” da parte dei corni.
Questo finale è tanto estroverso quanto ricolmo di effetti esteriori che meritarono le già citate critiche da parte dei commentatori occidentali. Il movimento, della durata di una decina di minuti, è assai povero di idee originali e si limita in un certo senso a riassumere quelle presentate nelle tre parti che lo precedono. E’stato ulteriormente notato come anche in questo caso Š si confermi autore di “finali” dove spesso prevale la retorica, che qui non sembra sorretta né da una valida ispirazione musicale né da alcun riferimento a certi graffianti sottintesi che si celano nelle opere davvero rivoluzionare del musicista.
Shostakovic - Sinfonie nn.3,14

Sinfonia n.3 in MI B.. op.20 “Il primo Maggio” per coro e orchestra
I.Allegretto - Allegro - Andante - Allegro – Allegro molto – Largo
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., archi, coro
Il completamento della terza Sinfonia durante l’estate del 1929 coincide con il termine degli studi di Š. presso il Conservatorio di San Pietroburgo. Il fatto che la Terza venga considerata una delle più mahleriane tra le sinfonie di Š. non aiuta molto a comprendere un testo relativamente complesso ma che in sostanza si può spiegare sufficientemente attraverso due considerazioni : la parentela con lo sperimentalismo della sinfonia precedente (ivi compresa la scelta di un blocco temporale unico anche se interiormente suddiviso) e ancora il ricorso a un motivo, questa volta non drammatico ma festoso, di connotazione politica e popolare.
Šebalin riporta a proposito del lato formale della terza sinfonia un curioso commento di Š. secondo il quale “sarebbe stato interessante scrivere una sinfonia nella quale nessun tema venisse mai ripetuto”. E in effetti qui come forse in nessun altro caso l’autore abbandona il lavoro di sviluppo per giocare più sui contrasti, sugli effetti strumentali. Del resto lo stesso carattere della parte finale sembra essere, almeno nelle premesse, smentito dal fatto che la prima versione della sinfonia, nella impalcatura per pianoforte, portava come sottotitolo un riferimento non alla festa dei lavoratori bensì a una più vaga “Sinfonia di Maggio”. Sappiamo inoltre che la strumentazione della prima parte della Sinfonia era pronta prima ancora che venisse reso disponibile il testo per il coro finale, testo che avrebbe dovuto essere opera di Demian Bednij e che venne invece approntato da Semyon Kirsanov. Nello stesso momento in cui Š. negava di fatto l’unitarietà di ispirazione della Sinfonia, dichiarava d’altro canto pubblicamente che il finale veniva vissuto nello stesso spirito gioioso e “costruttivo” dell’epilogo della nona di Beethoven.
Nella terza, sarebbe superficiale parlare solamente di una piuttosto lunga introduzione orchestrale, dal carattere variato, che sfocia in un coro trionfale che inneggia alla festa rivoluzionaria.
La prima parte del lavoro è in effetti di descrizione complessa proprio per la presenza di numerosi temi poco sviluppati. L’apertura (Allegretto – Più mosso - Allegro) della quale è stato sottolineato il carattere bucolico è affidata a un lungo assolo del clarinetto che nella sua semplicità melodica potrebbe far pensare persino a Prokof’ev. Dopo un sommesso commento degli archi si aggiunge un secondo clarinetto che contrappunta la melodia principale e subito dopo viene enunciato un motivo allegro di marcia cui si sovrappongono le linee bizzarre dell’ottavino e le fanfare dei corni. Il discorso si drammatizza sugli accordi ripetuti degli archi e con un lungo trattamento virtuosistico delle sezioni di fiati e degli archi che evocano marce bandistiche. Un nuovo tema agli archi all’unisono viene successivamente commentato ancora dai fiati e da un’orchestra dalla timbrica sempre più variegata. Il discorso prosegue secondo un’inventiva sempre cangiante e con la contrapposizione di sezioni differenti dell’orchestra ma senza una vera e propria costruzione formale che possa orientare con sicurezza l’ascoltatore. Un vivace episodio nel quale le trombe si rincorrono in un gioco sonoro irresistibile si placa improvvisamente e lascia il posto senza soluzione di continuità a un meditativo movimento lento (Andante) che vede all’inizio contrapposte le sonorità gravi degli archi e quelle minacciose degli ottoni. Attraverso frasi melodiche spianate il discorso sembra rasserenarsi definitivamente quando ancora il tempo si anima (Allegro – Allegro molto) lasciando il posto (quasi uno “Scherzo”) a un esempio di prodigioso virtuosismo nel trattamento di tutte le risorse dell’orchestra con ampio spazio dato ancora alle perorazioni degli ottoni. Di seguito, un Andante - Largo con ampie entrate degli ottoni -- quasi un corale -- e un ripetuto movimento ondeggiante, quasi glissando, dei violoncelli e poi dei violini introducono il Finale, un trionfale inno affidato al coro e caratterizzato da una scelta omofonica che forma un contrasto stridente con la segmentazione accentuata di temi e ritmi del materiale precedente. L’enfasi del testo, che termina con una assertiva dichiarazione (“solenne ondeggia per la città una schiera di milioni di persone”) è tradotta attraverso un supporto melodico non banale che tradisce semmai solo nell’ultima parte una certa dose di retorica .
La prima esecuzione della terza sinfonia avvenne il 21 Gennaio 1930 alla Casa della Cultura di San Pietroburgo con la Filarmonica diretta da Aleksandr Gauk.
Sinfonia n.14 op.135 per soprano, basso, orchestra d’archi e percussioni
Su testi di Federico Garcia Lorca, Guillaume Apollinaire, Wilhelm Küchelbecker, Rainer Maria Rilke
I.De Profundis; II.Malagueña; III.Loreley; IV.Il suicidio; V.Le attente; VI.Le attente n.2; VII.Nella prigione della Santé; VIII.La risposta dei cosacchi di Zaporož al Sultano di Costantinopoli; IX.Oh, Delvig, Oh Delvig !; X.La morte del poeta; XI.Conclusione
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., arc.
Lo Š. della quattordicesima e penultima sinfonia è quello che in una lettera scritta all’amico di una vita Isaac Glikman il 24 settembre 1968, alla vigilia del proprio sessantaduesimo compleanno, dichiara che, al contrario di quanto farebbe la maggior parte delle persone, non vorrebbe assolutamente ripetere la propria esistenza nella stessa maniera in cui si è dipanata nel corso degli anni. Quanto sia ponderoso il tributo da lui versato nei confronti della facciata ufficiale del regime fin dai tempi dei primi lavori encomiastici che gli venivano richiesti, quanto sia amaro il calice delle false autocritiche diventa sempre più evidente ascoltando i lavori che appartengono a quest’ultima stagione creativa, oltretutto resa penosa da continui aggravamenti dello stato generale di salute. Fin dal 1958 Š. aveva infatti sofferto dei terribili sintomi di quella che tardivamente venne diagnosticata come una rara forma di poliomielite e nel 1966 un infarto aggravò ancora di più il suo fisico già provato. Proprio durante un ricovero ospedaliero nel gennaio del 1969 a causa di un’epidemia di influenza Š. comunica a Glikman di passare il tempo componendo quello che chiama un Oratorio su testi di Garcia Lorca, Apollinaire, Rilke e Küchelbecker, per soprano, basso e orchestra da camera e di essere in contatto con Rudolf Baršaj per studiare in via del tutto ipotetica le possibili variazioni che si possono apportare allo strumentale di una formazione cameristica per ottenere determinati effetti. Gli undici testi scelti da Š. grazie anche alla collaborazione della moglie Irina vennero tradotti per l’occasione in russo (tranne ovviamente quello del compatriota Küchelbeker)
Il 16 febbraio 1969 Š. completa la versione pianistica dello spartito e il 2 maggio termina l’orchestrazione della nuova Sinfonia che è formata da ben undici movimenti e che lo stesso musicista confessa di avere scritto con grande rapidità nel timore ossessivo che le proprie condizioni di salute peggiorassero. Scrive Š. : “Non mi sono mai occupato del tema della morte. Poco prima di entrare in ospedale ho ascoltato i Canti e danze della morte di Musorgskij e la mia idea di come trattare questo tema si è finalmente concretizzata”. In realtà il riferimento a Musorgskij, uno dei musicisti più cari a Š., e al suo famoso ciclo è databile con precisione all’estate del 1962, quando il compositore aveva approntato di quel lavoro una versione orchestrale a partire dall’originale accompagnamento pianistico. A un altro musicista da Š. particolarmente ammirato, Benjamin Britten, viene dedicata la partitura. La prima esecuzione pubblica del lavoro avvenne il 29 Settembre 1969, nella Sala Glinka di San Pietroburgo, con la partecipazione del soprano Galina Višnevskaja, del basso Mark Rešetin e ovviamente dell’Orchestra da Camera di Mosca diretta da Rudolf Baršaj. Non si trattò di una scelta facile, soprattutto per quel che riguarda il luogo che doveva ospitare l’evento, perché inspiegabilmente Mosca e San Pietroburgo rifiutarono di mettere a disposizione le proprie sale nelle quali si esibivano le rispettive Filarmoniche. Sempre l’urgenza e il timore di non vedere eseguita la propria opera indussero Š. a programmare una prima esecuzione privata a Mosca, nella sala piccola del Conservatorio, il 21 giugno. Il soprano Margarita Mirošnikova sostituì in quella occasione la Višnevskaja che non aveva avuto il tempo di studiare la parte, ma che assistette al concerto. In sala, lo stesso musicista sentì la necessità di spiegare al pubblico il proprio approccio al tema così delicato e profondo della morte, da un lato citando la suprema e serena bellezza di tanti momenti del repertorio musicale classico, dalle ultime scene di Otello e Aida, alla morte di Boris Godunov, al carattere del War Requiem di Britten, dall’altro confessando di sentire la morte anche come una sorta di ingiustizia. “La morte attende ciascuno di noi” dice Š. “ma non vedo nulla di buono nel termine della nostra vita e questo è quello che sto cercando di illustrare nella Sinfonia. La presentazione in Occidente ha luogo il 14 giugno del 1970 al Festival di Aldeburgh con la English Chamber Orchestra diretta dal dedicatario Benjamin Britten.
Solisti vocali a parte, l’organico dell’orchestra da camera (19 archi tra i quali due contrabbassi) è nella quattordicesima arricchito da un nutrito gruppo di strumenti a percussione dal timbro estremamente caratteristico, dalle nacchere alla frusta, il wood-block, i tom-tom, le campane, lo xilofono, il vibrafono, la celesta.
Questa è in breve la descrizione dei movimenti che compongono la Sinfonia:
Il “De Profundis” di Lorca è un Adagio caratterizzato da un melodia lunga dei violini sulle prime note del Dies Irae, trattata poi serialmente, con l’intervento della voce del basso.
La “Malagueña”, immagine di una ballerina che entra ed esce dalla taverna, è al contrario un Allegretto nel quale la danza spagnola è tramutata in danza di morte accompagnata da archi stridenti con una parte finale in cui si ode il suono macabro delle nacchere.
“Loreley” di Apollinaire (Allegro molto) diventa l’epicentro del lavoro, per la sua durata e la sua importanza dovuta al colloquio convulso tra le due voci soliste, una vera e propria scena drammatica. Particolarmente notevole dal punto di vista strumentale è la descrizione del momento in cui la protagonista si getta nelle acque del Reno, un glissando ascendente degli archi che si spegne sul suono della campana. Una successiva sezione in Adagio espone una commovente melodia del soprano commentata dalla voce magica della celesta e dagli archi mentre il suono delle campane, degli accordi di vibrafono e un assolo del violoncello portano senza soluzione di continuità al testo seguente (“Il suicidio” – Adagio), dove violoncello e soprano intonano una nuova melodia di disperante desolazione che illustra la figura del cadavere di una donna morta, con tre fiori di giglio che spuntano dal terreno in corrispondenza del cuore, della bocca e del punto in cui compare la ferita dell’arma utilizzata per il suicidio.
“Les attentives I” (Allegretto) espone un tema dodecafonico (ma l’”imprinting” è quello tipico di Š.) da parte dello xilofono, commentato dai tom-tom in una sorta di danza macabra; il testo parla di una donna che promette al soldato che va incontro alla morte le delizie di un amore proibito.
“Les attentives II” (Adagio) si apre con una frase del basso cui segue un più importante intervento del soprano commentato dallo xilofono, macabro commento di una donna al proprio cuore perduto nelle trincee.
“A la Santé” (Adagio) è un ampio monologo del basso preceduto da quattro misure degli archi al registro grave e inframmezzato da una pagina strumentale in puro stile dodecafonico caratterizzata dal pizzicato degli archi. Il titolo si riferisce alla famosa prigione nella quale Apollinaire venne rinchiuso sotto l’accusa di plagio, con un evidente parallelo tra la situazione del carcerato e quella del morto, ambedue rinchiusi in un luogo che li separa dalla vita.
La “Réponse des Cosaques Zaporogues au Sultan de Constantinople” (Allegro) descrive un celebre quadro di Repin che illustra i cosacchi che attorno a un tavolo scrivono una lettera di ingiurie al Sultano turco. Spunto per un commento musicale aspro e aggressivo e forse per una mai scritta lettera di insulti a Stalin da parte del musicista.
“O, Del'vig, Del'vig!” (Andante) è la commemorazione del giovane poeta Anton Delvig, amico di Puškin e Küchelbeker morto a soli 33 anni e al quale viene dedicato un melodiare semplice del basso sopra l’accompagnamento degli archi.
“Der Tod des Dichters” (Largo) è una pagina desolata che riprende il tema del Dies Irae da parte dei violini, cui si sovrappone la voce del soprano.
“Schlußtück” è davvero una conclusione, seppure molto breve, dominata dal suono degli archi in pizzicato o “col legno” e dalle nacchere, con le due voci soliste all’unisono che inneggiano alla grandezza della morte. La Sinfonia si chiude (o meglio si interrompe bruscamente) con una frase “in levare” che accentua il significato di annullamento totale che proviene dalla morte.
I.Allegretto - Allegro - Andante - Allegro – Allegro molto – Largo
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., archi, coro
Il completamento della terza Sinfonia durante l’estate del 1929 coincide con il termine degli studi di Š. presso il Conservatorio di San Pietroburgo. Il fatto che la Terza venga considerata una delle più mahleriane tra le sinfonie di Š. non aiuta molto a comprendere un testo relativamente complesso ma che in sostanza si può spiegare sufficientemente attraverso due considerazioni : la parentela con lo sperimentalismo della sinfonia precedente (ivi compresa la scelta di un blocco temporale unico anche se interiormente suddiviso) e ancora il ricorso a un motivo, questa volta non drammatico ma festoso, di connotazione politica e popolare.
Šebalin riporta a proposito del lato formale della terza sinfonia un curioso commento di Š. secondo il quale “sarebbe stato interessante scrivere una sinfonia nella quale nessun tema venisse mai ripetuto”. E in effetti qui come forse in nessun altro caso l’autore abbandona il lavoro di sviluppo per giocare più sui contrasti, sugli effetti strumentali. Del resto lo stesso carattere della parte finale sembra essere, almeno nelle premesse, smentito dal fatto che la prima versione della sinfonia, nella impalcatura per pianoforte, portava come sottotitolo un riferimento non alla festa dei lavoratori bensì a una più vaga “Sinfonia di Maggio”. Sappiamo inoltre che la strumentazione della prima parte della Sinfonia era pronta prima ancora che venisse reso disponibile il testo per il coro finale, testo che avrebbe dovuto essere opera di Demian Bednij e che venne invece approntato da Semyon Kirsanov. Nello stesso momento in cui Š. negava di fatto l’unitarietà di ispirazione della Sinfonia, dichiarava d’altro canto pubblicamente che il finale veniva vissuto nello stesso spirito gioioso e “costruttivo” dell’epilogo della nona di Beethoven.
Nella terza, sarebbe superficiale parlare solamente di una piuttosto lunga introduzione orchestrale, dal carattere variato, che sfocia in un coro trionfale che inneggia alla festa rivoluzionaria.
La prima parte del lavoro è in effetti di descrizione complessa proprio per la presenza di numerosi temi poco sviluppati. L’apertura (Allegretto – Più mosso - Allegro) della quale è stato sottolineato il carattere bucolico è affidata a un lungo assolo del clarinetto che nella sua semplicità melodica potrebbe far pensare persino a Prokof’ev. Dopo un sommesso commento degli archi si aggiunge un secondo clarinetto che contrappunta la melodia principale e subito dopo viene enunciato un motivo allegro di marcia cui si sovrappongono le linee bizzarre dell’ottavino e le fanfare dei corni. Il discorso si drammatizza sugli accordi ripetuti degli archi e con un lungo trattamento virtuosistico delle sezioni di fiati e degli archi che evocano marce bandistiche. Un nuovo tema agli archi all’unisono viene successivamente commentato ancora dai fiati e da un’orchestra dalla timbrica sempre più variegata. Il discorso prosegue secondo un’inventiva sempre cangiante e con la contrapposizione di sezioni differenti dell’orchestra ma senza una vera e propria costruzione formale che possa orientare con sicurezza l’ascoltatore. Un vivace episodio nel quale le trombe si rincorrono in un gioco sonoro irresistibile si placa improvvisamente e lascia il posto senza soluzione di continuità a un meditativo movimento lento (Andante) che vede all’inizio contrapposte le sonorità gravi degli archi e quelle minacciose degli ottoni. Attraverso frasi melodiche spianate il discorso sembra rasserenarsi definitivamente quando ancora il tempo si anima (Allegro – Allegro molto) lasciando il posto (quasi uno “Scherzo”) a un esempio di prodigioso virtuosismo nel trattamento di tutte le risorse dell’orchestra con ampio spazio dato ancora alle perorazioni degli ottoni. Di seguito, un Andante - Largo con ampie entrate degli ottoni -- quasi un corale -- e un ripetuto movimento ondeggiante, quasi glissando, dei violoncelli e poi dei violini introducono il Finale, un trionfale inno affidato al coro e caratterizzato da una scelta omofonica che forma un contrasto stridente con la segmentazione accentuata di temi e ritmi del materiale precedente. L’enfasi del testo, che termina con una assertiva dichiarazione (“solenne ondeggia per la città una schiera di milioni di persone”) è tradotta attraverso un supporto melodico non banale che tradisce semmai solo nell’ultima parte una certa dose di retorica .
La prima esecuzione della terza sinfonia avvenne il 21 Gennaio 1930 alla Casa della Cultura di San Pietroburgo con la Filarmonica diretta da Aleksandr Gauk.
Sinfonia n.14 op.135 per soprano, basso, orchestra d’archi e percussioni
Su testi di Federico Garcia Lorca, Guillaume Apollinaire, Wilhelm Küchelbecker, Rainer Maria Rilke
I.De Profundis; II.Malagueña; III.Loreley; IV.Il suicidio; V.Le attente; VI.Le attente n.2; VII.Nella prigione della Santé; VIII.La risposta dei cosacchi di Zaporož al Sultano di Costantinopoli; IX.Oh, Delvig, Oh Delvig !; X.La morte del poeta; XI.Conclusione
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., arc.
