Concerto della Filarmonica della Scala, Direttore Manfred Honeck, Pianista Beatrice Rana - Teatro alla Scala, 3 Luglio 2021
Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala
Una programmazione che non sembra ancora seguire un percorso ben preciso – dal punto di vista sanitario navighiamo tuttora in acque non del tutto serene – ha permesso ieri sera di ascoltare alla Scala un bel concerto che ha richiamato il nome di due autori tra di loro molto in sintonia, anche se attraverso due partiture distinte per carattere e posizionamento nei relativi cataloghi.
Il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra di Johannes Brahms risale al primo periodo dell’attività del compositore amburghese, ne costituisce un pilastro fondamentale e divenne noto in questa forma dopo avere vissuto una vicenda piuttosto travagliata. Pensato come sinfonia, vergato dapprima in partitura come assieme per due pianoforti, il Concerto conobbe la sua stesura definitiva nel 1858 dopo essere stato ascoltato da Clara Schumann e Joseph Joachim. Eseguito in forma privata ad Amburgo dallo stesso autore venticinquenne, il 30 marzo del 1858, e presentato pubblicamente l’anno successivo ad Hannover sotto la direzione di Joachim, il Concerto venne per un certo tempo considerato come “Sinfonia per pianoforte obbligato” e non fu accolto senza riserve da certa critica, che parlò di opera “di difficile comprensione, arida e talvolta molto faticosa” ma che riconobbe anche in Brahms un “musicista autentico” e un pianista che “non si limita a essere un virtuoso, ma è invece un grande artista”.
Giudizio tutto sommato molto comprensibile e lungimirante, perché il Concerto divenne ben presto uno dei lavori di punta di tutta la letteratura di questa categoria e mantiene ancora oggi una posizione di predominio nei programmi dei grandi virtuosi. Giudizio comprensibile perché innanzitutto i rapporti di forza tra solista e orchestra non sono di immediato intendimento: nel primo movimento i temi principali sono affidati all’orchestra e il pianoforte fa il suo ingresso in una maniera tutt’altro che spettacolare e del tutto differente da quella che era la moda dell’epoca, che tendeva a ribadire l’importanza e l’assertività di un primo tema affidato al solista. Qui il pianista inizia una vera e propria competizione con l’orchestra solamente in un secondo momento, riprendendo alcune delle cellule esposte precedentemente da quest’ultima e traducendole secondo una scrittura irta di difficoltà nuove e di scomoda esecuzione. Di approccio più disteso, che contrasta con il carattere fosco e drammatico dell’incipit, l’Adagio al secondo posto ha fatto pensare a un estremo omaggio a Schumann e riserva al termine un’estatica cadenza del solista. Trascinante, complesso nella sua architettura, il Rondò finale conquista l’ascoltatore con un fantastico gioco di intrecci tra pianoforte e orchestra e termina in maniera trionfale, tracciando complessivamente “vie nuove” per la forma del Concerto e garantendone una intramontabile fortuna.
Per le sue difficoltà pianistiche e strutturali e per la totale compenetrazione all’interno del discorso sinfonico, il “primo” di Brahms ha fatto parte del repertorio di tutti i più grandi solisti e direttori ed è oggi praticamente impossibile tentarne letture che possano prescindere da tutta una tradizione gloriosa. Beatrice Rana non ha tanto insistito sul lato eroico della scrittura brahmsiana, pur superando con grande sicurezza e maestria le insidiose difficoltà della parte, ma ha piuttosto sottolineato nuovi accenti nei momenti più lirici riuscendo a proporre idee nuove con notevole intelligenza. Manfred Honeck ne ha seguito diligentemente le intenzioni anche se probabilmente un numero maggiore di prove avrebbe garantito una ancor migliore riuscita di questa parte del programma, che si è conclusa con un bis schumanniano richiesto a gran voce dal pubblico.
Honeck è un direttore di preparazione solidissima e dal vasto repertorio, abituato tra l’altro a lavorare con i maggiori pianisti delle ultime generazioni. Ospite della Scala fin dal 1996, il direttore austriaco, si è letteralmente gettato in successione nelle travolgenti, vigorose certezze dell’ottava sinfonia di Dvořák, cogliendone tutti gli aspetti, dai più lirici ai richiami di fanfara che caratterizzano il brillante finale e che ancora oggi, tra l'altro, stupiscono ed entusiasmano il neofita per gli insoliti trilli all’unisono di corni e legni, che sembrano infondere un carattere di incontenibile ebbrezza a questa grande musica.
Il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra di Johannes Brahms risale al primo periodo dell’attività del compositore amburghese, ne costituisce un pilastro fondamentale e divenne noto in questa forma dopo avere vissuto una vicenda piuttosto travagliata. Pensato come sinfonia, vergato dapprima in partitura come assieme per due pianoforti, il Concerto conobbe la sua stesura definitiva nel 1858 dopo essere stato ascoltato da Clara Schumann e Joseph Joachim. Eseguito in forma privata ad Amburgo dallo stesso autore venticinquenne, il 30 marzo del 1858, e presentato pubblicamente l’anno successivo ad Hannover sotto la direzione di Joachim, il Concerto venne per un certo tempo considerato come “Sinfonia per pianoforte obbligato” e non fu accolto senza riserve da certa critica, che parlò di opera “di difficile comprensione, arida e talvolta molto faticosa” ma che riconobbe anche in Brahms un “musicista autentico” e un pianista che “non si limita a essere un virtuoso, ma è invece un grande artista”.
Giudizio tutto sommato molto comprensibile e lungimirante, perché il Concerto divenne ben presto uno dei lavori di punta di tutta la letteratura di questa categoria e mantiene ancora oggi una posizione di predominio nei programmi dei grandi virtuosi. Giudizio comprensibile perché innanzitutto i rapporti di forza tra solista e orchestra non sono di immediato intendimento: nel primo movimento i temi principali sono affidati all’orchestra e il pianoforte fa il suo ingresso in una maniera tutt’altro che spettacolare e del tutto