Lo Š. della quattordicesima e penultima sinfonia è quello che in una lettera scritta all’amico di una vita Isaac Glikman il 24 settembre 1968, alla vigilia del proprio sessantaduesimo compleanno, dichiara che, al contrario di quanto farebbe la maggior parte delle persone, non vorrebbe assolutamente ripetere la propria esistenza nella stessa maniera in cui si è dipanata nel corso degli anni. Quanto sia ponderoso il tributo da lui versato nei confronti della facciata ufficiale del regime fin dai tempi dei primi lavori encomiastici che gli venivano richiesti, quanto sia amaro il calice delle false autocritiche diventa sempre più evidente ascoltando i lavori che appartengono a quest’ultima stagione creativa, oltretutto resa penosa da continui aggravamenti dello stato generale di salute. Fin dal 1958 Š. aveva infatti sofferto dei terribili sintomi di quella che tardivamente venne diagnosticata come una rara forma di poliomielite e nel 1966 un infarto aggravò ancora di più il suo fisico già provato. Proprio durante un ricovero ospedaliero nel gennaio del 1969 a causa di un’epidemia di influenza Š. comunica a Glikman di passare il tempo componendo quello che chiama un Oratorio su testi di Garcia Lorca, Apollinaire, Rilke e Küchelbecker, per soprano, basso e orchestra da camera e di essere in contatto con Rudolf Baršaj per studiare in via del tutto ipotetica le possibili variazioni che si possono apportare allo strumentale di una formazione cameristica per ottenere determinati effetti. Gli undici testi scelti da Š. grazie anche alla collaborazione della moglie Irina vennero tradotti per l’occasione in russo (tranne ovviamente quello del compatriota Küchelbeker)
Il 16 febbraio 1969 Š. completa la versione pianistica dello spartito e il 2 maggio termina l’orchestrazione della nuova Sinfonia che è formata da ben undici movimenti e che lo stesso musicista confessa di avere scritto con grande rapidità nel timore ossessivo che le proprie condizioni di salute peggiorassero. Scrive Š. : “Non mi sono mai occupato del tema della morte. Poco prima di entrare in ospedale ho ascoltato i Canti e danze della morte di Musorgskij e la mia idea di come trattare questo tema si è finalmente concretizzata”. In realtà il riferimento a Musorgskij, uno dei musicisti più cari a Š., e al suo famoso ciclo è databile con precisione all’estate del 1962, quando il compositore aveva approntato di quel lavoro una versione orchestrale a partire dall’originale accompagnamento pianistico. A un altro musicista da Š. particolarmente ammirato, Benjamin Britten, viene dedicata la partitura. La prima esecuzione pubblica del lavoro avvenne il 29 Settembre 1969, nella Sala Glinka di San Pietroburgo, con la partecipazione del soprano Galina Višnevskaja, del basso Mark Rešetin e ovviamente dell’Orchestra da Camera di Mosca diretta da Rudolf Baršaj. Non si trattò di una scelta facile, soprattutto per quel che riguarda il luogo che doveva ospitare l’evento, perché inspiegabilmente Mosca e San Pietroburgo rifiutarono di mettere a disposizione le proprie sale nelle quali si esibivano le rispettive Filarmoniche. Sempre l’urgenza e il timore di non vedere eseguita la propria opera indussero Š. a programmare una prima esecuzione privata a Mosca, nella sala piccola del Conservatorio, il 21 giugno. Il soprano Margarita Mirošnikova sostituì in quella occasione la Višnevskaja che non aveva avuto il tempo di studiare la parte, ma che assistette al concerto. In sala, lo stesso musicista sentì la necessità di spiegare al pubblico il proprio approccio al tema così delicato e profondo della morte, da un lato citando la suprema e serena bellezza di tanti momenti del repertorio musicale classico, dalle ultime scene di Otello e Aida, alla morte di Boris Godunov, al carattere del War Requiem di Britten, dall’altro confessando di sentire la morte anche come una sorta di ingiustizia. “La morte attende ciascuno di noi” dice Š. “ma non vedo nulla di buono nel termine della nostra vita e questo è quello che sto cercando di illustrare nella Sinfonia. La presentazione in Occidente ha luogo il 14 giugno del 1970 al Festival di Aldeburgh con la English Chamber Orchestra diretta dal dedicatario Benjamin Britten.
Solisti vocali a parte, l’organico dell’orchestra da camera (19 archi tra i quali due contrabbassi) è nella quattordicesima arricchito da un nutrito gruppo di strumenti a percussione dal timbro estremamente caratteristico, dalle nacchere alla frusta, il wood-block, i tom-tom, le campane, lo xilofono, il vibrafono, la celesta.
Questa è in breve la descrizione dei movimenti che compongono la Sinfonia:
Il “De Profundis” di Lorca è un Adagio caratterizzato da un melodia lunga dei violini sulle prime note del Dies Irae, trattata poi serialmente, con l’intervento della voce del basso.
La “Malagueña”, immagine di una ballerina che entra ed esce dalla taverna, è al contrario un Allegretto nel quale la danza spagnola è tramutata in danza di morte accompagnata da archi stridenti con una parte finale in cui si ode il suono macabro delle nacchere.
“Loreley” di Apollinaire (Allegro molto) diventa l’epicentro del lavoro, per la sua durata e la sua importanza dovuta al colloquio convulso tra le due voci soliste, una vera e propria scena drammatica. Particolarmente notevole dal punto di vista strumentale è la descrizione del momento in cui la protagonista si getta nelle acque del Reno, un glissando ascendente degli archi che si spegne sul suono della campana. Una successiva sezione in Adagio espone una commovente melodia del soprano commentata dalla voce magica della celesta e dagli archi mentre il suono delle campane, degli accordi di vibrafono e un assolo del violoncello portano senza soluzione di continuità al testo seguente (“Il suicidio” – Adagio), dove violoncello e soprano intonano una nuova melodia di disperante desolazione che illustra la figura del cadavere di una donna morta, con tre fiori di giglio che spuntano dal terreno in corrispondenza del cuore, della bocca e del punto in cui compare la ferita dell’arma utilizzata per il suicidio.
“Les attentives I” (Allegretto) espone un tema dodecafonico (ma l’”imprinting” è quello tipico di Š.) da parte dello xilofono, commentato dai tom-tom in una sorta di danza macabra; il testo parla di una donna che promette al soldato che va incontro alla morte le delizie di un amore proibito.
“Les attentives II” (Adagio) si apre con una frase del basso cui segue un più importante intervento del soprano commentato dallo xilofono, macabro commento di una donna al proprio cuore perduto nelle trincee.
“A la Santé” (Adagio) è un ampio monologo del basso preceduto da quattro misure degli archi al registro grave e inframmezzato da una pagina strumentale in puro stile dodecafonico caratterizzata dal pizzicato degli archi. Il titolo si riferisce alla famosa prigione nella quale Apollinaire venne rinchiuso sotto l’accusa di plagio, con un evidente parallelo tra la situazione del carcerato e quella del morto, ambedue rinchiusi in un luogo che li separa dalla vita.
La “Réponse des Cosaques Zaporogues au Sultan de Constantinople” (Allegro) descrive un celebre quadro di Repin che illustra i cosacchi che attorno a un tavolo scrivono una lettera di ingiurie al Sultano turco. Spunto per un commento musicale aspro e aggressivo e forse per una mai scritta lettera di insulti a Stalin da parte del musicista.
“O, Del'vig, Del'vig!” (Andante) è la commemorazione del giovane poeta Anton Delvig, amico di Puškin e Küchelbeker morto a soli 33 anni e al quale viene dedicato un melodiare semplice del basso sopra l’accompagnamento degli archi.
“Der Tod des Dichters” (Largo) è una pagina desolata che riprende il tema del Dies Irae da parte dei violini, cui si sovrappone la voce del soprano.
“Schlußtück” è davvero una conclusione, seppure molto breve, dominata dal suono degli archi in pizzicato o “col legno” e dalle nacchere, con le due voci soliste all’unisono che inneggiano alla grandezza della morte. La Sinfonia si chiude (o meglio si interrompe bruscamente) con una frase “in levare” che accentua il significato di annullamento totale che proviene dalla morte.
Shostakovic - Sinfonia n.4

Sinfonia n.4 in Do op.43
I.Allegretto poco moderato; II.Moderato con moto; III. Largo-Allegro
Strumentazione : 6 fl., 4 ob., 6 cl., 3 fg., cfg.,8 cr., 4 tr., 3 trb., 2 tb., perc., cel., 2 ar., archi
Il 28 gennaio 1936 - due anni erano trascorsi dalla prima esecuzione a San Pietroburgo del capolavoro teatrale di Š, Lady Macbeth del Distretto di Mzensk - il musicista si trovava in viaggio con Viktor Kubackij, lo strumentista che egli avrebbe accompagnato nell'esecuzione della propria nuova Sonata per violoncello e pianoforte. L'attenzione di Š venne ad un tratto attirata da un articolo non firmato di terza pagina della Pravda, intitolato "Il Caos al posto della musica".
L'articolo altro non era che un violento attacco contro Lady Macbeth, la cui musica secondo l'estensore era tale per cui "fin dal primo momento l'ascoltatore è sconvolto da una sequenza di suoni confusa e deliberatamente dissonante...frammenti di melodia, frasi embrionalmente compiute affiorano talvolta solo per scomparire di nuovo nel frastuono e nelle urla...".
Una critica così distruttiva e inappellabile non poteva che provenire da Andrei Ždanov, portavoce di Stalin per gli Affari Culturali nel Comitato Centrale del Partito (la paternità effettiva venne attribuita in seguito sia a P.Keršenžev che a D.Zaslavskij). Stalin intendeva apparentemente condannare ogni tentativo di apertura dei circoli musicali sovietici verso le "pericolose" tendenze della musica occidentale, colpevole di porre in crisi le basi del Realismo Socialista, ma ancor di più censurare i contenuti scabrosi dell’opera, che minavano l’immagine edificante di una nuova società fondata sui sani principi della famiglia e di una visione ottimistica della vita.
Š. si trovò di punto in bianco privo di qualsiasi supporto ufficiale: i suoi lavori sparirono dalla programmazione delle società che organizzavano concerti pubblici e gli stessi colleghi dell'Unione dei Compositori gli negarono qualsiasi tipo di aiuto.
In questo contesto travagliatissimo Š. decise (o meglio fu costretto a decidere) l’annullamento della presentazione della sua nuova quarta sinfonia, prevista per il 23 novembre 1936 a San Pietroburgo. Iniziata nel 1935 e terminata alla fine di aprile del ’36, la Quarta era un lavoro che non avrebbe fatto che attirare di nuovo quelle accuse di formalismo appena formulate e non avrebbe certo migliorato la posizione del musicista. Fu così che la sinfonia -- la cui partitura originale venne oltretutto smarrita e innanzitutto ricomposta da Š. nel ’46 in una versione per due pianoforti -- conobbe un oblio destinato a durare fino al 30 dicembre del 1961, data in cui venne eseguita a Mosca sotto la direzione di Kiril Kondrašin L’elemento che maggiormente colpisce l’ascoltatore della nuova partitura è in questo caso la strumentazione assai allargata e l’ampiezza dei movimenti. E’soprattutto il primo tempo, con la sua durata di quasi 30 minuti e il ricorso alla alternanza continua tra grande orchestra e piccoli gruppi di strumenti a ricordarci le ascendenze mahleriane che già avevano caratterizzato la terza sinfonia. Nonostante la sua lunghezza questo movimento di apertura è sostanzialmente fondato su due temi, ognuno dei quali contiene degli episodi accessori. Dopo una perentoria introduzione di sei misure il primo tema, quasi una marcia, si presenta in tutta la sua spigolosità irta di dissonanze. Segue una sezione più melodica affidata agli archi e a gruppi di fiati e il ritorno all’idea principale. Il secondo tema ha le caratteristiche di un Valzer, esposto dal fagotto su un accompagnamento pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi. Una ripresa quasi caricaturale del tema primo porta a un grande Fugato (Presto) affidato agli archi che espongono un tema di notevole e inusuale estensione. Il Fugato si sviluppa in nuova condensazione di voci dell’orchestra che si sovrappongono in combinazioni estremamente dissonanti e riportano il discorso alla ripresa del tema di Valzer e infine all’ultima esposizione della marcia (in ognuna di queste riprese si nota un sempre diverso utilizzo della compagine strumentale, che arricchisce notevolmente il discorso dal punto di vista timbrico).
Il grandioso edificio del primo movimento si chiude con una coda sottovoce.
Il successivo Moderato con moto si apre con un tema piuttosto sarcastico affidato alle viole e commentato dai violini (il tema sarà sottoposto a un trattamento contrappuntistico più avanti), nel quale è evidente l’elemento caricaturale nei confronti delle atmosfere viennesi in ¾ e quindi ancora il gemellaggio con la musica di Mahler.
Il finale è costituito da un movimento che comprende due vaste sezioni, un Largo e un Allegro. Il Largo ha il carattere di una marcia funebre che si apre con un tema al fagotto sul ritmo scandito da timpani e contrabbassi, con il commento successivo di clarinetti, oboi e flauti e un petulante richiamo dell’ottavino che ricorda ancora certi luoghi mahleriani. Un agghiacciante crescendo dell’intera orchestra porta a un Allegro in ¾ (un vero e proprio Scherzo) caratterizzato da una implacabile scansione ritmica e da un motivo trionfalistico. Un breve episodio che ha come protagonisti il clarinetto basso e l’ottavino porta poi a un tempo di valzer alternato a un ritmo binario. Un corale ai legni anticipa infine il classico ritorno alla marcia funebre, che ha come epilogo un originale passaggio nel quale gli archi intonano un lungo accordo tenuto, in pp, mentre il corno,il flauto e la celesta espongono frammenti del tema iniziale. Nelle sue memorie Š. ricorda che questa eco enigmatica traduce la sua reazione incredula al tradimento di amici e colleghi in seguito alla campagna di attacchi del’36.
I.Allegretto poco moderato; II.Moderato con moto; III. Largo-Allegro
Strumentazione : 6 fl., 4 ob., 6 cl., 3 fg., cfg.,8 cr., 4 tr., 3 trb., 2 tb., perc., cel., 2 ar., archi
Il 28 gennaio 1936 - due anni erano trascorsi dalla prima esecuzione a San Pietroburgo del capolavoro teatrale di Š, Lady Macbeth del Distretto di Mzensk - il musicista si trovava in viaggio con Viktor Kubackij, lo strumentista che egli avrebbe accompagnato nell'esecuzione della propria nuova Sonata per violoncello e pianoforte. L'attenzione di Š venne ad un tratto attirata da un articolo non firmato di terza pagina della Pravda, intitolato "Il Caos al posto della musica".
L'articolo altro non era che un violento attacco contro Lady Macbeth, la cui musica secondo l'estensore era tale per cui "fin dal primo momento l'ascoltatore è sconvolto da una sequenza di suoni confusa e deliberatamente dissonante...frammenti di melodia, frasi embrionalmente compiute affiorano talvolta solo per scomparire di nuovo nel frastuono e nelle urla...".
Una critica così distruttiva e inappellabile non poteva che provenire da Andrei Ždanov, portavoce di Stalin per gli Affari Culturali nel Comitato Centrale del Partito (la paternità effettiva venne attribuita in seguito sia a P.Keršenžev che a D.Zaslavskij). Stalin intendeva apparentemente condannare ogni tentativo di apertura dei circoli musicali sovietici verso le "pericolose" tendenze della musica occidentale, colpevole di porre in crisi le basi del Realismo Socialista, ma ancor di più censurare i contenuti scabrosi dell’opera, che minavano l’immagine edificante di una nuova società fondata sui sani principi della famiglia e di una visione ottimistica della vita.
Š. si trovò di punto in bianco privo di qualsiasi supporto ufficiale: i suoi lavori sparirono dalla programmazione delle società che organizzavano concerti pubblici e gli stessi colleghi dell'Unione dei Compositori gli negarono qualsiasi tipo di aiuto.
In questo contesto travagliatissimo Š. decise (o meglio fu costretto a decidere) l’annullamento della presentazione della sua nuova quarta sinfonia, prevista per il 23 novembre 1936 a San Pietroburgo. Iniziata nel 1935 e terminata alla fine di aprile del ’36, la Quarta era un lavoro che non avrebbe fatto che attirare di nuovo quelle accuse di formalismo appena formulate e non avrebbe certo migliorato la posizione del musicista. Fu così che la sinfonia -- la cui partitura originale venne oltretutto smarrita e innanzitutto ricomposta da Š. nel ’46 in una versione per due pianoforti -- conobbe un oblio destinato a durare fino al 30 dicembre del 1961, data in cui venne eseguita a Mosca sotto la direzione di Kiril Kondrašin L’elemento che maggiormente colpisce l’ascoltatore della nuova partitura è in questo caso la strumentazione assai allargata e l’ampiezza dei movimenti. E’soprattutto il primo tempo, con la sua durata di quasi 30 minuti e il ricorso alla alternanza continua tra grande orchestra e piccoli gruppi di strumenti a ricordarci le ascendenze mahleriane che già avevano caratterizzato la terza sinfonia. Nonostante la sua lunghezza questo movimento di apertura è sostanzialmente fondato su due temi, ognuno dei quali contiene degli episodi accessori. Dopo una perentoria introduzione di sei misure il primo tema, quasi una marcia, si presenta in tutta la sua spigolosità irta di dissonanze. Segue una sezione più melodica affidata agli archi e a gruppi di fiati e il ritorno all’idea principale. Il secondo tema ha le caratteristiche di un Valzer, esposto dal fagotto su un accompagnamento pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi. Una ripresa quasi caricaturale del tema primo porta a un grande Fugato (Presto) affidato agli archi che espongono un tema di notevole e inusuale estensione. Il Fugato si sviluppa in nuova condensazione di voci dell’orchestra che si sovrappongono in combinazioni estremamente dissonanti e riportano il discorso alla ripresa del tema di Valzer e infine all’ultima esposizione della marcia (in ognuna di queste riprese si nota un sempre diverso utilizzo della compagine strumentale, che arricchisce notevolmente il discorso dal punto di vista timbrico).
Il grandioso edificio del primo movimento si chiude con una coda sottovoce.
Il successivo Moderato con moto si apre con un tema piuttosto sarcastico affidato alle viole e commentato dai violini (il tema sarà sottoposto a un trattamento contrappuntistico più avanti), nel quale è evidente l’elemento caricaturale nei confronti delle atmosfere viennesi in ¾ e quindi ancora il gemellaggio con la musica di Mahler.
Il finale è costituito da un movimento che comprende due vaste sezioni, un Largo e un Allegro. Il Largo ha il carattere di una marcia funebre che si apre con un tema al fagotto sul ritmo scandito da timpani e contrabbassi, con il commento successivo di clarinetti, oboi e flauti e un petulante richiamo dell’ottavino che ricorda ancora certi luoghi mahleriani. Un agghiacciante crescendo dell’intera orchestra porta a un Allegro in ¾ (un vero e proprio Scherzo) caratterizzato da una implacabile scansione ritmica e da un motivo trionfalistico. Un breve episodio che ha come protagonisti il clarinetto basso e l’ottavino porta poi a un tempo di valzer alternato a un ritmo binario. Un corale ai legni anticipa infine il classico ritorno alla marcia funebre, che ha come epilogo un originale passaggio nel quale gli archi intonano un lungo accordo tenuto, in pp, mentre il corno,il flauto e la celesta espongono frammenti del tema iniziale. Nelle sue memorie Š. ricorda che questa eco enigmatica traduce la sua reazione incredula al tradimento di amici e colleghi in seguito alla campagna di attacchi del’36.
Shostakovic - Sinfonie nn.5,6

Sinfonia n.5 in re min. op.47
I.Moderato: II.Allegretto; III.Largo; IV.Allegro non troppo
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 3 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., pf., arc.
Alla denuncia ideologica del ’36 Š. reagisce immediatamente con una nuova Sinfonia, la quinta, che rimarrà come la più popolare ed eseguita delle quindici e che taluni vollero abbinare a un programma – non dichiarato esplicitamente dall’Autore – di “risposta pratica di un artista sovietico ad una giusta critica". L’apparente atteggiamento di compromesso, il ritorno a un conformismo che violenta i caratteri più intimi della poetica di Š., viene contraddetto sia dall'esame della partitura che dalle dichiarazioni che più tardi lo stesso autore ebbe a rilasciare. Ci si accorge insomma come l' atto di pentimento nasconda in realtà motivi di denuncia ancora più forti e come all'interno del linguaggio musicale si possano dichiarare certe verità brucianti occultandole attraverso un idioma rassicurante, per nulla tacciabile di "modernismo" e del tutto in linea con le regole del gioco.
La quinta sinfonia viene eseguita per la prima volta il 21 novembre del '37 a San Pietroburgo, sotto la direzione di Mravinskij. Il trentaquattrenne direttore, che fu poi molto legato a S.curando personalmente le prime esecuzioni delle Sinfonie n.6,8 (a lui dedicata), 9 e 10 e dei Concerti per violino e violoncello, intervenne personalmente sulla stampa pubblicando un articolo intitolato "Un'opera di sconcertante vigore". Lo stesso Mravinskij ricordò più tardi l'avvenimento della prima esecuzione con parole emozionate: "Ero ancora un giovane e sconosciuto direttore d'orchestra quando mi venne affidato l'incarico di dirigere la Quinta di Š. ,che l'Autore aveva appena completato, in occasione delle celebrazioni per il decennale della Musica Sovietica. Non riesco ancora oggi a rendermi conto di come osai accettare, per nulla trepidante e senza riflettere, una simile proposta. A mia discolpa posso dire che ero giovane e non ero per nulla conscio delle difficoltà e delle responsabilità cui sarei andato incontro. Inoltre contavo molto su un aiuto da parte del compositore."
La sinfonia , eseguita nel rispetto assoluto delle indicazioni di Š., riceve tutto sommato una buona accoglienza; il grande pianista e didatta Heinrich Neuhaus non esitò ad esempio a parlare di " musica profonda, piena di significati, ...classica nell'integrità della sua concezione, perfetta per ciò che riguarda i contenuti formali e la maestrìa dell'orchestrazione ...ma allo stesso tempo rispecchiante con sincerità i sentimenti umani."
La "risposta pratica" di Š era stata preceduta da un articolo firmato dallo stesso musicista e intitolato "La mia risposta di Artista". La descrizione della nuova sinfonia tende a sottolinearne il carattere di riflessione sui grandi temi esistenziali: "Il tema della mia sinfonia è lo sviluppo dell'individuo. Ho considerato come idea centrale dell'opera, che è essenzialmente lirica dall'inizio alla fine, l'uomo con tutte le sue sofferenze; il Finale risolve la tragedia e la tensione dei movimenti precedenti con una nota gioiosa e ottimistica. Siamo talvolta di fronte alla questione sulla legittimità o meno del concetto di tragedia nell'arte sovietica. Tuttavia da noi si confonde il vero significato della tragedia con il pessimismo e la rassegnazione. Penso che la "tragedia sovietica" sia un genere che ha tutti i diritti di esistere, ma i suoi contenuti devono essere integrati da una ispirazione positiva, paragonabile ad esempio al pathos vitalistico delle tragedie di Shakespeare. Conosciamo inoltre molti capolavori musicali dove il linguaggio severo e ispirato, come nel caso del Requiem di Mozart o di Verdi, invece di riempire l'animo di sentimenti di disperazione infonde coraggio e volontà di lotta."
Chiunque poteva capire il senso di queste parole e quindi le verità nascoste all'interno del vasto affresco sonoro della quinta sinfonia. Dal regime la sinfonia venne invece considerata sufficiente per una riabilitazione ufficiale del compositore; Š. fu successivamente insignito (1940) del prestigioso Ordine di Lenin e nel '41 del titolo di "Artista emerito".
La posizione della critica occidentale fu per gli stessi motivi negativa: la “riabilitazione” venne infatti letta come una umiliante retrocessione dell’autore dalle precedenti posizioni di avanguardia. Tuttavia in questo lavoro si coglie una varietà di spunti che non lasciano dubbi sulla conservazione dell'integrità morale ed artistica del musicista, al di là delle formule rituali di "pentimento". Non a torto si è notato come, proprio a partire dalla quinta Sinfonia, Š. individui alcuni caratteri specifici che d'ora in poi si identificheranno con una sorta di motto autobiografico ricorrente. In tal senso i paragoni con la quinta di Beethoven sono tutt'altro che azzardati, perché colgono l'importanza di alcuni incisi tematici che hanno davvero il significato di una sfida al destino. E'il caso, ad esempio, dell'angosciosa interrogazione che apre la sinfonia, con i suoi ritmi puntati che generano più avanti dei sofferti sviluppi contrappuntistici. La stessa partizione della Sinfonia ( una prima sezione di carattere assai problematico,rappresentata dal Moderato, cui si contrappone la triade formata dall'Allegretto dal Largo e dall'Allegro non troppo, risolutrice dei conflitti precedentemente espressi) può richiamare alla mente i blocchi contrastanti del capolavoro beethoveniano. Certo, il lato retorico che affligge il Finale, con la sua ottimistica conclusione in do maggiore, va inteso e ripensato dopo aver letto ciò che Š. ebbe a dire al giovane amico Solomon Volkov, poco prima della morte: "Penso che sia chiaro a tutti ciò che accade nella Quinta. Come nel Boris Godunov, il giubilo è forzato, frutto della minaccia. E'come se uno ti picchiasse con un bastone dicendo "devi esultare,il tuo dovere è di esultare" e tu ti risollevi tremante e continui a marciare brontolando "il nostro dovere è di esultare...". Lo scrittore Aleksandr Fadeev, dopo avere ascoltato la Sinfonia, scrisse nel suo diario che il Finale aveva il significato di una “tragedia irreparabile”.
La quinta si apre dunque con un movimento in tempo Moderato che segue uno schema allargato di forma-sonata : un tema principale esposto in forma di canone e diverse idee secondarie, uno sviluppo non scevro di nuovi elementi tematici, la ripresa dove il tema principale ritorna con un perentorio unisono dell’intera orchestra e una coda in pianissimo.
Segue uno Scherzo (Allegretto) caratterizzato da un tema esposto da violoncelli e contrabbassi e da un Trio bipartito. Il successivo Largo è probabilmente il movimento meglio riuscito, nel suo mesto lirismo cui fa da contraltare il finale, che secondo le dichiarazioni ufficiali dell’autore “dà una risposta ottimistica ai momenti intensamente tragici dei movimenti precedenti”.
Sinfonia n.6 in Si op.54
I.Largo: II.Allegro; III.Presto
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 4 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., ar., archi
Il processo di riabilitazione del compositore in seguito al successo della quinta sinfonia è molto rapido e porta a una ripresa in grande stile dell’attività professionale, affiancata da una nomina a Professore ordinario al Conservatorio di Mosca (23 maggio 1939).
In questo ordine di idee Š. matura verso la fine di settembre del ’38 l’idea di una nuova sinfonia, prevista come una composizione di largo respiro per solisti, coro e orchestra e basata su un poema di Majakovskij intitolato a Lenin. Ma il lavoro stenta ad avanzare secondo le premesse, e in una intervista radiofonica del gennaio del ’39 Š. non nomina più né il carattere vocale né il programma della sinfonia. Il 27 agosto dello stesso anno, a San Pietroburgo, il musicista suona al pianoforte diverse sezioni della nuova opera per un uditorio di colleghi, suscitando una viva impressione, e nel giro di un mese viene completato anche il terzo e ultimo movimento. In una ulteriore intervista per la stampa Š. parla ora di una sinfonia che “è molto differente dai modi e dai contenuti della quinta, caratterizzata da momenti di tragedia e di tensione” e insiste sul nuovo carattere dell’opera, “contemplativo e lirico”. E nell’ottobre del ’39 sottolinea il piglio brillante e di sicuro successo del Finale (che verrà in effetti replicato dopo la prima esecuzione della sinfonia da parte di Mravinskij, il 5 novembre a San Pietroburgo).
Š. non poté assistere di persona alla “prima” moscovita del 3 dicembre, che registrò al contrario una indispettita reazione da parte dell’establishment musicale. In effetti chi si aspettava un lavoro a programma o perlomeno una sinfonia che iniziasse con un canonico Allegro rimase del tutto deluso : la breve sesta sinfonia si apre infatti con un relativamente vasto Adagio (Largo) al quale succedono due Scherzi.
Il Largo ritiene tutta la grave seriosità dei tempi lenti di Š. e si può schematicamente suddividere in due sezioni : la prima contraddistinta da due idee principali e la seconda caratterizzata da una idea esposta dal corno inglese. Ma l’elemento che colpisce di più l’ascoltatore è senz’altro la serie di interventi solistici dei fiati, di lontano gusto esotico.
L’Allegro successivo, o primo Scherzo, si ricorda per un tema di sapore orientale, ad intervalli ampi : è uno Scherzo al quale manca un vero e proprio Trio, al posto del quale troviamo uno sviluppo estrememante inventivo.
Il Presto finale è giocato su abili citazioni del repertorio classico -- in particolar modo il ritmo serrato della parte finale dell’Ouverture del Tell rossiniano -- in una inarrivabile miscela di caricatura e di virtuosismo orchestrale.
La sinfonia ebbe un certo successo negli Stati Uniti (la prima esecuzione venne diretta da Leopold Stokowsky nel 1940) e la critica apprezzò in particolar modo la profondità dell’impegnativo movimento iniziale.
I.Moderato: II.Allegretto; III.Largo; IV.Allegro non troppo
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 3 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., pf., arc.
Alla denuncia ideologica del ’36 Š. reagisce immediatamente con una nuova Sinfonia, la quinta, che rimarrà come la più popolare ed eseguita delle quindici e che taluni vollero abbinare a un programma – non dichiarato esplicitamente dall’Autore – di “risposta pratica di un artista sovietico ad una giusta critica". L’apparente atteggiamento di compromesso, il ritorno a un conformismo che violenta i caratteri più intimi della poetica di Š., viene contraddetto sia dall'esame della partitura che dalle dichiarazioni che più tardi lo stesso autore ebbe a rilasciare. Ci si accorge insomma come l' atto di pentimento nasconda in realtà motivi di denuncia ancora più forti e come all'interno del linguaggio musicale si possano dichiarare certe verità brucianti occultandole attraverso un idioma rassicurante, per nulla tacciabile di "modernismo" e del tutto in linea con le regole del gioco.
La quinta sinfonia viene eseguita per la prima volta il 21 novembre del '37 a San Pietroburgo, sotto la direzione di Mravinskij. Il trentaquattrenne direttore, che fu poi molto legato a S.curando personalmente le prime esecuzioni delle Sinfonie n.6,8 (a lui dedicata), 9 e 10 e dei Concerti per violino e violoncello, intervenne personalmente sulla stampa pubblicando un articolo intitolato "Un'opera di sconcertante vigore". Lo stesso Mravinskij ricordò più tardi l'avvenimento della prima esecuzione con parole emozionate: "Ero ancora un giovane e sconosciuto direttore d'orchestra quando mi venne affidato l'incarico di dirigere la Quinta di Š. ,che l'Autore aveva appena completato, in occasione delle celebrazioni per il decennale della Musica Sovietica. Non riesco ancora oggi a rendermi conto di come osai accettare, per nulla trepidante e senza riflettere, una simile proposta. A mia discolpa posso dire che ero giovane e non ero per nulla conscio delle difficoltà e delle responsabilità cui sarei andato incontro. Inoltre contavo molto su un aiuto da parte del compositore."
La sinfonia , eseguita nel rispetto assoluto delle indicazioni di Š., riceve tutto sommato una buona accoglienza; il grande pianista e didatta Heinrich Neuhaus non esitò ad esempio a parlare di " musica profonda, piena di significati, ...classica nell'integrità della sua concezione, perfetta per ciò che riguarda i contenuti formali e la maestrìa dell'orchestrazione ...ma allo stesso tempo rispecchiante con sincerità i sentimenti umani."
La "risposta pratica" di Š era stata preceduta da un articolo firmato dallo stesso musicista e intitolato "La mia risposta di Artista". La descrizione della nuova sinfonia tende a sottolinearne il carattere di riflessione sui grandi temi esistenziali: "Il tema della mia sinfonia è lo sviluppo dell'individuo. Ho considerato come idea centrale dell'opera, che è essenzialmente lirica dall'inizio alla fine, l'uomo con tutte le sue sofferenze; il Finale risolve la tragedia e la tensione dei movimenti precedenti con una nota gioiosa e ottimistica. Siamo talvolta di fronte alla questione sulla legittimità o meno del concetto di tragedia nell'arte sovietica. Tuttavia da noi si confonde il vero significato della tragedia con il pessimismo e la rassegnazione. Penso che la "tragedia sovietica" sia un genere che ha tutti i diritti di esistere, ma i suoi contenuti devono essere integrati da una ispirazione positiva, paragonabile ad esempio al pathos vitalistico delle tragedie di Shakespeare. Conosciamo inoltre molti capolavori musicali dove il linguaggio severo e ispirato, come nel caso del Requiem di Mozart o di Verdi, invece di riempire l'animo di sentimenti di disperazione infonde coraggio e volontà di lotta."
Chiunque poteva capire il senso di queste parole e quindi le verità nascoste all'interno del vasto affresco sonoro della quinta sinfonia. Dal regime la sinfonia venne invece considerata sufficiente per una riabilitazione ufficiale del compositore; Š. fu successivamente insignito (1940) del prestigioso Ordine di Lenin e nel '41 del titolo di "Artista emerito".
La posizione della critica occidentale fu per gli stessi motivi negativa: la “riabilitazione” venne infatti letta come una umiliante retrocessione dell’autore dalle precedenti posizioni di avanguardia. Tuttavia in questo lavoro si coglie una varietà di spunti che non lasciano dubbi sulla conservazione dell'integrità morale ed artistica del musicista, al di là delle formule rituali di "pentimento". Non a torto si è notato come, proprio a partire dalla quinta Sinfonia, Š. individui alcuni caratteri specifici che d'ora in poi si identificheranno con una sorta di motto autobiografico ricorrente. In tal senso i paragoni con la quinta di Beethoven sono tutt'altro che azzardati, perché colgono l'importanza di alcuni incisi tematici che hanno davvero il significato di una sfida al destino. E'il caso, ad esempio, dell'angosciosa interrogazione che apre la sinfonia, con i suoi ritmi puntati che generano più avanti dei sofferti sviluppi contrappuntistici. La stessa partizione della Sinfonia ( una prima sezione di carattere assai problematico,rappresentata dal Moderato, cui si contrappone la triade formata dall'Allegretto dal Largo e dall'Allegro non troppo, risolutrice dei conflitti precedentemente espressi) può richiamare alla mente i blocchi contrastanti del capolavoro beethoveniano. Certo, il lato retorico che affligge il Finale, con la sua ottimistica conclusione in do maggiore, va inteso e ripensato dopo aver letto ciò che Š. ebbe a dire al giovane amico Solomon Volkov, poco prima della morte: "Penso che sia chiaro a tutti ciò che accade nella Quinta. Come nel Boris Godunov, il giubilo è forzato, frutto della minaccia. E'come se uno ti picchiasse con un bastone dicendo "devi esultare,il tuo dovere è di esultare" e tu ti risollevi tremante e continui a marciare brontolando "il nostro dovere è di esultare...". Lo scrittore Aleksandr Fadeev, dopo avere ascoltato la Sinfonia, scrisse nel suo diario che il Finale aveva il significato di una “tragedia irreparabile”.
La quinta si apre dunque con un movimento in tempo Moderato che segue uno schema allargato di forma-sonata : un tema principale esposto in forma di canone e diverse idee secondarie, uno sviluppo non scevro di nuovi elementi tematici, la ripresa dove il tema principale ritorna con un perentorio unisono dell’intera orchestra e una coda in pianissimo.
Segue uno Scherzo (Allegretto) caratterizzato da un tema esposto da violoncelli e contrabbassi e da un Trio bipartito. Il successivo Largo è probabilmente il movimento meglio riuscito, nel suo mesto lirismo cui fa da contraltare il finale, che secondo le dichiarazioni ufficiali dell’autore “dà una risposta ottimistica ai momenti intensamente tragici dei movimenti precedenti”.
Sinfonia n.6 in Si op.54
I.Largo: II.Allegro; III.Presto
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 4 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., ar., archi
Il processo di riabilitazione del compositore in seguito al successo della quinta sinfonia è molto rapido e porta a una ripresa in grande stile dell’attività professionale, affiancata da una nomina a Professore ordinario al Conservatorio di Mosca (23 maggio 1939).
In questo ordine di idee Š. matura verso la fine di settembre del ’38 l’idea di una nuova sinfonia, prevista come una composizione di largo respiro per solisti, coro e orchestra e basata su un poema di Majakovskij intitolato a Lenin. Ma il lavoro stenta ad avanzare secondo le premesse, e in una intervista radiofonica del gennaio del ’39 Š. non nomina più né il carattere vocale né il programma della sinfonia. Il 27 agosto dello stesso anno, a San Pietroburgo, il musicista suona al pianoforte diverse sezioni della nuova opera per un uditorio di colleghi, suscitando una viva impressione, e nel giro di un mese viene completato anche il terzo e ultimo movimento. In una ulteriore intervista per la stampa Š. parla ora di una sinfonia che “è molto differente dai modi e dai contenuti della quinta, caratterizzata da momenti di tragedia e di tensione” e insiste sul nuovo carattere dell’opera, “contemplativo e lirico”. E nell’ottobre del ’39 sottolinea il piglio brillante e di sicuro successo del Finale (che verrà in effetti replicato dopo la prima esecuzione della sinfonia da parte di Mravinskij, il 5 novembre a San Pietroburgo).
Š. non poté assistere di persona alla “prima” moscovita del 3 dicembre, che registrò al contrario una indispettita reazione da parte dell’establishment musicale. In effetti chi si aspettava un lavoro a programma o perlomeno una sinfonia che iniziasse con un canonico Allegro rimase del tutto deluso : la breve sesta sinfonia si apre infatti con un relativamente vasto Adagio (Largo) al quale succedono due Scherzi.
Il Largo ritiene tutta la grave seriosità dei tempi lenti di Š. e si può schematicamente suddividere in due sezioni : la prima contraddistinta da due idee principali e la seconda caratterizzata da una idea esposta dal corno inglese. Ma l’elemento che colpisce di più l’ascoltatore è senz’altro la serie di interventi solistici dei fiati, di lontano gusto esotico.
L’Allegro successivo, o primo Scherzo, si ricorda per un tema di sapore orientale, ad intervalli ampi : è uno Scherzo al quale manca un vero e proprio Trio, al posto del quale troviamo uno sviluppo estrememante inventivo.
Il Presto finale è giocato su abili citazioni del repertorio classico -- in particolar modo il ritmo serrato della parte finale dell’Ouverture del Tell rossiniano -- in una inarrivabile miscela di caricatura e di virtuosismo orchestrale.
La sinfonia ebbe un certo successo negli Stati Uniti (la prima esecuzione venne diretta da Leopold Stokowsky nel 1940) e la critica apprezzò in particolar modo la profondità dell’impegnativo movimento iniziale.
Shostakovic - Sinfonia n.7

Sinfonia n. 7 in DO op.60
I.Allegretto; II.Moderato (Poco allegretto); III.Adagio; IV.Allegro non troppo
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 4 cl., 3 fg.,8 cr., 6 tr., 6 trb., tb., perc., 2 ar., pf., archi
La settima sinfonia di Š. è da sempre associata all’assedio di San Pietroburgo da parte delle truppe naziste anche se venne per la precisione iniziata poco prima, il 15 luglio del ’41, circa un mese dopo l’ingresso dei tedeschi nell’Unione Sovietica, e terminata il 27 dicembre, un intervallo di tempo straordinariamente breve per un lavoro di questo genere. Per le dichiarazioni rilasciate dal musicista durante tutto l’arco compositivo, per i contenuti evocanti scene di guerra e di resistenza, per la stessa dedica “alla città di San Pietroburgo” e per l’enorme successo di pubblico e la notorietà acquisita all’estero ancor prima che venisse effettuata la prima esecuzione americana da parte di Toscanini (19 luglio 1942) la Sinfonia rimase a lungo come opera rappresentativa di tutto un aspetto della poetica di Š. e simbolo della resistenza sovietica contro l’invasore.
Le stesse prime esecuzioni in patria hanno luogo in condizioni di precarietà: a Kujbyšev, negli Urali, dove Š. e altri musicisti erano stati forzatamente sfollati (5 marzo 1942), poi a Mosca e persino a San Pietroburgo, durante l’assedio (9 agosto 1942). Innumerevoli furono le esecuzioni all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove a Toscanini si succedettero divi del podio come Stokowsky, Mitropoulos e Monteux. Va peraltro notato che l’interpretazione del grande direttore italiano, incisa di lì a poco in disco e fatta recapitare al compositore, non piacque per nulla a Š., che si trovò costretto per ovvie ragioni diplomatiche a non poter esternare pubblicamente questa sua convinzione.
L’adesione di Š. a un programma e a una atmosfera di tipo celebrativo, che del resto rappresentano solo una parte dei contenuti della Settima, viene qui giustificata dal sentimento patriottico non fine a se stesso, come era avvenuto nel contesto del clima instauratosi nel paese all’epoca dell’insediamento di Stalin, bensì motivato dal pericolo dell’invasione nemica e della conseguente minaccia nei confronti di tutta una serie di valori in cui Š. credeva fermamente.
Né fu necessario in questo caso il ricorso a un programma dettagliato (La guerra, Il ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria – secondo la stesura pensata all’origine) o all’intervento corale per chiarire il significato e il contenuto drammatico della sinfonia.
Celeberrimo è rimasto il primo movimento della Settima, o meglio la sezione variata su un tema di marcia che inizia sommessamente per giungere via via a una declamazione parossistica, secondo un meccanismo che non può non far pensare al Bolero di Ravel e che è stato interpretato in diversi modi, dall’eco della marcia degli invasori nazisti alla resistenza del popolo sovietico, o addirittura -- sono le parole del compositore -- a un “requiem per tutti coloro che sono caduti per noi” o a un motivo che descrive ogni tipo di totalitarismo. La sinfonia si apre tuttavia con un primo vigoroso tema affidato agli archi e ripetuto dai legni, seguito da un secondo soggetto più lento esposto dai flauti. A questo punto entra in scena il tema inconfondibile di marcia, 18 battute nel pizzicato degli archi che danno il via a una serie di 12 ripetizioni sempre più ossessive. I musicologi si sono letteralmente avvinghiati a questa idea estrapolando tutta una serie di allusioni che in esso sarebbero presenti, da un noto motivetto della “Vedova allegra” di Lehár – citato nella seconda parte – all’inno nazionale tedesco e a frammenti cajkovskiani. Ma sarebbe inutile tentare qui di scovare delle ragioni allusive profonde (ivi compreso il fatto che l’operetta di Lehar era uno dei pezzi preferiti dallo Hitler musicofilo) dato che non è detto che in Š. la citazioni siano riferite per forza a un preciso significato extra-musicale. Al termine della dodicesima, orgiastica ripetizione gli ottoni introducono un nuovo motivo che porta il movimento a concludersi in maniera molto pacata, complice anche una ulteriore nuova idea esposta dal fagotto.
Quasi uno Scherzo in tempo lento, il secondo movimento si apre con un tema di stampo lirico affidato agli archi cui segue una nuova sinuosa idea esposta dall’oboe e ripresa dal corno inglese.
L’ episodio centrale è caratterizzato da un goffo e stridente motivo dei clarinetti, ripreso dagli ottoni e dagli archi.
L’Adagio al terzo posto presenta una struttura tripartita, con una sezione mossa centrale (Moderato risoluto) delimitata da due parti nelle quali si ascolta un tema lento che secondo il programma iniziale avrebbe dovuto illustrare il paesaggio immobile della Neva a San Pietroburgo, alle prime luci dell’alba. Il tema, inizialmente esposto in forma accordale dai legni e dalle arpe e commentato dagli archi ha un che di religioso e richiama molti luoghi tipici della musica corale russa di stampo liturgico.
L’Allegro non troppo finale attacca senza soluzione di continuità con una melodia ascendente affidata agli archi; i bassi espongono poi un motivo di marcia veloce, quasi una danza cosacca, che porta a un clima concitato. Ritorna infine il clima pacato iniziale per una conclusione apparentemente serena nella tonalità di DO, conclusione che nasconde tuttavia una profonda inquietudine
I.Allegretto; II.Moderato (Poco allegretto); III.Adagio; IV.Allegro non troppo
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 4 cl., 3 fg.,8 cr., 6 tr., 6 trb., tb., perc., 2 ar., pf., archi
La settima sinfonia di Š. è da sempre associata all’assedio di San Pietroburgo da parte delle truppe naziste anche se venne per la precisione iniziata poco prima, il 15 luglio del ’41, circa un mese dopo l’ingresso dei tedeschi nell’Unione Sovietica, e terminata il 27 dicembre, un intervallo di tempo straordinariamente breve per un lavoro di questo genere. Per le dichiarazioni rilasciate dal musicista durante tutto l’arco compositivo, per i contenuti evocanti scene di guerra e di resistenza, per la stessa dedica “alla città di San Pietroburgo” e per l’enorme successo di pubblico e la notorietà acquisita all’estero ancor prima che venisse effettuata la prima esecuzione americana da parte di Toscanini (19 luglio 1942) la Sinfonia rimase a lungo come opera rappresentativa di tutto un aspetto della poetica di Š. e simbolo della resistenza sovietica contro l’invasore.
Le stesse prime esecuzioni in patria hanno luogo in condizioni di precarietà: a Kujbyšev, negli Urali, dove Š. e altri musicisti erano stati forzatamente sfollati (5 marzo 1942), poi a Mosca e persino a San Pietroburgo, durante l’assedio (9 agosto 1942). Innumerevoli furono le esecuzioni all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove a Toscanini si succedettero divi del podio come Stokowsky, Mitropoulos e Monteux. Va peraltro notato che l’interpretazione del grande direttore italiano, incisa di lì a poco in disco e fatta recapitare al compositore, non piacque per nulla a Š., che si trovò costretto per ovvie ragioni diplomatiche a non poter esternare pubblicamente questa sua convinzione.
L’adesione di Š. a un programma e a una atmosfera di tipo celebrativo, che del resto rappresentano solo una parte dei contenuti della Settima, viene qui giustificata dal sentimento patriottico non fine a se stesso, come era avvenuto nel contesto del clima instauratosi nel paese all’epoca dell’insediamento di Stalin, bensì motivato dal pericolo dell’invasione nemica e della conseguente minaccia nei confronti di tutta una serie di valori in cui Š. credeva fermamente.
Né fu necessario in questo caso il ricorso a un programma dettagliato (La guerra, Il ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria – secondo la stesura pensata all’origine) o all’intervento corale per chiarire il significato e il contenuto drammatico della sinfonia.
Celeberrimo è rimasto il primo movimento della Settima, o meglio la sezione variata su un tema di marcia che inizia sommessamente per giungere via via a una declamazione parossistica, secondo un meccanismo che non può non far pensare al Bolero di Ravel e che è stato interpretato in diversi modi, dall’eco della marcia degli invasori nazisti alla resistenza del popolo sovietico, o addirittura -- sono le parole del compositore -- a un “requiem per tutti coloro che sono caduti per noi” o a un motivo che descrive ogni tipo di totalitarismo. La sinfonia si apre tuttavia con un primo vigoroso tema affidato agli archi e ripetuto dai legni, seguito da un secondo soggetto più lento esposto dai flauti. A questo punto entra in scena il tema inconfondibile di marcia, 18 battute nel pizzicato degli archi che danno il via a una serie di 12 ripetizioni sempre più ossessive. I musicologi si sono letteralmente avvinghiati a questa idea estrapolando tutta una serie di allusioni che in esso sarebbero presenti, da un noto motivetto della “Vedova allegra” di Lehár – citato nella seconda parte – all’inno nazionale tedesco e a frammenti cajkovskiani. Ma sarebbe inutile tentare qui di scovare delle ragioni allusive profonde (ivi compreso il fatto che l’operetta di Lehar era uno dei pezzi preferiti dallo Hitler musicofilo) dato che non è detto che in Š. la citazioni siano riferite per forza a un preciso significato extra-musicale. Al termine della dodicesima, orgiastica ripetizione gli ottoni introducono un nuovo motivo che porta il movimento a concludersi in maniera molto pacata, complice anche una ulteriore nuova idea esposta dal fagotto.
Quasi uno Scherzo in tempo lento, il secondo movimento si apre con un tema di stampo lirico affidato agli archi cui segue una nuova sinuosa idea esposta dall’oboe e ripresa dal corno inglese.
L’ episodio centrale è caratterizzato da un goffo e stridente motivo dei clarinetti, ripreso dagli ottoni e dagli archi.
L’Adagio al terzo posto presenta una struttura tripartita, con una sezione mossa centrale (Moderato risoluto) delimitata da due parti nelle quali si ascolta un tema lento che secondo il programma iniziale avrebbe dovuto illustrare il paesaggio immobile della Neva a San Pietroburgo, alle prime luci dell’alba. Il tema, inizialmente esposto in forma accordale dai legni e dalle arpe e commentato dagli archi ha un che di religioso e richiama molti luoghi tipici della musica corale russa di stampo liturgico.
L’Allegro non troppo finale attacca senza soluzione di continuità con una melodia ascendente affidata agli archi; i bassi espongono poi un motivo di marcia veloce, quasi una danza cosacca, che porta a un clima concitato. Ritorna infine il clima pacato iniziale per una conclusione apparentemente serena nella tonalità di DO, conclusione che nasconde tuttavia una profonda inquietudine
Shostakovic - Sinfonia n.8

Sinfonia n. 8 in Do op.65 4394
I.Adagio-Allegro non troppo; II.Allegretto); III.Allegro non troppo; IV.Largo; V.Allegretto
Strumentazione : 4 fl., 4 ob.,4 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., archi
Se la settima sinfonia era legata a una fase estremamente critica della Guerra, l’ottava nacque in un momento in cui l’orizzonte pareva più sgombro da catastrofiche previsioni. All’inizio del febbraio 1943 infatti le truppe tedesche potevano dirsi sconfitte a Stalingrado e nonostante le enormi perdite subite il paese poteva essere considerato fuori pericolo. Il nuovo lavoro di Š. viene completato in soli due mesi, a partire da alcune idee iniziali che sembrano essere state messe su carta nell’arco della giornata del 7 luglio di quell’anno. Pochi giorni dopo Š. si trasferisce con la famiglia nella residenza provvisoria di Ivanovo, a nord di Mosca e lì , il 5 settembre, la partitura vede il suo completamento. A seguito di una visita di Mravinskij, allora direttore principale della Filarmonica di San Pietroburgo, Š. prende accordi per la prima esecuzione della partitura, che ha luogo a Mosca il 4 novembre e che viene dedicata proprio a colui che l’aveva tenuta a battesimo. Quasi a preannunciare quello che sarà cinque anni più tardi un nuovo attacco da parte di Ždanov, la sinfonia non viene accolta con calore né dal pubblico né dalla critica, entrambi in attesa di un contenuto trionfalistico di vittoria che ancora una volta viene contraddetto dalle linee pensose del nuovo lavoro. Come a voler trovare a tutti i costi una giustificazione al pessimismo di Š., taluni pensano bene di vedere nell’ottava un lamento funebre nei confronti delle vittime della battaglia di Stalingrado (senza in questo andare molto lontano dalla verità) e l’opera viene da quel momento battezzata proprio “Sinfonia di Stalingrado” prima di essere archiviata con imbarazzo. L’ottava, che oggi viene unanimemente considerata il capolavoro sinfonico di Š., e che dall’autore era considerata come una delle opere preferite, rivedrà la luce nelle sale da concerto solamente nel 1960.
La sinfonia è suddivisa in cinque movimenti, dei quali gli ultimi tre vengono eseguiti senza soluzione di continuità. Molti commentatori hanno voluto vedere nel suo percorso tonale dal Do di impianto al DO finale un richiamo a tutta una tradizione che va dalla Quinta di Beethoven e attraverso la Prima di Brahms e l’Ottava di Bruckner arriva fino alla seconda sinfonia di Mahler : sinfonie nelle quali è evidente il contrasto tra una prima parte di impianto tragico e un finale giubilante.
Il primo movimento – per il quale lo stesso Š. indica una affinità con l’analoga apertura della propria quinta sinfonia -- si apre con una lunga sezione in tempo Adagio caratterizzata da un tema puntato esposto dagli archi. L’atmosfera grave e ieratica viene più avanti movimentata con un Poco più mosso in cui si ascolta una nuova melodia affidata ai violini su un accompagnamento sincopato degli archi. La ripresa dell’Adagio conduce a un impressionante crescendo che prepara il brutale Allegro non troppo, dove una base concitata degli archi, derivata dal tema primo dell’Adagio, fa da sfondo alle frasi spezzate dei fiati. Il clima sempre più concitato viene inaspettatamente rotto verso la fine da un assolo del corno inglese, un lamento di tristezza cosmica che precede la coda di desolata disperazione.
Š. descrive il secondo movimento, Allegretto, semplicemente come “una Marcia con gli elementi di uno scherzo”. E’ una marcia caratterizzata al solito da elementi sarcastici e da contrasti di sonorità al punto che il tema principale viene esposto dall’intera orchestra per poi essere ricondotto nella coda al semplice timbro dell’ottavino.
L’Allegro non troppo al terzo posto si apre con una sezione agitata affidata alla viola e caratterizzata da un incessante ritmica: si tratta di una vera e propria toccata tripartita, nella quale l’episodio centrale è dominato da una melodia guerriera affidata alla tromba. Alla Toccata si contrappone la lenta Passacaglia del quarto movimento il cui tema ostinato è presentato da violoncelli, contrabbassi e fagotto e viene ripetuto per ben dodici volte, con un raggelante canto sovrapposto affidato via via a strumenti solisti differenti, tra i quali il flauto, utilizzato nell’insolito registro grave.
Se di sublimazione finale si può parlare, questa avviene nell’etereo Allegretto al quinto posto, che a una attesa festa di celebrazione contrappone atmosfere estatiche e una chiusa del tutto interrogativa e in un certo senso irrisolta.
I.Adagio-Allegro non troppo; II.Allegretto); III.Allegro non troppo; IV.Largo; V.Allegretto
Strumentazione : 4 fl., 4 ob.,4 cl., 3 fg.,4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., archi
Se la settima sinfonia era legata a una fase estremamente critica della Guerra, l’ottava nacque in un momento in cui l’orizzonte pareva più sgombro da catastrofiche previsioni. All’inizio del febbraio 1943 infatti le truppe tedesche potevano dirsi sconfitte a Stalingrado e nonostante le enormi perdite subite il paese poteva essere considerato fuori pericolo. Il nuovo lavoro di Š. viene completato in soli due mesi, a partire da alcune idee iniziali che sembrano essere state messe su carta nell’arco della giornata del 7 luglio di quell’anno. Pochi giorni dopo Š. si trasferisce con la famiglia nella residenza provvisoria di Ivanovo, a nord di Mosca e lì , il 5 settembre, la partitura vede il suo completamento. A seguito di una visita di Mravinskij, allora direttore principale della Filarmonica di San Pietroburgo, Š. prende accordi per la prima esecuzione della partitura, che ha luogo a Mosca il 4 novembre e che viene dedicata proprio a colui che l’aveva tenuta a battesimo. Quasi a preannunciare quello che sarà cinque anni più tardi un nuovo attacco da parte di Ždanov, la sinfonia non viene accolta con calore né dal pubblico né dalla critica, entrambi in attesa di un contenuto trionfalistico di vittoria che ancora una volta viene contraddetto dalle linee pensose del nuovo lavoro. Come a voler trovare a tutti i costi una giustificazione al pessimismo di Š., taluni pensano bene di vedere nell’ottava un lamento funebre nei confronti delle vittime della battaglia di Stalingrado (senza in questo andare molto lontano dalla verità) e l’opera viene da quel momento battezzata proprio “Sinfonia di Stalingrado” prima di essere archiviata con imbarazzo. L’ottava, che oggi viene unanimemente considerata il capolavoro sinfonico di Š., e che dall’autore era considerata come una delle opere preferite, rivedrà la luce nelle sale da concerto solamente nel 1960.
La sinfonia è suddivisa in cinque movimenti, dei quali gli ultimi tre vengono eseguiti senza soluzione di continuità. Molti commentatori hanno voluto vedere nel suo percorso tonale dal Do di impianto al DO finale un richiamo a tutta una tradizione che va dalla Quinta di Beethoven e attraverso la Prima di Brahms e l’Ottava di Bruckner arriva fino alla seconda sinfonia di Mahler : sinfonie nelle quali è evidente il contrasto tra una prima parte di impianto tragico e un finale giubilante.
Il primo movimento – per il quale lo stesso Š. indica una affinità con l’analoga apertura della propria quinta sinfonia -- si apre con una lunga sezione in tempo Adagio caratterizzata da un tema puntato esposto dagli archi. L’atmosfera grave e ieratica viene più avanti movimentata con un Poco più mosso in cui si ascolta una nuova melodia affidata ai violini su un accompagnamento sincopato degli archi. La ripresa dell’Adagio conduce a un impressionante crescendo che prepara il brutale Allegro non troppo, dove una base concitata degli archi, derivata dal tema primo dell’Adagio, fa da sfondo alle frasi spezzate dei fiati. Il clima sempre più concitato viene inaspettatamente rotto verso la fine da un assolo del corno inglese, un lamento di tristezza cosmica che precede la coda di desolata disperazione.
Š. descrive il secondo movimento, Allegretto, semplicemente come “una Marcia con gli elementi di uno scherzo”. E’ una marcia caratterizzata al solito da elementi sarcastici e da contrasti di sonorità al punto che il tema principale viene esposto dall’intera orchestra per poi essere ricondotto nella coda al semplice timbro dell’ottavino.
L’Allegro non troppo al terzo posto si apre con una sezione agitata affidata alla viola e caratterizzata da un incessante ritmica: si tratta di una vera e propria toccata tripartita, nella quale l’episodio centrale è dominato da una melodia guerriera affidata alla tromba. Alla Toccata si contrappone la lenta Passacaglia del quarto movimento il cui tema ostinato è presentato da violoncelli, contrabbassi e fagotto e viene ripetuto per ben dodici volte, con un raggelante canto sovrapposto affidato via via a strumenti solisti differenti, tra i quali il flauto, utilizzato nell’insolito registro grave.
Se di sublimazione finale si può parlare, questa avviene nell’etereo Allegretto al quinto posto, che a una attesa festa di celebrazione contrappone atmosfere estatiche e una chiusa del tutto interrogativa e in un certo senso irrisolta.
Shostakovic - Sinfonie nn.9,10

Sinfonia n.9 in MI B. op.70
I.Allegro; II.Moderato; III.Presto; IV.Largo; V.Allegretto
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., perc., archi
Ancora una “falsa partenza” è alla base dell’ultima delle tre sinfonie di guerra di Š., la nona. All’inizio del’45 si era andata diffondendo la notizia relativa a un nuovo progetto pensato sulla falsariga della → Sinfonia n.9 di Beethoven, una grande sinfonia celebrativa della fine del conflitto con l’intervento di solisti vocali e coro. Ma l’idea viene accantonata dal musicista e nell’agosto di quell’anno Š. licenzia una nuova partitura scritta secondo premesse del tutto differenti, non eroica e giubilante, proiettata sì verso un “clima luminoso e solare” ma lontana da ciò che il regime si attendeva, ossia un inno alla figura di Stalin come salvatore della patria. Mravinskij tenne a battesimo la Nona con la “sua“ Filarmonica di San Pietroburgo il 3 novembre, dichiarando che la nuova opera era “un gioioso sospiro di sollievo, un’opera diretta contro i filistei”. Nessuna reazione negativa da parte dell’establishment ebbe luogo dopo la presentazione della sinfonia, e l’anno successivo a Š. venne anzi conferito l’Ordine di Lenin. In ritardo, ma inesorabile, arriverà nel’48 la seconda pesantissima censura da parte di Ždanov, e questa volta la condanna per “formalismo” vedrà Š. in buona compagnia (tra gli altri, i musicisti Mjaskovskij, Šebalin e persino Prokof’ev).
Di Š. vengono finalmente prese di mira tutte e tre le “sinfonie di guerra” e della Nona l’eccessiva concisione e le reminiscenze classiche (si pensi che durante il soggiorno di Š. a Ivanovo il compositore e Kabalevskij avevano avuto spesso occasione di suonare le sinfonie di Haydn nelle riduzioni a quattro mani).
Proprio il carattere neoclassico, che fa pensare al Prokof’ev della → Sinfonia n.1, si coglie nell’Allegro iniziale, che in partitura prevede persino il segno di ritornello ed è strutturato secondo le regole della forma-sonata classica. Due temi giocosamente spavaldi -- ma non siamo qui in presenza dello Š. più graffiante e sarcastico -- uno sviluppo su entrambe le idee, la ripresa e la coda sono perfettamente delineati attraverso un discorso che dura circa sei minuti.
Il Moderato al secondo posto smorza i toni e lo fa anche evitando l’apporto dell’intera orchestra. Ma è soprattutto la melodia iniziale del clarinetto a comunicare un senso infinito di nostalgia e di rimpianto.
Segue uno Scherzo indicato come Presto dove è ancora il clarinetto a presentare il motivo principale (ma con quale differenza di carattere !) e dove si ascolta più avanti un curioso tema di stampo iberico.
Il Largo successivo vede il prevalere dei tromboni e una specie di contraddittorio tra la loro frase aggressiva e un lamento di risposta del fagotto.
Ancora il fagotto è protagonista dell’incipit del finale, cui viene contrapposto un secondo tema di marcia affidato agli archi. Lo sviluppo porta a un inaspettato crescendo (Pochissimo animato), alla ripresa e a una chiusa in tempo Allegro.
Sinfonia n.10 in Mi op.93
I.Moderato; II.Allegro; III.Allegretto; IV.Andante-Allegro)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg.,, 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., arc.
5 marzo 1953 : la morte di Stalin chiude una delle pagine più oscure della storia dell'U.R.S.S. e allo stesso tempo il nuovo Presidente del Consiglio Malenkov vara una serie di riforme destinate ad avere notevoli ripercussioni sulla vita sociale e sui rapporti con i paesi esteri. La decima sinfonia, dall'architettura grandiosa e dai toni spesso trionfalistici ha in parte il significato di una ulteriore risposta alle critiche del regime, ma è più spesso riguardata come la definitiva autoaffermazione del musicista e il più alto suo raggiungimento in campo sinfonico. Completata nel 1953, la sinfonia viene eseguita per la prima volta il 17 dicembre di quell'anno a San Pietroburgo, sotto la direzione di Mravinskij e il 29 dicembre a Mosca, riportando un grande successo.
Nel 1954 la Sinfonia viene eseguita negli Stati Uniti, sotto la direzione di Mitropoulos, ricevendo un'accoglienza trionfale. In Italia, la Sinfonia riceve il suo battesimo alla Scala, ancora con Mitropoulos, nel settembre dell'anno seguente.
Il decano dei critici americani, Olin Downes, nella sua recensione del concerto tenutosi il 15 ottobre 1954 alla Carnegie Hall salutò l'esecuzione della sinfonia con queste parole : "si potrebbe dire che questa è la prima partitura sinfonica che proclama la completa indipendenza e integrazione del genio di Šostakovic". Il termine integration potrebbe a dire il vero assumere due significati del tutto differenti : unitarietà di linguaggio (e quindi supremo raggiungimento artistico) oppure integrazione ideologica nei confronti del regime? Downes intendeva sicuramente riferirsi al primo, perchè più avanti, parlando del primo movimento della sinfonia e del fatto che in esso sono contenuti in nuce "tutti i temi principali e gli sviluppi dei movementi che seguono", egli confessa che "nessun altro compositore contemporaneo oserebbe scrivere un movimento di sinfonia così sviluppato." Secondo il celebre critico, del primo movimento si nota la profonda malinconia e introspezione; del secondo - assai breve - la rapidità furiosa, il carattere battagliero (ma lo stesso Š. confesserà molti anni più tardi di avere tentato qui addirittura un ritratto della ferocia di Stalin). Il terzo ricorda certi lugubri ritmi di valzer mahleriani (e in questo movimento appare anche la citazione del motto D-S-C-H, facente capo alle note re-mi bem.-do-si, le uniche presenti nel nome del compositore secondo la traslitterazione tedesca). Il quarto e ultimo richiama alla mente di Downes il nome di Prokof’ev, per il suo carattere festoso e popolaresco, rotto solamente da un'altra citazione del motto D-S-C-H da parte della tromba solista.
Nel suo complesso la Decima rappresentò una specie di atto liberatorio da un regime opprimente che aveva costretto l'arte di Š. ad esprimersi secondo direzioni precostituite (e in questo senso il continuo ricorso al motto D-S-C-H sembra rappresentare la definitiva riappropriazione della propria identità di uomo e di musicista). E allo stesso tempo il dramma personale assume risonanze universali : "In questa composizione ho voluto dipingere le passioni e le emozioni umane", dirà l’autore. Di lì a poco verranno riabilitate le opere che avevano suscitato scandalo negli anni '30, Lady Macbeth e la quarta sinfonia, e la loro accoglienza entusiastica imporrà negli anni a venire la figura di Š. nella sua corretta prospettiva storica e culturale.
I.Allegro; II.Moderato; III.Presto; IV.Largo; V.Allegretto
Strumentazione : 3 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., perc., archi
Ancora una “falsa partenza” è alla base dell’ultima delle tre sinfonie di guerra di Š., la nona. All’inizio del’45 si era andata diffondendo la notizia relativa a un nuovo progetto pensato sulla falsariga della → Sinfonia n.9 di Beethoven, una grande sinfonia celebrativa della fine del conflitto con l’intervento di solisti vocali e coro. Ma l’idea viene accantonata dal musicista e nell’agosto di quell’anno Š. licenzia una nuova partitura scritta secondo premesse del tutto differenti, non eroica e giubilante, proiettata sì verso un “clima luminoso e solare” ma lontana da ciò che il regime si attendeva, ossia un inno alla figura di Stalin come salvatore della patria. Mravinskij tenne a battesimo la Nona con la “sua“ Filarmonica di San Pietroburgo il 3 novembre, dichiarando che la nuova opera era “un gioioso sospiro di sollievo, un’opera diretta contro i filistei”. Nessuna reazione negativa da parte dell’establishment ebbe luogo dopo la presentazione della sinfonia, e l’anno successivo a Š. venne anzi conferito l’Ordine di Lenin. In ritardo, ma inesorabile, arriverà nel’48 la seconda pesantissima censura da parte di Ždanov, e questa volta la condanna per “formalismo” vedrà Š. in buona compagnia (tra gli altri, i musicisti Mjaskovskij, Šebalin e persino Prokof’ev).
Di Š. vengono finalmente prese di mira tutte e tre le “sinfonie di guerra” e della Nona l’eccessiva concisione e le reminiscenze classiche (si pensi che durante il soggiorno di Š. a Ivanovo il compositore e Kabalevskij avevano avuto spesso occasione di suonare le sinfonie di Haydn nelle riduzioni a quattro mani).
Proprio il carattere neoclassico, che fa pensare al Prokof’ev della → Sinfonia n.1, si coglie nell’Allegro iniziale, che in partitura prevede persino il segno di ritornello ed è strutturato secondo le regole della forma-sonata classica. Due temi giocosamente spavaldi -- ma non siamo qui in presenza dello Š. più graffiante e sarcastico -- uno sviluppo su entrambe le idee, la ripresa e la coda sono perfettamente delineati attraverso un discorso che dura circa sei minuti.
Il Moderato al secondo posto smorza i toni e lo fa anche evitando l’apporto dell’intera orchestra. Ma è soprattutto la melodia iniziale del clarinetto a comunicare un senso infinito di nostalgia e di rimpianto.
Segue uno Scherzo indicato come Presto dove è ancora il clarinetto a presentare il motivo principale (ma con quale differenza di carattere !) e dove si ascolta più avanti un curioso tema di stampo iberico.
Il Largo successivo vede il prevalere dei tromboni e una specie di contraddittorio tra la loro frase aggressiva e un lamento di risposta del fagotto.
Ancora il fagotto è protagonista dell’incipit del finale, cui viene contrapposto un secondo tema di marcia affidato agli archi. Lo sviluppo porta a un inaspettato crescendo (Pochissimo animato), alla ripresa e a una chiusa in tempo Allegro.
Sinfonia n.10 in Mi op.93
I.Moderato; II.Allegro; III.Allegretto; IV.Andante-Allegro)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg.,, 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., arc.
5 marzo 1953 : la morte di Stalin chiude una delle pagine più oscure della storia dell'U.R.S.S. e allo stesso tempo il nuovo Presidente del Consiglio Malenkov vara una serie di riforme destinate ad avere notevoli ripercussioni sulla vita sociale e sui rapporti con i paesi esteri. La decima sinfonia, dall'architettura grandiosa e dai toni spesso trionfalistici ha in parte il significato di una ulteriore risposta alle critiche del regime, ma è più spesso riguardata come la definitiva autoaffermazione del musicista e il più alto suo raggiungimento in campo sinfonico. Completata nel 1953, la sinfonia viene eseguita per la prima volta il 17 dicembre di quell'anno a San Pietroburgo, sotto la direzione di Mravinskij e il 29 dicembre a Mosca, riportando un grande successo.
Nel 1954 la Sinfonia viene eseguita negli Stati Uniti, sotto la direzione di Mitropoulos, ricevendo un'accoglienza trionfale. In Italia, la Sinfonia riceve il suo battesimo alla Scala, ancora con Mitropoulos, nel settembre dell'anno seguente.
Il decano dei critici americani, Olin Downes, nella sua recensione del concerto tenutosi il 15 ottobre 1954 alla Carnegie Hall salutò l'esecuzione della sinfonia con queste parole : "si potrebbe dire che questa è la prima partitura sinfonica che proclama la completa indipendenza e integrazione del genio di Šostakovic". Il termine integration potrebbe a dire il vero assumere due significati del tutto differenti : unitarietà di linguaggio (e quindi supremo raggiungimento artistico) oppure integrazione ideologica nei confronti del regime? Downes intendeva sicuramente riferirsi al primo, perchè più avanti, parlando del primo movimento della sinfonia e del fatto che in esso sono contenuti in nuce "tutti i temi principali e gli sviluppi dei movementi che seguono", egli confessa che "nessun altro compositore contemporaneo oserebbe scrivere un movimento di sinfonia così sviluppato." Secondo il celebre critico, del primo movimento si nota la profonda malinconia e introspezione; del secondo - assai breve - la rapidità furiosa, il carattere battagliero (ma lo stesso Š. confesserà molti anni più tardi di avere tentato qui addirittura un ritratto della ferocia di Stalin). Il terzo ricorda certi lugubri ritmi di valzer mahleriani (e in questo movimento appare anche la citazione del motto D-S-C-H, facente capo alle note re-mi bem.-do-si, le uniche presenti nel nome del compositore secondo la traslitterazione tedesca). Il quarto e ultimo richiama alla mente di Downes il nome di Prokof’ev, per il suo carattere festoso e popolaresco, rotto solamente da un'altra citazione del motto D-S-C-H da parte della tromba solista.
Nel suo complesso la Decima rappresentò una specie di atto liberatorio da un regime opprimente che aveva costretto l'arte di Š. ad esprimersi secondo direzioni precostituite (e in questo senso il continuo ricorso al motto D-S-C-H sembra rappresentare la definitiva riappropriazione della propria identità di uomo e di musicista). E allo stesso tempo il dramma personale assume risonanze universali : "In questa composizione ho voluto dipingere le passioni e le emozioni umane", dirà l’autore. Di lì a poco verranno riabilitate le opere che avevano suscitato scandalo negli anni '30, Lady Macbeth e la quarta sinfonia, e la loro accoglienza entusiastica imporrà negli anni a venire la figura di Š. nella sua corretta prospettiva storica e culturale.
Shostakovic - Sinfonia n.11

Sinfonia n.11 in Sol op.103 "L'anno 1905"
I.Adagio (La piazza del Palazzo); II.Allegro-Adagio-Allegro (Il 9 Gennaio); III.Adagio (Memoria eterna); IV.Allegro non troppo-Adagio-Allegro (Tocsin – L’allarme)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., arc.
L'undicesima e la dodicesima sinfonia (1957 - 1961) sono ufficialmente dedicate alla commemorazione delle due grandi rivoluzioni del 1905 e del 1917 e vengono quindi ad assumere un significato politico e sociale che ci allontana apparentemente dall'intimismo tragico dei precedenti lavori di Š. L'Undicesima venne eseguita per la prima volta a Mosca il 30 ottobre 1957, nel quarantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre.
La domenica del 22 gennaio 1905 (il 9 gennaio secondo il calendario giuliano allora in uso in Russia) migliaia di lavoratori si erano riuniti di fronte al Palazzo d’inverno di San Pietroburgo per presentare allo Zar Nicola II una richiesta di riforme costituzionali; la manifestazione era stata preannunciata e ci si aspettava quindi che la petizione venisse esaminata senza particolari problemi. Lo Zar aveva peraltro abbandonato la città con la sua famiglia e i dimostranti – uomini, donne e bambini che recavano con sé icone religiose e intonavano l’inno imperiale - si trovarono di fronte polizia e truppe di Cosacchi che avevano ricevuto l’ordine di disperdere l’adunanza. Increduli di fronte a questa reazione e incapaci di fuggire proprio a causa dell’assembramento, i partecipanti vennero decimati dalle armi e ai sopravvissuti rimase negli occhi la terribile vista della distesa di neve macchiata di sangue. La rivoluzione del 1905, continuata attraverso numerose altre manifestazioni in Russia e nei paesi vicini come la Finlandia e la Polonia e sostanzialmente fallita nonostante le successive aperture pseudo-riformiste dello Zar, ebbe un impatto anche sul mondo musicale coinvolgendo personalità del calibro di Rimskij-Korsakov e di Glazunov, che vennero esonerati dai loro incarichi ufficiali di insegnamento.
Nell’undicesima Sinfonia, Š. non solamente ricorda, ma attualizza l’oramai remoto avvenimento storico : “Nonostante la sinfonia sia intitolata L’anno 1905, si collega a un fenomeno dei nostri giorni: è il problema del popolo che ha perduto la fede perché ha visto veramente perpetrarsi troppi crimini”. Apparve così scontato a molti commentatori il fatto che il musicista avesse visto nel disegno della sua nuova opera un preciso richiamo ai fatti d’Ungheria. E anche se altri studiosi, come Laurel Fay, hanno recentemente sottolineato come l’autore avesse modellato la sinfonia anteriormente al 1956, nulla toglie al fatto che un nuovo clima di dissenso interno e un impeto di personale riprovazione abbiano condizionato notevolmente la stesura del nuovo lavoro. Rostropovich, autorevole futuro interprete della sinfonia e molto vicino al compositore proprio in quegli anni travagliati, riassume efficacemente i contorni del problema : “si tratta di una sinfonia scritta con il sangue, un’opera tragica dall’inizio alla fine, e forse non correlata precisamente al 1905 o al 1956 ma piuttosto al costantemente tragico cammino degli eventi umani. Ogni rivoluzione, dopo tutto, è un evento drammatico.”
Come nel caso della gemella →Sinfonia n.12, l'opera sottintende un preciso programma che ne trasforma l'assetto in quello di un vero e proprio Poema Sinfonico. Il primo movimento (Adagio) è intitolato "La piazza del Palazzo" e ricorda il luogo antistante il Palazzo d'Inverno, a Pietroburgo, dove si consumò la grande tragedia. Il secondo movimento descrive puntualmente la manifestazione e la sua repressione. Il terzo è una lamentazione per le vittime. Il Finale esprime l’auspicio di una futura, radicale e vittoriosa rivolta contro l’oppressore. Caratteristica ulteriore di questa sinfonia è il largo uso di temi popolari o rivoluzionari, di autocitazioni e di ripresa di temi altrui (l’operetta Ogonki (Le scintille) di Sviridov). Le quattro parti si succedono senza soluzione di continuità e il materiale tematico utilizzato non dà assolutamente la sensazione di una successione di episodi poco integrati tra loro: al contrario questi motivi si fondono in un robusto linguaggio di stampo classico e si collocano naturalmente all’interno dell’architettura formale propria di un grande lavoro sinfonico.
Ma il clima espressivo che si respira nell’Undicesima ci riporta soprattutto all’influenza musorgskiana (“Vi è stato un momento in cui ho considerato l’undicesima come la più musorgskiana delle mie composizioni”, afferma l’autore), legando indissolubilmente il linguaggio musicale del grande predecessore ai contenuti così profondamente nazionalistici e “popolari” dei capolavori che Š. sottopone proprio in quegli anni a revisione e riorchestrazione : il Boris (1940), la Kovancina (1959) e i “Canti e danze della morte” (1962).
L'undicesima sinfonia raccolse in patria un successo entusiasmante, che si concretizzò nell'attribuzione a Š. di un Premio Lenin (1958). Nello stesso anno vengono conferite a Š. importanti onoreficenze in Francia, Inghilterra e Finlandia, culminanti nella Laurea honoris causa in Musica a Oxford.
Nel primo movimento l'atmosfera opprimente, lugubre evocata dagli archi in sordina e rotta solamente da lontani squilli di tromba, descrive con terribile realismo il clima di preparazione alla rivolta. L’immobilità della Piazza del Palazzo in un freddo giorno d’inverno viene commentata da un motivo esposto dagli archi in sordino e contribuisce a creare un clima apparentemente calmo e tranquillo, sotto il quale cova una grande tensione. Un lontano richiamo di trombe, quasi un gemito, allude al responsorio ortodosso “Dio, abbi pietà di noi” mentre altri motivi esposti dal flauto e dai contrabbassi ricalcano le due ottocentesche “canzoni dei prigionieri politici” (“Ascolta!” e “Il prigioniero”).
Il seguente vasto Allegro, intitolato al fatidico 9 gennaio, assume formalmente il ruolo di un primo tempo di sinfonia, nei confronti del quale l'Adagio rappresentava una sorta di preludio introduttivo. Si rivive ora la tragedia nella sua interezza attraverso una descrizione puntuale, a partire dai movimenti del corteo dei dimostranti, segnato da un motivo di marcia, fino alla brutale repressione delle forze zariste.
Un accompagnamento agitato degli archi introduce le due autocitazioni dai “Dieci poemi corali su testi rivoluzionari” del 1951, il coro “O Zar nostro padre”, di evidente derivazione musorgskiana, e “Scopritevi il capo”. Il clima sonoro è dapprima lieve e poi via via crescente fino al “tutti” orchestrale. Ma non si raggiunge qui ancora il vertice espressivo, il culmine della violenza sonora: dopo un breve richiamo all’atmosfera statica del primo movimento inizia una serratissima fuga il cui tema viene esposto da violoncelli e contrabbassi: descrizione di una scena terribile, di uno scontro violento che ritiene un che di barbarico con rulli di tamburi, squilli di trombe, uso efficace delle percussioni. E’ il momento in cui le guardie zariste aprono il fuoco, il momento del caos sanguinario e della dispersione della folla. La contemplazione della strage viene evocata attraverso una coda di agghiacciante desolazione, che riprende il clima dell’introduzione al primo movimento della sinfonia e che descrive di nuovo la Piazza, ora gremita di cadaveri sanguinanti. L'Adagio seguente diventa allora una marcia funebre, un requiem in commemorazione delle vittime, nel quale il titolo allude a un canto funebre della liturgia ortodossa ma dove in realtà si eleva un canto rivoluzionario (“Siete caduti vittime di un combattimento fatale”) esposto dalle viole sui pizzicati dei violoncelli e dei contrabbassi. Un successivo episodio cita nuovamente il tema di “Scopritevi il capo” richiamando il clima di atrocità del movimento precedente.
Il Finale rappresenta ovviamente il momento di riscatto ideale del popolo dal giogo zarista. Nel primo episodio in tempo di marcia, rivelatore della collera espressa dalla folla in rivolta, vengono citati due canti rivoluzionari “Arrabbiatevi, tiranni” e la Varshavyanka, quest’ultima scandita da un disegno degli archi molto ritmato e con il ricorso a quegli straordinari passaggi all’unisono che caratterizzano spesso lo sfogo linguistico del musicista.
Segue un Adagio che ci riporta al clima glaciale del primo movimento e richiama le canzoni dei prigionieri già citate in precedenza; un Allegro conclusivo che ben poco concede a una eventuale visione ottimistica del futuro ribadisce la determinazione rivoluzionaria e richiama alla mente, mediante l’utilizzo delle campane, la solennità del Boris di Musorgski.
I.Adagio (La piazza del Palazzo); II.Allegro-Adagio-Allegro (Il 9 Gennaio); III.Adagio (Memoria eterna); IV.Allegro non troppo-Adagio-Allegro (Tocsin – L’allarme)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., arc.
L'undicesima e la dodicesima sinfonia (1957 - 1961) sono ufficialmente dedicate alla commemorazione delle due grandi rivoluzioni del 1905 e del 1917 e vengono quindi ad assumere un significato politico e sociale che ci allontana apparentemente dall'intimismo tragico dei precedenti lavori di Š. L'Undicesima venne eseguita per la prima volta a Mosca il 30 ottobre 1957, nel quarantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre.
La domenica del 22 gennaio 1905 (il 9 gennaio secondo il calendario giuliano allora in uso in Russia) migliaia di lavoratori si erano riuniti di fronte al Palazzo d’inverno di San Pietroburgo per presentare allo Zar Nicola II una richiesta di riforme costituzionali; la manifestazione era stata preannunciata e ci si aspettava quindi che la petizione venisse esaminata senza particolari problemi. Lo Zar aveva peraltro abbandonato la città con la sua famiglia e i dimostranti – uomini, donne e bambini che recavano con sé icone religiose e intonavano l’inno imperiale - si trovarono di fronte polizia e truppe di Cosacchi che avevano ricevuto l’ordine di disperdere l’adunanza. Increduli di fronte a questa reazione e incapaci di fuggire proprio a causa dell’assembramento, i partecipanti vennero decimati dalle armi e ai sopravvissuti rimase negli occhi la terribile vista della distesa di neve macchiata di sangue. La rivoluzione del 1905, continuata attraverso numerose altre manifestazioni in Russia e nei paesi vicini come la Finlandia e la Polonia e sostanzialmente fallita nonostante le successive aperture pseudo-riformiste dello Zar, ebbe un impatto anche sul mondo musicale coinvolgendo personalità del calibro di Rimskij-Korsakov e di Glazunov, che vennero esonerati dai loro incarichi ufficiali di insegnamento.
Nell’undicesima Sinfonia, Š. non solamente ricorda, ma attualizza l’oramai remoto avvenimento storico : “Nonostante la sinfonia sia intitolata L’anno 1905, si collega a un fenomeno dei nostri giorni: è il problema del popolo che ha perduto la fede perché ha visto veramente perpetrarsi troppi crimini”. Apparve così scontato a molti commentatori il fatto che il musicista avesse visto nel disegno della sua nuova opera un preciso richiamo ai fatti d’Ungheria. E anche se altri studiosi, come Laurel Fay, hanno recentemente sottolineato come l’autore avesse modellato la sinfonia anteriormente al 1956, nulla toglie al fatto che un nuovo clima di dissenso interno e un impeto di personale riprovazione abbiano condizionato notevolmente la stesura del nuovo lavoro. Rostropovich, autorevole futuro interprete della sinfonia e molto vicino al compositore proprio in quegli anni travagliati, riassume efficacemente i contorni del problema : “si tratta di una sinfonia scritta con il sangue, un’opera tragica dall’inizio alla fine, e forse non correlata precisamente al 1905 o al 1956 ma piuttosto al costantemente tragico cammino degli eventi umani. Ogni rivoluzione, dopo tutto, è un evento drammatico.”
Come nel caso della gemella →Sinfonia n.12, l'opera sottintende un preciso programma che ne trasforma l'assetto in quello di un vero e proprio Poema Sinfonico. Il primo movimento (Adagio) è intitolato "La piazza del Palazzo" e ricorda il luogo antistante il Palazzo d'Inverno, a Pietroburgo, dove si consumò la grande tragedia. Il secondo movimento descrive puntualmente la manifestazione e la sua repressione. Il terzo è una lamentazione per le vittime. Il Finale esprime l’auspicio di una futura, radicale e vittoriosa rivolta contro l’oppressore. Caratteristica ulteriore di questa sinfonia è il largo uso di temi popolari o rivoluzionari, di autocitazioni e di ripresa di temi altrui (l’operetta Ogonki (Le scintille) di Sviridov). Le quattro parti si succedono senza soluzione di continuità e il materiale tematico utilizzato non dà assolutamente la sensazione di una successione di episodi poco integrati tra loro: al contrario questi motivi si fondono in un robusto linguaggio di stampo classico e si collocano naturalmente all’interno dell’architettura formale propria di un grande lavoro sinfonico.
Ma il clima espressivo che si respira nell’Undicesima ci riporta soprattutto all’influenza musorgskiana (“Vi è stato un momento in cui ho considerato l’undicesima come la più musorgskiana delle mie composizioni”, afferma l’autore), legando indissolubilmente il linguaggio musicale del grande predecessore ai contenuti così profondamente nazionalistici e “popolari” dei capolavori che Š. sottopone proprio in quegli anni a revisione e riorchestrazione : il Boris (1940), la Kovancina (1959) e i “Canti e danze della morte” (1962).
L'undicesima sinfonia raccolse in patria un successo entusiasmante, che si concretizzò nell'attribuzione a Š. di un Premio Lenin (1958). Nello stesso anno vengono conferite a Š. importanti onoreficenze in Francia, Inghilterra e Finlandia, culminanti nella Laurea honoris causa in Musica a Oxford.
Nel primo movimento l'atmosfera opprimente, lugubre evocata dagli archi in sordina e rotta solamente da lontani squilli di tromba, descrive con terribile realismo il clima di preparazione alla rivolta. L’immobilità della Piazza del Palazzo in un freddo giorno d’inverno viene commentata da un motivo esposto dagli archi in sordino e contribuisce a creare un clima apparentemente calmo e tranquillo, sotto il quale cova una grande tensione. Un lontano richiamo di trombe, quasi un gemito, allude al responsorio ortodosso “Dio, abbi pietà di noi” mentre altri motivi esposti dal flauto e dai contrabbassi ricalcano le due ottocentesche “canzoni dei prigionieri politici” (“Ascolta!” e “Il prigioniero”).
Il seguente vasto Allegro, intitolato al fatidico 9 gennaio, assume formalmente il ruolo di un primo tempo di sinfonia, nei confronti del quale l'Adagio rappresentava una sorta di preludio introduttivo. Si rivive ora la tragedia nella sua interezza attraverso una descrizione puntuale, a partire dai movimenti del corteo dei dimostranti, segnato da un motivo di marcia, fino alla brutale repressione delle forze zariste.
Un accompagnamento agitato degli archi introduce le due autocitazioni dai “Dieci poemi corali su testi rivoluzionari” del 1951, il coro “O Zar nostro padre”, di evidente derivazione musorgskiana, e “Scopritevi il capo”. Il clima sonoro è dapprima lieve e poi via via crescente fino al “tutti” orchestrale. Ma non si raggiunge qui ancora il vertice espressivo, il culmine della violenza sonora: dopo un breve richiamo all’atmosfera statica del primo movimento inizia una serratissima fuga il cui tema viene esposto da violoncelli e contrabbassi: descrizione di una scena terribile, di uno scontro violento che ritiene un che di barbarico con rulli di tamburi, squilli di trombe, uso efficace delle percussioni. E’ il momento in cui le guardie zariste aprono il fuoco, il momento del caos sanguinario e della dispersione della folla. La contemplazione della strage viene evocata attraverso una coda di agghiacciante desolazione, che riprende il clima dell’introduzione al primo movimento della sinfonia e che descrive di nuovo la Piazza, ora gremita di cadaveri sanguinanti. L'Adagio seguente diventa allora una marcia funebre, un requiem in commemorazione delle vittime, nel quale il titolo allude a un canto funebre della liturgia ortodossa ma dove in realtà si eleva un canto rivoluzionario (“Siete caduti vittime di un combattimento fatale”) esposto dalle viole sui pizzicati dei violoncelli e dei contrabbassi. Un successivo episodio cita nuovamente il tema di “Scopritevi il capo” richiamando il clima di atrocità del movimento precedente.
Il Finale rappresenta ovviamente il momento di riscatto ideale del popolo dal giogo zarista. Nel primo episodio in tempo di marcia, rivelatore della collera espressa dalla folla in rivolta, vengono citati due canti rivoluzionari “Arrabbiatevi, tiranni” e la Varshavyanka, quest’ultima scandita da un disegno degli archi molto ritmato e con il ricorso a quegli straordinari passaggi all’unisono che caratterizzano spesso lo sfogo linguistico del musicista.
Segue un Adagio che ci riporta al clima glaciale del primo movimento e richiama le canzoni dei prigionieri già citate in precedenza; un Allegro conclusivo che ben poco concede a una eventuale visione ottimistica del futuro ribadisce la determinazione rivoluzionaria e richiama alla mente, mediante l’utilizzo delle campane, la solennità del Boris di Musorgski.
Shostakovic - Sinfonia n.13

Sinfonia n.13 in SiB. op.113 “Babij Jar”
Per basso, coro di bassi e orchestra su testi di Evgenij Evtušenko
I.Adagio (Babij Jar); II.Allegretto (Umorismo); III.Adagio (nel negozio); IV.Largo (Timori); V.Allegretto (Una carriera)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., pf., arc.
Il 18 marzo del 1962 Š. viene ufficialmente eletto deputato del Soviet supremo : così si chiude apparentemente il lungo, burrascoso, deprimente conflitto tra il musicista e il governo del proprio Paese che, tra alti e bassi, durava dagli anni ‘30. Ma l’ultima occasione di dissidio con le autorità politiche dell’U.R.S.S. doveva però ancora avvenire, cosa del tutto naturale se pensiamo da un lato al tormentato carattere del compositore, dall’altro alla mole di situazioni imbarazzanti che il governo era ancora costretto a evitare e che potevano ad esempio derivare da pesanti rivelazioni sul passato regime, o da voci attuali di dissidenza.
Ecco allora che Š. sceglie per la sua nuova tredicesima sinfonia di musicare alcuni testi recenti del non ancora trentenne poeta Evgenij Evtušenko andando a riaccendere una polemica storica relativa alla posizione ufficiale del governo sovietico nei confronti degli ebrei. Se pensiamo alla retorica dei testi utilizzati da Š. nella seconda e nella terza Sinfonia, possiamo capire con quale enorme cambiamento di prospettive il musicista possa avere messo mano alla nuova composizione. La prima lirica di Evtušenko utilizzata da Š. e dalla quale la Sinfonia (inizialmente pensata come Cantata limitata a questo unico testo) prende il sottotitolo è dedicata a Babij Jar, il luogo (una grande fossa) presso Kiev dove i nazisti tra il 29 e il 30 settembre del 1941 avevano trucidato 34000 ebrei ucraini. Un luogo d’orrore ma anche un posto dove “Non c’è un segno di ricordo” come esordisce la poesia, a ricordare l’ignominioso silenzio del regime nei confronti dell’efferato delitto nazista, silenzio che perdurava ancora in un’epoca in cui le minoranze ebraiche venivano accusate di atteggiamenti ostili nei confronti del governo e alle quali veniva spesso negato il permesso di espatrio. La poesia di Evtušenko viene pubblicata il 19 settembre del 1961 e suscita subito un aspro dibattito in seguito al quale lo scrittore è sostanzialmente accusato di fomentare polemiche inutili perché i martiri di Babij Jar non appartenevano esclusivamente alla popolazione di origine ebraica.
Gli altri imbarazzanti argomenti toccati da Evtušenko nelle altre quattro liriche musicate da Š. si riferiscono alla persecuzione della satira da parte di un potere desideroso solamente di parate celebrative (“Humor”), alla lode della tipica massaia russa allineata in code eterne davanti ai negozi di alimentari (“Nel negozio”), ai timori delle denunce durante il regime staliniano (“Paure”), all’esempio di un improbabile Galileo la cui abiura viene vista come un estremo ripiego nei confronti del Potere (“Una carriera”). In quest’ultimo episodio è evidente come vengano suggeriti a chi legge (e a chi ascolta) i veri motivi della rinuncia dello scienziato, che acconsente a negare le proprie scoperte solamente allo scopo di poter proseguire le proprie ricerche. Ed è altrettanto evidente come Š. si identifichi con il grande italiano, proprio lui che per tutta la vita era stato costretto a continui accomodamenti con il regime pur di poter portare avanti la propria missione di musicista. La versione pianistica della partitura è completata da Š. il 27 marzo del 1962, la versione orchestrale il 21 aprile. Ufficialmente il testo verrà reso disponibile nelle librerie soltanto all’inizio degli anni ’70. Le reazioni dell’establishment non si fecero attendere e condizionarono sia la cerimonia ufficiale della prima esecuzione del lavoro che, indirettamente, la presenza degli interpreti scelti in un primo tempo da Š. Il più importante tra questi era sicuramente il direttore Evgenij Mravinskij, protagonista storico di importanti “prime” di lavori di Š. fin dai tempi della quinta sinfonia. Pare che Mravinskij non avesse avuto il coraggio né di associare il proprio nome a quello di Evtušenko, né di confessare apertamente il proprio rifiuto a Š. e che la sua versione ufficiale del diniego venisse comunicata al musicista dalla moglie di Mravinskij stesso, ex funzionaria di partito, prendendo come pretesto il fatto che il marito non amava dirigere musica che prevedesse l’intervento delle voci. La questione del direttore venne risolta con l’accettazione dell’incarico da parte del talentuoso Kiril Kondrašin. La prima esecuzione della Sinfonia avviene dunque a Mosca, nella Sala grande del Conservatorio, il 18 dicembre 1962, con il vuoto nei posti assegnati alle autorità, la mancanza di una prevista ripresa televisiva, la appena accennata notizia dell’avvenimento riportata sulla Pravda del giorno seguente. Ma la reazione del pubblico fu estremamente positiva e sia il compositore che il poeta vennero chiamati alla ribalta, commossi. Il compositore Aram Khachaturian ebbe a dire : “Qui non vi è ombra di esagerazione, si tratta di una grande composizione creata da un grande artista”. Ma il maggiore complimento a Š. fu indirizzato proprio da Evtušenko : secondo il poeta tutto si era svolto come se lui stesso – completamente ignorante di musica – avesse scritto il commento sonoro alle proprie liriche, delle quali Š. aveva compreso ogni significato più recondito. L’occidente, che aveva poco prima reagito condannando gli eccessi propagandistici della dodicesima Sinfonia, presentata al Festival di Edinburgo nel 1962, si ricredette nuovamente e lodò la coraggiosa presa di posizione del musicista nei confronti del potere.
La tinta generale della Sinfonia è piuttosto scura, ovvia considerazione visto il timbro del solista vocale e del coro, che oltretutto si muove entro le linee monodiche di una musicalità tutta russa, dagli austeri contorni. Anche la tonalità d’impianto di Sib suggerisce un carattere particolarmente lugubre dell’insieme.
Il primo movimento (Adagio) dal quale la Sinfonia prende il nome è il più vasto e accompagna con episodi alterni il testo di Evtušenko, che tra le altre cose evoca il famoso “caso Dreyfus”, l’antico Egitto, la morte di Anna Frank. Segue una sorta di Scherzo intitolato Humor (Allegretto) la cui idea principale, melodicamente ascendente, è tratta da una delle “6 Canzoni su liriche di poeti inglesi” dello stesso Š. Il movimento lento (Adagio) è un commovente omaggio alle virtù della tipica donna russa, anch’essa schiacciata dal potere, mentre il successivo Largo evoca il lugubre regime persecutorio staliniano (questa è l’unica lirica delle cinque scritta espressamente da Evtušenko su richiesta del compositore). “Una carriera” (Allegretto) sottintende attraverso una scrittura timbricamente preziosa (le sezioni per quartetto d’archi, le voci dell’arpa e della celesta, una coppia di flauti) la profondità dei significati e il carattere estremamente autobiografico della pagina.
Per basso, coro di bassi e orchestra su testi di Evgenij Evtušenko
I.Adagio (Babij Jar); II.Allegretto (Umorismo); III.Adagio (nel negozio); IV.Largo (Timori); V.Allegretto (Una carriera)
Strumentazione : 3 fl., 3 ob., 3 cl., 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., perc., cel., 2 ar., pf., arc.
Il 18 marzo del 1962 Š. viene ufficialmente eletto deputato del Soviet supremo : così si chiude apparentemente il lungo, burrascoso, deprimente conflitto tra il musicista e il governo del proprio Paese che, tra alti e bassi, durava dagli anni ‘30. Ma l’ultima occasione di dissidio con le autorità politiche dell’U.R.S.S. doveva però ancora avvenire, cosa del tutto naturale se pensiamo da un lato al tormentato carattere del compositore, dall’altro alla mole di situazioni imbarazzanti che il governo era ancora costretto a evitare e che potevano ad esempio derivare da pesanti rivelazioni sul passato regime, o da voci attuali di dissidenza.
Ecco allora che Š. sceglie per la sua nuova tredicesima sinfonia di musicare alcuni testi recenti del non ancora trentenne poeta Evgenij Evtušenko andando a riaccendere una polemica storica relativa alla posizione ufficiale del governo sovietico nei confronti degli ebrei. Se pensiamo alla retorica dei testi utilizzati da Š. nella seconda e nella terza Sinfonia, possiamo capire con quale enorme cambiamento di prospettive il musicista possa avere messo mano alla nuova composizione. La prima lirica di Evtušenko utilizzata da Š. e dalla quale la Sinfonia (inizialmente pensata come Cantata limitata a questo unico testo) prende il sottotitolo è dedicata a Babij Jar, il luogo (una grande fossa) presso Kiev dove i nazisti tra il 29 e il 30 settembre del 1941 avevano trucidato 34000 ebrei ucraini. Un luogo d’orrore ma anche un posto dove “Non c’è un segno di ricordo” come esordisce la poesia, a ricordare l’ignominioso silenzio del regime nei confronti dell’efferato delitto nazista, silenzio che perdurava ancora in un’epoca in cui le minoranze ebraiche venivano accusate di atteggiamenti ostili nei confronti del governo e alle quali veniva spesso negato il permesso di espatrio. La poesia di Evtušenko viene pubblicata il 19 settembre del 1961 e suscita subito un aspro dibattito in seguito al quale lo scrittore è sostanzialmente accusato di fomentare polemiche inutili perché i martiri di Babij Jar non appartenevano esclusivamente alla popolazione di origine ebraica.
Gli altri imbarazzanti argomenti toccati da Evtušenko nelle altre quattro liriche musicate da Š. si riferiscono alla persecuzione della satira da parte di un potere desideroso solamente di parate celebrative (“Humor”), alla lode della tipica massaia russa allineata in code eterne davanti ai negozi di alimentari (“Nel negozio”), ai timori delle denunce durante il regime staliniano (“Paure”), all’esempio di un improbabile Galileo la cui abiura viene vista come un estremo ripiego nei confronti del Potere (“Una carriera”). In quest’ultimo episodio è evidente come vengano suggeriti a chi legge (e a chi ascolta) i veri motivi della rinuncia dello scienziato, che acconsente a negare le proprie scoperte solamente allo scopo di poter proseguire le proprie ricerche. Ed è altrettanto evidente come Š. si identifichi con il grande italiano, proprio lui che per tutta la vita era stato costretto a continui accomodamenti con il regime pur di poter portare avanti la propria missione di musicista. La versione pianistica della partitura è completata da Š. il 27 marzo del 1962, la versione orchestrale il 21 aprile. Ufficialmente il testo verrà reso disponibile nelle librerie soltanto all’inizio degli anni ’70. Le reazioni dell’establishment non si fecero attendere e condizionarono sia la cerimonia ufficiale della prima esecuzione del lavoro che, indirettamente, la presenza degli interpreti scelti in un primo tempo da Š. Il più importante tra questi era sicuramente il direttore Evgenij Mravinskij, protagonista storico di importanti “prime” di lavori di Š. fin dai tempi della quinta sinfonia. Pare che Mravinskij non avesse avuto il coraggio né di associare il proprio nome a quello di Evtušenko, né di confessare apertamente il proprio rifiuto a Š. e che la sua versione ufficiale del diniego venisse comunicata al musicista dalla moglie di Mravinskij stesso, ex funzionaria di partito, prendendo come pretesto il fatto che il marito non amava dirigere musica che prevedesse l’intervento delle voci. La questione del direttore venne risolta con l’accettazione dell’incarico da parte del talentuoso Kiril Kondrašin. La prima esecuzione della Sinfonia avviene dunque a Mosca, nella Sala grande del Conservatorio, il 18 dicembre 1962, con il vuoto nei posti assegnati alle autorità, la mancanza di una prevista ripresa televisiva, la appena accennata notizia dell’avvenimento riportata sulla Pravda del giorno seguente. Ma la reazione del pubblico fu estremamente positiva e sia il compositore che il poeta vennero chiamati alla ribalta, commossi. Il compositore Aram Khachaturian ebbe a dire : “Qui non vi è ombra di esagerazione, si tratta di una grande composizione creata da un grande artista”. Ma il maggiore complimento a Š. fu indirizzato proprio da Evtušenko : secondo il poeta tutto si era svolto come se lui stesso – completamente ignorante di musica – avesse scritto il commento sonoro alle proprie liriche, delle quali Š. aveva compreso ogni significato più recondito. L’occidente, che aveva poco prima reagito condannando gli eccessi propagandistici della dodicesima Sinfonia, presentata al Festival di Edinburgo nel 1962, si ricredette nuovamente e lodò la coraggiosa presa di posizione del musicista nei confronti del potere.
La tinta generale della Sinfonia è piuttosto scura, ovvia considerazione visto il timbro del solista vocale e del coro, che oltretutto si muove entro le linee monodiche di una musicalità tutta russa, dagli austeri contorni. Anche la tonalità d’impianto di Sib suggerisce un carattere particolarmente lugubre dell’insieme.
Il primo movimento (Adagio) dal quale la Sinfonia prende il nome è il più vasto e accompagna con episodi alterni il testo di Evtušenko, che tra le altre cose evoca il famoso “caso Dreyfus”, l’antico Egitto, la morte di Anna Frank. Segue una sorta di Scherzo intitolato Humor (Allegretto) la cui idea principale, melodicamente ascendente, è tratta da una delle “6 Canzoni su liriche di poeti inglesi” dello stesso Š. Il movimento lento (Adagio) è un commovente omaggio alle virtù della tipica donna russa, anch’essa schiacciata dal potere, mentre il successivo Largo evoca il lugubre regime persecutorio staliniano (questa è l’unica lirica delle cinque scritta espressamente da Evtušenko su richiesta del compositore). “Una carriera” (Allegretto) sottintende attraverso una scrittura timbricamente preziosa (le sezioni per quartetto d’archi, le voci dell’arpa e della celesta, una coppia di flauti) la profondità dei significati e il carattere estremamente autobiografico della pagina.
Memories - Mirella Freni

Tra i direttori d'orchestra che hanno avuto la fortuna di
collaborare con Mirella Freni, Giuseppe Sinopoli ha felicemente
sintetizzato le caratteristiche di una figura d'interprete cos affascinante e
complessa con l'appellativo di "cantante storica che lascia su
ogni cosa che fa una impronta profonda con la quale dovranno confrontarsi i
futuri cantanti". E davvero la figura del soprano modenese ,che oggi si
puà già riguardare secondo una prospettiva storica, ha avuto una importanza
incalcolabile nella definizione vocale e drammatica di alcuni ruoli chiave del
melodramma.
Mirella Freni nasce a Modena il 27 febbraio 1935, segue regolari studi al Conservatorio di Bologna perfezionandosi successivamente a Mantova con il maestro Campogalliani e debutta a Modena come Micaela nel 1955, in un ruolo che ricoprirà molte altre volte nel corso della carriera. Due anni più tardi si aggiudica il primo premio al Concorso Viotti di Vercelli, riconoscimento che le permette di programmare di partecipare a sempre nuovi progetti in Italia (è Antonia nei Racconti di Hoffmann al San Carlo nella stagione 1959-60) e all'estero, dove si segnala a Glyndebourne (1960) come Zerlina e al Covent Garden (1961) come Nannetta nel Falstaff diretto da Giulini. La tipologia vocale della cantante venticinquenne è chiaramente impostata sul versante lirico leggero e i ruoli da lei affrontati in quegli anni non fanno altro che confermare quella tendenza naturale. Ma Celletti già nel 1965, dopo il debutto del soprano nel ruolo di Mimì, notava come "da Liù a Mimì il passo è relativamente breve, e la Freni ha saputo compierlo col pieno consenso della critica e del pubblico, sfoggiando un canto di esemplare fluidità e infondendo nei due personaggi, anche scenicamente, una gentilezza e un'affettuosità tipicamente pucciniane." Si intravedeva quindi una evoluzione vocale e scenica che porterà di lì a breve la Freni a incarnare alcuni personaggi tipici da soprano lirico drammatico come Desdemona ed Elisabetta. Questa transizione non avviene senza un clamoroso punto di rottura rappresentato dalla famosa serata del 17 dicembre 1964, quando la cantante si presentò di fronte al pubblico milanese del dopo-Callas con una Traviata diretta da Karajan. "Azzardato - e tale da legittimare qualche reazione negativa di una parte degli spettatori - è invece parso il suo tentativo di incarnare Violetta alla Scala, senza precedenti esperienze del personaggio in teatri minori e per giunta con un'organizzazione vocale che nella zona sopracuta appare meno salda e agguerrita che altrove." Ancora le parole di Celletti sembrano ridimensionare il versante scandalistico della serata, senza tuttavia risparmiare una puntualizazione di tipo squisitamente tecnico che non era poi lontana dalla realtà. La stessa Freni, ricordando la propria esperienza scaligera, ne sottolinea l'aspetto tutto sommato positivo per la sua carriera: proprio in seguito a un episodio che per altri artisti sarebbe sembrato difficilmente superabile, ella riuscì ad impostare con determinazione un nuovo e più cosciente metodo di studio diretto al raggiungimento di "una tecnica più solida e soprattutto più consapevole".
Lo stesso ruolo di Violetta ne uscì rafforzato e il ricordo dell'incidente scaligero venne cancellato da una successiva ripresa di Traviata al Covent Garden (maggio 1967) con Giulini e la regia di Visconti.
La fine degli anni '60 ci rivela una Freni al massimo delle proprie possibilità vocali, con le recite acclamatissime de I Puritani (con Muti), del Faust, della Manon di Massenet e della Figlia del reggimento. Il decennio successivo si svolge all'insegna del consolidamento dei ruoli più amati e soprattutto allo studio di nuovi personaggi destinati ad accrescere ancora di più il prestigio della cantante. Le recite salisburghesi di Otello e Don Carlos, dove il lavoro di approfondimento psicologico e vocale delle figure di Desdemona e di Elisabetta è portato avanti sotto la guida impareggiabile di Karajan, rivelano due interpretazioni davvero ideali che spianano la strada alle successive affermazioni dei medesimi ruoli con Kleiber (Otello nella prestigiosissima edizione a fianco di Domingo, protagonista anche di una indimenticabile apertura di stagione alla Scala, nel '76) e con Abbado. Proprio a Claudio Abbado e alla Scala sono poi legati l'altro insuperabile raggiungimento della Freni come Amelia nel Simon Boccanegra e alcune emozionanti interpretazioni del Requiem verdiano, poi ripreso più volte a Salisburgo con Karajan.
Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 si assiste al trionfo della Freni come Aida, all'interno di un cast prestigiosissimo diretto ancora da Karajan. In questo ruolo la cantante modenese riuscì davvero a comunicare una verità di accenti quale mai si era ascoltata prima d'allora, suscitando l'unanime consenso della critica e del pubblico. La splendida maturità della Freni si celebra anche attraverso lo spostamento dei ruoli in opere che l'avevano vista già trionfatrice anni addietro: la frizzante Nannetta dei tempi del Covent Garden diviene una maliziosa e affascinante Alice nel Falstaff diretto da Maazel alla Scala per l'inaugurazione della stagione 1980-81, con la regia di Strehler. Meno felice, alcuni anni prima, era stata invece l'incursione nel ruolo mozartiano della Contessa in una discussa lettura delle Nozze di Figaro da parte di Abbado, proprio nello stesso momento in cui la Freni ripeteva il successo della propria Susanna a Salisburgo, con Karajan.
Dopo Karajan, Kleiber e Abbado, è un'altra figura carismatica di direttore, quella di Riccardo Muti, a riaccendere l'interesse della cantante verso l'acquisizione di nuovi ruoli : la Freni si presenta al pubblico milanese, che non le risparmierà qualche critica, come Elvira in Ernani (1982) e prende poi parte all'incisione de La forza del destino.
Più recentemente, tre sono i filoni che hanno ulteriormente impegnato la Freni nella propria continua ricerca di ruoli adatti a un particolare lavoro di approfondimento psicologico: lo studio esclusivamente discografico delle pucciniane Butterfly e Manon (con Sinopoli), l'approccio, guidato da Ghiaurov, all'opera ciaikowskiana (con una mirabile Tatiana scaligera , nell'86, e infine con la Lisa della Dama di Picche nel '90) e l'approdo al verismo di Adriana Lecouvreur, opera quest'ultima dove tutte le doti drammaturgiche e vocali della cantante sembrano aver trovato un ideale punto di convergenza.
Mirella Freni nasce a Modena il 27 febbraio 1935, segue regolari studi al Conservatorio di Bologna perfezionandosi successivamente a Mantova con il maestro Campogalliani e debutta a Modena come Micaela nel 1955, in un ruolo che ricoprirà molte altre volte nel corso della carriera. Due anni più tardi si aggiudica il primo premio al Concorso Viotti di Vercelli, riconoscimento che le permette di programmare di partecipare a sempre nuovi progetti in Italia (è Antonia nei Racconti di Hoffmann al San Carlo nella stagione 1959-60) e all'estero, dove si segnala a Glyndebourne (1960) come Zerlina e al Covent Garden (1961) come Nannetta nel Falstaff diretto da Giulini. La tipologia vocale della cantante venticinquenne è chiaramente impostata sul versante lirico leggero e i ruoli da lei affrontati in quegli anni non fanno altro che confermare quella tendenza naturale. Ma Celletti già nel 1965, dopo il debutto del soprano nel ruolo di Mimì, notava come "da Liù a Mimì il passo è relativamente breve, e la Freni ha saputo compierlo col pieno consenso della critica e del pubblico, sfoggiando un canto di esemplare fluidità e infondendo nei due personaggi, anche scenicamente, una gentilezza e un'affettuosità tipicamente pucciniane." Si intravedeva quindi una evoluzione vocale e scenica che porterà di lì a breve la Freni a incarnare alcuni personaggi tipici da soprano lirico drammatico come Desdemona ed Elisabetta. Questa transizione non avviene senza un clamoroso punto di rottura rappresentato dalla famosa serata del 17 dicembre 1964, quando la cantante si presentò di fronte al pubblico milanese del dopo-Callas con una Traviata diretta da Karajan. "Azzardato - e tale da legittimare qualche reazione negativa di una parte degli spettatori - è invece parso il suo tentativo di incarnare Violetta alla Scala, senza precedenti esperienze del personaggio in teatri minori e per giunta con un'organizzazione vocale che nella zona sopracuta appare meno salda e agguerrita che altrove." Ancora le parole di Celletti sembrano ridimensionare il versante scandalistico della serata, senza tuttavia risparmiare una puntualizazione di tipo squisitamente tecnico che non era poi lontana dalla realtà. La stessa Freni, ricordando la propria esperienza scaligera, ne sottolinea l'aspetto tutto sommato positivo per la sua carriera: proprio in seguito a un episodio che per altri artisti sarebbe sembrato difficilmente superabile, ella riuscì ad impostare con determinazione un nuovo e più cosciente metodo di studio diretto al raggiungimento di "una tecnica più solida e soprattutto più consapevole".
Lo stesso ruolo di Violetta ne uscì rafforzato e il ricordo dell'incidente scaligero venne cancellato da una successiva ripresa di Traviata al Covent Garden (maggio 1967) con Giulini e la regia di Visconti.
La fine degli anni '60 ci rivela una Freni al massimo delle proprie possibilità vocali, con le recite acclamatissime de I Puritani (con Muti), del Faust, della Manon di Massenet e della Figlia del reggimento. Il decennio successivo si svolge all'insegna del consolidamento dei ruoli più amati e soprattutto allo studio di nuovi personaggi destinati ad accrescere ancora di più il prestigio della cantante. Le recite salisburghesi di Otello e Don Carlos, dove il lavoro di approfondimento psicologico e vocale delle figure di Desdemona e di Elisabetta è portato avanti sotto la guida impareggiabile di Karajan, rivelano due interpretazioni davvero ideali che spianano la strada alle successive affermazioni dei medesimi ruoli con Kleiber (Otello nella prestigiosissima edizione a fianco di Domingo, protagonista anche di una indimenticabile apertura di stagione alla Scala, nel '76) e con Abbado. Proprio a Claudio Abbado e alla Scala sono poi legati l'altro insuperabile raggiungimento della Freni come Amelia nel Simon Boccanegra e alcune emozionanti interpretazioni del Requiem verdiano, poi ripreso più volte a Salisburgo con Karajan.
Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 si assiste al trionfo della Freni come Aida, all'interno di un cast prestigiosissimo diretto ancora da Karajan. In questo ruolo la cantante modenese riuscì davvero a comunicare una verità di accenti quale mai si era ascoltata prima d'allora, suscitando l'unanime consenso della critica e del pubblico. La splendida maturità della Freni si celebra anche attraverso lo spostamento dei ruoli in opere che l'avevano vista già trionfatrice anni addietro: la frizzante Nannetta dei tempi del Covent Garden diviene una maliziosa e affascinante Alice nel Falstaff diretto da Maazel alla Scala per l'inaugurazione della stagione 1980-81, con la regia di Strehler. Meno felice, alcuni anni prima, era stata invece l'incursione nel ruolo mozartiano della Contessa in una discussa lettura delle Nozze di Figaro da parte di Abbado, proprio nello stesso momento in cui la Freni ripeteva il successo della propria Susanna a Salisburgo, con Karajan.
Dopo Karajan, Kleiber e Abbado, è un'altra figura carismatica di direttore, quella di Riccardo Muti, a riaccendere l'interesse della cantante verso l'acquisizione di nuovi ruoli : la Freni si presenta al pubblico milanese, che non le risparmierà qualche critica, come Elvira in Ernani (1982) e prende poi parte all'incisione de La forza del destino.
Più recentemente, tre sono i filoni che hanno ulteriormente impegnato la Freni nella propria continua ricerca di ruoli adatti a un particolare lavoro di approfondimento psicologico: lo studio esclusivamente discografico delle pucciniane Butterfly e Manon (con Sinopoli), l'approccio, guidato da Ghiaurov, all'opera ciaikowskiana (con una mirabile Tatiana scaligera , nell'86, e infine con la Lisa della Dama di Picche nel '90) e l'approdo al verismo di Adriana Lecouvreur, opera quest'ultima dove tutte le doti drammaturgiche e vocali della cantante sembrano aver trovato un ideale punto di convergenza.
Memories - Leontyne Price

Vi è qualcosa, nel riconsiderare a distanza di anni la
figura di Leontyne Price, che ricorda non solo per certe somiglianze esteriori
la cantante di colore che oggi riveste un ruolo di riferimento tra gli
appassionati della Lirica. Per qualità vocali, professionalità,cura estrema per
la dizione, la Price ha in un certo senso precorso negli anni la carriera di una
Jessye Norman, soprano che per altri versi (soprattutto il timbro davvero
ineguagliabile) è assai distante dalla collega. Tuttavia il fenomeno Price è
destinato ad essere confinato all'interno di un periodo e di un repertorio più
ristretti e si può dire che la memoria delle sue apparizioni è essenzialmente
legata ad alcune fortunate incisioni discografiche e ai non numerosi reperti
registrati dal vivo, questi ultimi tutti di grande qualità.
Nata a Laurel, nel Missouri, nel febbraio del 1927, Leontyne Price si diplomò piuttosto avanti negli anni (1952) alla Juilliard di New York, dove aveva studiato con Florence Kimbahlo. La prima apparizione pubblica importante avvenne durante la tournée europea di Porgy and Bess (1952-54), alla quale seguì un personale successo alla prima esecuzione americana dei Dialogues des Carmelites di Poulenc a San Francisco (1957). Sempre nella città californiana Aida divenne ben presto il "suo" personaggio, tramite il quale conquistò tra l'altro anche la stima e l'ammirazione di un Karajan. Il grande direttore austriaco diventa allora il principale sostenitore della Price in campo internazionale e assicura alla cantante anche una fortunata carriera discografica che accompagna i crescenti successi ottenuti alla Staatsoper di Vienna, al Covent Garden, al Met e ovviamente alla Scala, dove la Price è una applauditissima Aida nell'aprile del 1960, veste i panni di Butterfly l'anno successivo, è Donna Anna nel '63 sotto la direzione di Scherchen, canta a più riprese nel Requiem verdiano con Karajan nel (1963,1964,1967) ed è infine Amelia nel Ballo in maschera (1968).
A Salisburgo la Price canta nel Don Giovanni come Donna Anna sempre guidata da Karajan ("un'artista che si identifica completamente con la sua parte" scrive un critico inglese),ma sarà anche Donna Elvira e poi Pamina nel Flauto magico. Al Met la Price predilige i ruoli classici dell'opera verdiana e pucciniana: il debutto nel 1961 come Leonora nel Trovatore e il ruolo di Minnie ne La fanciulla del West le assicurano una presenza costante nel maggior teatro americano.
Il lascito discografico "ufficiale" della Price è praticamente limitato ai nomi di Verdi e Puccini. Nel primo caso si ricorda innanzitutto un'Aida diretta da Solti (1961) associabile a una successiva ripresa dal vivo con Matacic (1963) da Vienna; in entrambe le incisioni la Price sfoggia "una vocalità vibrante e passionale,ma anche languida e tenera" (Celletti). In una seconda incisione ufficiale dell'opera nel 1970 con Leinsdorf si ritrova solamente a sprazzi la magìa del canto che aveva contraddistinto le performance della decade precedente. Due recite riprese dal Metropolitan (1962 e 1965,entrambe con Schippers) e una incisione ufficiale del 1967 con lo stesso direttore documentano a sufficienza l'Elvira della Price, quasi perfetta nelle edizioni "live", in difficoltà nell'agilità per quanto riguarda l'incisione in studio. Si tratta in ogni caso di performance di altissimo valore (soprattutto quella del 1962) anche grazie alla focosa direzione di Schippers. Per la prima delle due Leonore verdiane affrontate dalla Price esiste un duplice documento della Forza del destino (1964 con Schippers, 1976 con Levine). Vale qui ciò che si è detto a proposito di Ernani per quanto riguarda la direzione di Schippers; la Price gli si affianca con "una delle migliori Leonore della storia del disco" (il giudizio è sempre del Celletti,che lo ripete sostanzialmente immutato anche a proposito dell'Amelia della Price nel Ballo in maschera diretto da Leinsdorf nel '66). La migliore edizione del Trovatore rimane sicuramente quella live da Salisburgo con Karajan (1962), edizione che supera quella posteriore di sette anni con Mehta e che rivela ancora una volta la pura bellezza timbrica e l'intelligente interpretazione di una cantante che attraversava in quegli anni un vero e proprio stato di grazia. Sempre a quell'epoca appartiene la registrazione in studio di Tosca con Karajan, dove la caratteristica che esprime al meglio la vocalità della Price (lo ripetono tutti i commentatori) è la sensualità estrema. Sensualità che ritroviamo intatta in una celebre incisione della Carmen sempre con Karajan (1963) e che ritroveremmo anche nella Butterfly di un anno precedente se l'apporto della Price non fosse sostanzialmente vanificato da una concertazione piatta e uniforme da parte di Leinsdorf. Un Arianna straussiana del 1978, infine, chiude non troppo positivamente (a causa del progressivo affievolimento delle doti naturali del soprano americano) una carriera discografica del tutto speciale. Viene qui ancora spontaneo ricordare la contemporanea ascesa internazionale della Norman, che proprio con lo stesso ruolo segnerà dieci anni dopo una delle sue più belle e convincenti proposte.
Nata a Laurel, nel Missouri, nel febbraio del 1927, Leontyne Price si diplomò piuttosto avanti negli anni (1952) alla Juilliard di New York, dove aveva studiato con Florence Kimbahlo. La prima apparizione pubblica importante avvenne durante la tournée europea di Porgy and Bess (1952-54), alla quale seguì un personale successo alla prima esecuzione americana dei Dialogues des Carmelites di Poulenc a San Francisco (1957). Sempre nella città californiana Aida divenne ben presto il "suo" personaggio, tramite il quale conquistò tra l'altro anche la stima e l'ammirazione di un Karajan. Il grande direttore austriaco diventa allora il principale sostenitore della Price in campo internazionale e assicura alla cantante anche una fortunata carriera discografica che accompagna i crescenti successi ottenuti alla Staatsoper di Vienna, al Covent Garden, al Met e ovviamente alla Scala, dove la Price è una applauditissima Aida nell'aprile del 1960, veste i panni di Butterfly l'anno successivo, è Donna Anna nel '63 sotto la direzione di Scherchen, canta a più riprese nel Requiem verdiano con Karajan nel (1963,1964,1967) ed è infine Amelia nel Ballo in maschera (1968).
A Salisburgo la Price canta nel Don Giovanni come Donna Anna sempre guidata da Karajan ("un'artista che si identifica completamente con la sua parte" scrive un critico inglese),ma sarà anche Donna Elvira e poi Pamina nel Flauto magico. Al Met la Price predilige i ruoli classici dell'opera verdiana e pucciniana: il debutto nel 1961 come Leonora nel Trovatore e il ruolo di Minnie ne La fanciulla del West le assicurano una presenza costante nel maggior teatro americano.
Il lascito discografico "ufficiale" della Price è praticamente limitato ai nomi di Verdi e Puccini. Nel primo caso si ricorda innanzitutto un'Aida diretta da Solti (1961) associabile a una successiva ripresa dal vivo con Matacic (1963) da Vienna; in entrambe le incisioni la Price sfoggia "una vocalità vibrante e passionale,ma anche languida e tenera" (Celletti). In una seconda incisione ufficiale dell'opera nel 1970 con Leinsdorf si ritrova solamente a sprazzi la magìa del canto che aveva contraddistinto le performance della decade precedente. Due recite riprese dal Metropolitan (1962 e 1965,entrambe con Schippers) e una incisione ufficiale del 1967 con lo stesso direttore documentano a sufficienza l'Elvira della Price, quasi perfetta nelle edizioni "live", in difficoltà nell'agilità per quanto riguarda l'incisione in studio. Si tratta in ogni caso di performance di altissimo valore (soprattutto quella del 1962) anche grazie alla focosa direzione di Schippers. Per la prima delle due Leonore verdiane affrontate dalla Price esiste un duplice documento della Forza del destino (1964 con Schippers, 1976 con Levine). Vale qui ciò che si è detto a proposito di Ernani per quanto riguarda la direzione di Schippers; la Price gli si affianca con "una delle migliori Leonore della storia del disco" (il giudizio è sempre del Celletti,che lo ripete sostanzialmente immutato anche a proposito dell'Amelia della Price nel Ballo in maschera diretto da Leinsdorf nel '66). La migliore edizione del Trovatore rimane sicuramente quella live da Salisburgo con Karajan (1962), edizione che supera quella posteriore di sette anni con Mehta e che rivela ancora una volta la pura bellezza timbrica e l'intelligente interpretazione di una cantante che attraversava in quegli anni un vero e proprio stato di grazia. Sempre a quell'epoca appartiene la registrazione in studio di Tosca con Karajan, dove la caratteristica che esprime al meglio la vocalità della Price (lo ripetono tutti i commentatori) è la sensualità estrema. Sensualità che ritroviamo intatta in una celebre incisione della Carmen sempre con Karajan (1963) e che ritroveremmo anche nella Butterfly di un anno precedente se l'apporto della Price non fosse sostanzialmente vanificato da una concertazione piatta e uniforme da parte di Leinsdorf. Un Arianna straussiana del 1978, infine, chiude non troppo positivamente (a causa del progressivo affievolimento delle doti naturali del soprano americano) una carriera discografica del tutto speciale. Viene qui ancora spontaneo ricordare la contemporanea ascesa internazionale della Norman, che proprio con lo stesso ruolo segnerà dieci anni dopo una delle sue più belle e convincenti proposte.
Memories - Ettore Bastianini

La fama di baritono verdiano che ha accompagnato la non
lunga carriera di Ettore Bastianini - il cantante morì a Sirmione di un cancro
alla gola a soli quarantacinque anni - non deve far dimenticare che le origini
vocali di questo grande interprete furono portarono in realtà a debuttare come
basso a Ravenna nel 1945 nel ruolo di Colline. Fu l'insegnante di Bastianini, R.Bettarini,
a insistere nel senso di una modifica dell'impostazione verso il registro di
baritono, e proprio come baritono Bastianini iniziò ad imporsi sulle scene come
Germont (a Bologna,nel 1951), un ruolo che lo vedrà di lì a poco tra i
protagonisti delle memorabili recite scaligere a fianco della Callas, di Di
Stefano e di Giulini. La sua voce dal timbro scuro era certamente più adatta ad
interpretare certi ruoli ciaikowskiani come Onegin (il ruolo nel quale debuttò
alla Scala nella stagione 1953-54) o Mazeppa (a Firenze, nel 1954) piuttosto
che a cercare una corrispondenza con certi personaggi pucciniani o del teatro
verista,così come in quegli anni aveva fatto Tito Gobbi cogliendo enormi
successi di pubblico. L'indole di Bastianini era più adatta alla gravità di
certe figure verdiane, e proprio nel grande repertorio del musicista di Busseto
Bastianini colse lusinghieri successi principalmente alla Scala e al
Metropolitan (dal '53 al '57) con Un ballo in maschera, Trovatore, Nabucco, Ernani.
Famose e immortalati dalla discografia live rimangono inoltre le recite di Don
Carlos a Salisburgo (1960, a
fianco di Christoff e della Jurinac) e della Forza del destino a Vienna (1960, con
Mitropoulos e la Simionato) e in una edizione radiofonica romana (1955, con
Tebaldi, Del Monaco e la insostituibile Simionato). Il repertorio relativamente
poco esteso di Bastianini è completato dalla partecipazione a uno dei primi
recuperi del Donizetti praticamente ignoto (la recita scaligera del Poliuto a
fianco della Callas e di Corelli per l'apertura della stagione 1960-61), e alla
felice incarnazione di due ruoli affatto diversi nella Favorita e nell'Andrea
Chenier, opera quest'ultima che smentì clamorosamente l'avversione di
Bastianini verso il teatro verista.
Le incisioni discografiche in studio del baritono senese tracciano forse un quadro più completo (in quanto a repertorio) ma non più convincente (come risultati globali) rispetto a quelle dal vivo. Bastianini partecipò come Amonasro a una remota produzione di Aida del 1954, impersonò Figaro nel Barbiere del 1956 (in una edizione peraltro criticatissima dal Celletti), fu Rodolfo nella raramente eseguita Bohéme di Leoncavallo, Marcello in quella di Puccini, Alfio in Cavalleria, Barnaba nella Gioconda ,Enrico nella Lucia di Lammermoor e Rigoletto nell'omonimo capolavoro verdiano. Proprio in quest'ultimo ruolo Bastianini colse un franco insuccesso durante la stagione '61-'62 alla Scala, e la stessa incisione in studio fa pronunciare ancora al Celletti una condanna senza appello ("Bastianini mancava di tecnica e di nobiltà, oltre che di fantasia").
E'evidente che la figura del baritono italiano va ripensata collocandola in un ben determinato periodo storico nel quale il gusto era certamente più orientato verso quelle forzature veriste che rendono oggi spesso inascoltabili certe interpretazioni verdiane e rossiniane. Tuttavia l'importanza di Bastianini nella storia del teatro lirico fino ai primi anni '60 non può essere facilmente sottovalutata, se non altro per un rispetto alle preferenze che grandi direttori come Karajan e Mitropoulos avevano dimostrato nei suoi confronti, e per un innegabile successo di pubblico che vide la sua figura acclamata nei teatri di tutto il mondo.
Le incisioni discografiche in studio del baritono senese tracciano forse un quadro più completo (in quanto a repertorio) ma non più convincente (come risultati globali) rispetto a quelle dal vivo. Bastianini partecipò come Amonasro a una remota produzione di Aida del 1954, impersonò Figaro nel Barbiere del 1956 (in una edizione peraltro criticatissima dal Celletti), fu Rodolfo nella raramente eseguita Bohéme di Leoncavallo, Marcello in quella di Puccini, Alfio in Cavalleria, Barnaba nella Gioconda ,Enrico nella Lucia di Lammermoor e Rigoletto nell'omonimo capolavoro verdiano. Proprio in quest'ultimo ruolo Bastianini colse un franco insuccesso durante la stagione '61-'62 alla Scala, e la stessa incisione in studio fa pronunciare ancora al Celletti una condanna senza appello ("Bastianini mancava di tecnica e di nobiltà, oltre che di fantasia").
E'evidente che la figura del baritono italiano va ripensata collocandola in un ben determinato periodo storico nel quale il gusto era certamente più orientato verso quelle forzature veriste che rendono oggi spesso inascoltabili certe interpretazioni verdiane e rossiniane. Tuttavia l'importanza di Bastianini nella storia del teatro lirico fino ai primi anni '60 non può essere facilmente sottovalutata, se non altro per un rispetto alle preferenze che grandi direttori come Karajan e Mitropoulos avevano dimostrato nei suoi confronti, e per un innegabile successo di pubblico che vide la sua figura acclamata nei teatri di tutto il mondo.
Memories - Sesto Bruscantini

La massima ricettività nei confronti di tutto ciò che gli
poteva essere insegnato dai direttori d'orchestra, dai maestri di canto, dai
colleghi più o meno famosi, dai registi: questo è uno dei segreti della
naturalezza sul palcoscenico, della proverbiale dizione, della longevità della
carriera di Sesto Bruscantini, basso-baritono comico che ha dominato le scene
in Italia e all'estero fin dai primi anni cinquanta e che ha potuto permettersi
il lusso di mantenere in repertorio fino ai nostri giorni alcuni ruoli che lo
hanno reso giustamente famoso. In realtà la stesa etichetta di buffo non rende
del tutto giustizia a un interprete che ha avuto molte occasioni di affrontare
ruoli del tutto differenti dallo stereotipo tipico di tanta produzione italiana
del settecento e in parte dell'ottocento. "Per i ruoli
drammatici...valgono le stesse regole di quelli comici: la parola, il gesto e
l'atteggiamento generale devono fondersi attraverso il recitativo nella
creazione di un carattere" ebbe a dire Bruscantini in una intervista di
qualche anno fa. Del resto le sue interpretazioni di ruoli quali Rigoletto,
Giorgio e Riccardo nei Puritani, Zurga nei Pescatori di perle, Enrico nella
Lucia, Germont in Traviata e infine Melitone nella Forza del destino incisa con
Muti nell'86 hanno rivelato al pubblico e alla critica una figura di cantante
estremamente versatile anche sul terreno esattamente opposto a quello ove egli
ha coltivato i suoi maggiori successi.
Bruscantini, nato a Porto Civitanova, nelle Marche, il 10 dicembre 1919, completò gli studi di Giurisprudenza coltivando in seguito quelli di canto con Luigi Ricci a Roma. Il debutto ufficiale in teatro avviene in maniera prestigiosa alla Scala, nel marzo del 1949, come Don Geronimo nel Matrimonio segreto di Cimarosa. E'il primo di tanti incontri tra il cantante e il repertorio operistico italiano del settecento, vera e propria miniera di riscoperte attuate sia in teatro che durante le stagioni liriche della RAI negli anni '50. Citiamo a questo proposito la presenza di Bruscantini ne La buona figliola di Piccinni (Scala,1951), La Clementina di Boccherini (Venezia,1951), La Diavolessa di Galuppi (Venezia,1952),e ancora nella Molinara e nel Socrate immaginario di Paisiello, nella Cecchina di Piccinni, nel Maestro di Cappella, Le astuzie femminili e Chi dell'altrui veste di Cimarosa, o nella Dirindina di Scarlatti e La serva padrona di Pergolesi.
Con la partecipazione al Festival di Glyndebourne (Don Alfonso nel Così fan tutte) si apre nel 1951 un importantissimo capitolo nella carriera di Bruscantini. Il basso marchigiano ripeterà la sua presenza inglese negli anni successivi sempre nel Così (Guglielmo, nel 1952 e nel 1953), nella Cenerentola (Dandini, sempre nel '53),e nel Barbiere (Figaro, nel '54). Contemporanea è la presenza di Bruscantini a Salisburgo (Don Pasquale nel 1952).
Al 1953 risale anche il matrimonio di Bruscantini con la famosa soprano jugoslava Sena Jurinac, dalla quale più tardi divorzierà. La caratterizzazione di personaggi come Don Alfonso, Don Pasquale e Dandini si rivela in quegli anni particolarmente felice e foriera di reiterati appuntamenti nel futuro: basti pensare che Bruscantini ha cantato ancora nel 1990 nel ruolo di Don Alfonso a Macerata e ha ripreso il Don Pasquale alla Scala nel 1984, un anno dopo la celebrata incisione con Muti. Altrettanto vitale è stata la presenza di Bruscantini, sia in teatro che nelle incisioni discografiche, per quanto riguarda i ruoli buffi di varie opere di Rossini e Donizetti. Nel primo caso la carriera iniziò con una famosa edizione romana del Turco in Italia (1950) e proseguì con la già ricordata Cenerentola, con il Barbiere e con il Bruschino nel ruolo di Gaudenzio. Donizetti, oltre al Don Pasquale, portò Bruscantini alla celebrità attraverso il ruolo di Dulcamara nell'Elisir d'amore (ripreso anche recentemente a Parma). La disponibilità a cimentarsi con un repertorio sempre diverso e senza confini storici ha portato infine il cantante marchigiano ad esplorare certo terreno proprio della musica del ‘900 (L'Oro di Pizzetti, La donna saggia di Orff, L'asino d'oro di Malipiero), dimostrando così interessi vastissimi e un'apertura culturale davvero non comuni.
Bruscantini, nato a Porto Civitanova, nelle Marche, il 10 dicembre 1919, completò gli studi di Giurisprudenza coltivando in seguito quelli di canto con Luigi Ricci a Roma. Il debutto ufficiale in teatro avviene in maniera prestigiosa alla Scala, nel marzo del 1949, come Don Geronimo nel Matrimonio segreto di Cimarosa. E'il primo di tanti incontri tra il cantante e il repertorio operistico italiano del settecento, vera e propria miniera di riscoperte attuate sia in teatro che durante le stagioni liriche della RAI negli anni '50. Citiamo a questo proposito la presenza di Bruscantini ne La buona figliola di Piccinni (Scala,1951), La Clementina di Boccherini (Venezia,1951), La Diavolessa di Galuppi (Venezia,1952),e ancora nella Molinara e nel Socrate immaginario di Paisiello, nella Cecchina di Piccinni, nel Maestro di Cappella, Le astuzie femminili e Chi dell'altrui veste di Cimarosa, o nella Dirindina di Scarlatti e La serva padrona di Pergolesi.
Con la partecipazione al Festival di Glyndebourne (Don Alfonso nel Così fan tutte) si apre nel 1951 un importantissimo capitolo nella carriera di Bruscantini. Il basso marchigiano ripeterà la sua presenza inglese negli anni successivi sempre nel Così (Guglielmo, nel 1952 e nel 1953), nella Cenerentola (Dandini, sempre nel '53),e nel Barbiere (Figaro, nel '54). Contemporanea è la presenza di Bruscantini a Salisburgo (Don Pasquale nel 1952).
Al 1953 risale anche il matrimonio di Bruscantini con la famosa soprano jugoslava Sena Jurinac, dalla quale più tardi divorzierà. La caratterizzazione di personaggi come Don Alfonso, Don Pasquale e Dandini si rivela in quegli anni particolarmente felice e foriera di reiterati appuntamenti nel futuro: basti pensare che Bruscantini ha cantato ancora nel 1990 nel ruolo di Don Alfonso a Macerata e ha ripreso il Don Pasquale alla Scala nel 1984, un anno dopo la celebrata incisione con Muti. Altrettanto vitale è stata la presenza di Bruscantini, sia in teatro che nelle incisioni discografiche, per quanto riguarda i ruoli buffi di varie opere di Rossini e Donizetti. Nel primo caso la carriera iniziò con una famosa edizione romana del Turco in Italia (1950) e proseguì con la già ricordata Cenerentola, con il Barbiere e con il Bruschino nel ruolo di Gaudenzio. Donizetti, oltre al Don Pasquale, portò Bruscantini alla celebrità attraverso il ruolo di Dulcamara nell'Elisir d'amore (ripreso anche recentemente a Parma). La disponibilità a cimentarsi con un repertorio sempre diverso e senza confini storici ha portato infine il cantante marchigiano ad esplorare certo terreno proprio della musica del ‘900 (L'Oro di Pizzetti, La donna saggia di Orff, L'asino d'oro di Malipiero), dimostrando così interessi vastissimi e un'apertura culturale davvero non comuni.
Memories -Birgit Nilsson

Soprano dai mezzi vocali praticamente inesauribili,che le hanno permesso di appropriarsi del repertorio tradizionalmente più "spinto", Birgit Nilsson ha rappresentato almeno per un ventennio un punto di riferimento assoluto nel repertorio
wagneriano e un termine imprescindibile di paragone nella definizione di alcuni ruoli pucciniani e straussiani.
La Nilsson nasce in Svezia, a Karup, il 17 maggio del 1918. Compiuti i regolari studi al Collegio Reale di Stoccolma, debutta nel 1946 in quella capitale nel ruolo di Agathe in Freischtz, continuando poi ad allargare sempre più il proprio repertorio pur rimanendo entro i confini del suo paese (Lady Macbeth con F.Busch,e poi la Marescialla, Donna Anna, Aida, Liza, Tosca oltre ai ruoli wagneriani di Sieglinde, Venere, Senta e soprattutto Brunhilde, tutti personaggi sui quali la Nilsson costruirà più tardi la propria carriera internazionale). Il 1951 segna la sua prima apparizione all'estero come Elektra nell'Idomeneo al Festival di Glyndebourne, ma ancora in Svezia la cantante aggiunge Elsa e Leonora (nel Fidelio) al suo già importante e vasto repertorio. Una prima consacrazione a Vienna (1953) come Elsa e Sieglinde le spalanca le porte al tempio wagneriano di Bayreuth, dove debutta appunto come Elsa l'anno successivo, mentre a Monaco affronta per la prima volta (1955) l'intera tetralogia cantando come Brunhilde nella Walkiria, in Sigfrido e nel Crepuscolo degli Dei. Il trionfo della sua Isotta nel 1957, sia a Bayreuth che al Maggio fiorentino, la pone immediatamente di fronte al pubblico come erede diretta della Flagstad, anche se il suo canto conserva sempre un certo alone di fredda perfezione che lascerà perplessi molti commentatori. Con il debutto scaligero quale Turandot (1958) e con quello al Metropolitan nel ruolo di Isotta (1959) la Nilsson entra definitivamente nella sua stagione più gloriosa. In particolare le sue recite al Met vengono salutate entusiasticamente e il critico del New York Times, Irving Kolodin, scrive in quella occasione che il soprano svedese è una interprete per la quale "come nel caso della Flagstad prima di lei e, ancor prima, di Caruso, le dimensioni del Metropolitan non rappresentano un rischio, semmai un vantaggio". In effetti la potenza dell'emissione,la perentorietà di accenti, la naturalezza di un timbro pressoché omogeneo lungo tutta l'estensione vocale costituiscono le caratteristiche che hanno fatto della Nilsson un caso davvero inimitabile e una presenza a se stante nel panorama di quegli anni. E chiaro come questo tipo di impostazione abbia portato la cantante verso una naturale identificazione con quei ruoli dove i lati più femminili sono come soffocati da un temperamento vigoroso (Brunhilde) o da una straordinaria freddezza d'animo (Turandot). Queste affinità hanno peraltro portato diversi commentatori, come si accennava più sopra, a sospettare che l'eccezionale caratterizzazione vocale del soprano svedese andasse molte volte a scapito dell'approfondimento psicologico dei personaggi o, più in generale, della identificazione drammaturgica dei ruoli e delle situazioni.
La carriera discografica della Nilsson ha seguito in parallelo i successi conseguiti di fronte alle platee di tutto il mondo e si è naturalmente concentrata sui personaggi-chiave che hanno reso celebre la cantante.
L'incisione di Turandot con Molinari-Pradelli rimane tra quelle memorabili e l'interpretazione della Nilsson ha giustamente evocato l'immagine di una "superba disumanità" dell'eroina pucciniana. In questo,come in altri esempi, la vicinanza di un partner come Corelli ha poi contribuito ad aumentare il valore di una interpretazione già di altissimo livello ; oltretutto è noto che il legame della Nilsson con il tenore italiano andò per un certo tempo al di là della pura intesa artistica. Con Georg Solti la Nilsson firmò una delle più belle realizzazioni del Ring e altrattanto importanti incisioni di Salome, Elektra e Tristano. Meno felici furono le incursioni in campo verdiano (un Macbeth con Schippers e il Ballo in maschera ancora con Solti) e mozartiano (Donna Anna in una peraltro pregevole edizione con Boehm). Nel momento in cui si prospettò inevitabile il lento abbandono delle scene la Nilsson non poté dirigere la propria attività nel campo liederistico, che non le era particolarmente congeniale. Continuò dunque ad apparire nel corso di recital con accompagnamento orchestrale, proponendo soprattutto le amatissime pagine wagneriane e bilanciando una oramai compromessa organizzazione vocale con il carisma di una presenza assolutamente emozionante. Poteva cosìaccadere nel corso di un concerto wagneriano al Regio di Parma (1982) o durante le manifestazioni per il centenario del Metropolitan tenutesi a New York nell'ottobre dell'anno successivo che la grande cantante riuscisse a riproporre il brivido nostalgico di una voce che sapeva ancora imporsi come nessun altro sulla densa massa orchestrale del Tristano, suscitando il ricordo struggente di una grandissima artista e consacrando definitivamente la propria posizione incancellabile nella Storia della vocalità degli ultimi trent'anni.
wagneriano e un termine imprescindibile di paragone nella definizione di alcuni ruoli pucciniani e straussiani.
La Nilsson nasce in Svezia, a Karup, il 17 maggio del 1918. Compiuti i regolari studi al Collegio Reale di Stoccolma, debutta nel 1946 in quella capitale nel ruolo di Agathe in Freischtz, continuando poi ad allargare sempre più il proprio repertorio pur rimanendo entro i confini del suo paese (Lady Macbeth con F.Busch,e poi la Marescialla, Donna Anna, Aida, Liza, Tosca oltre ai ruoli wagneriani di Sieglinde, Venere, Senta e soprattutto Brunhilde, tutti personaggi sui quali la Nilsson costruirà più tardi la propria carriera internazionale). Il 1951 segna la sua prima apparizione all'estero come Elektra nell'Idomeneo al Festival di Glyndebourne, ma ancora in Svezia la cantante aggiunge Elsa e Leonora (nel Fidelio) al suo già importante e vasto repertorio. Una prima consacrazione a Vienna (1953) come Elsa e Sieglinde le spalanca le porte al tempio wagneriano di Bayreuth, dove debutta appunto come Elsa l'anno successivo, mentre a Monaco affronta per la prima volta (1955) l'intera tetralogia cantando come Brunhilde nella Walkiria, in Sigfrido e nel Crepuscolo degli Dei. Il trionfo della sua Isotta nel 1957, sia a Bayreuth che al Maggio fiorentino, la pone immediatamente di fronte al pubblico come erede diretta della Flagstad, anche se il suo canto conserva sempre un certo alone di fredda perfezione che lascerà perplessi molti commentatori. Con il debutto scaligero quale Turandot (1958) e con quello al Metropolitan nel ruolo di Isotta (1959) la Nilsson entra definitivamente nella sua stagione più gloriosa. In particolare le sue recite al Met vengono salutate entusiasticamente e il critico del New York Times, Irving Kolodin, scrive in quella occasione che il soprano svedese è una interprete per la quale "come nel caso della Flagstad prima di lei e, ancor prima, di Caruso, le dimensioni del Metropolitan non rappresentano un rischio, semmai un vantaggio". In effetti la potenza dell'emissione,la perentorietà di accenti, la naturalezza di un timbro pressoché omogeneo lungo tutta l'estensione vocale costituiscono le caratteristiche che hanno fatto della Nilsson un caso davvero inimitabile e una presenza a se stante nel panorama di quegli anni. E chiaro come questo tipo di impostazione abbia portato la cantante verso una naturale identificazione con quei ruoli dove i lati più femminili sono come soffocati da un temperamento vigoroso (Brunhilde) o da una straordinaria freddezza d'animo (Turandot). Queste affinità hanno peraltro portato diversi commentatori, come si accennava più sopra, a sospettare che l'eccezionale caratterizzazione vocale del soprano svedese andasse molte volte a scapito dell'approfondimento psicologico dei personaggi o, più in generale, della identificazione drammaturgica dei ruoli e delle situazioni.
La carriera discografica della Nilsson ha seguito in parallelo i successi conseguiti di fronte alle platee di tutto il mondo e si è naturalmente concentrata sui personaggi-chiave che hanno reso celebre la cantante.
L'incisione di Turandot con Molinari-Pradelli rimane tra quelle memorabili e l'interpretazione della Nilsson ha giustamente evocato l'immagine di una "superba disumanità" dell'eroina pucciniana. In questo,come in altri esempi, la vicinanza di un partner come Corelli ha poi contribuito ad aumentare il valore di una interpretazione già di altissimo livello ; oltretutto è noto che il legame della Nilsson con il tenore italiano andò per un certo tempo al di là della pura intesa artistica. Con Georg Solti la Nilsson firmò una delle più belle realizzazioni del Ring e altrattanto importanti incisioni di Salome, Elektra e Tristano. Meno felici furono le incursioni in campo verdiano (un Macbeth con Schippers e il Ballo in maschera ancora con Solti) e mozartiano (Donna Anna in una peraltro pregevole edizione con Boehm). Nel momento in cui si prospettò inevitabile il lento abbandono delle scene la Nilsson non poté dirigere la propria attività nel campo liederistico, che non le era particolarmente congeniale. Continuò dunque ad apparire nel corso di recital con accompagnamento orchestrale, proponendo soprattutto le amatissime pagine wagneriane e bilanciando una oramai compromessa organizzazione vocale con il carisma di una presenza assolutamente emozionante. Poteva cosìaccadere nel corso di un concerto wagneriano al Regio di Parma (1982) o durante le manifestazioni per il centenario del Metropolitan tenutesi a New York nell'ottobre dell'anno successivo che la grande cantante riuscisse a riproporre il brivido nostalgico di una voce che sapeva ancora imporsi come nessun altro sulla densa massa orchestrale del Tristano, suscitando il ricordo struggente di una grandissima artista e consacrando definitivamente la propria posizione incancellabile nella Storia della vocalità degli ultimi trent'anni.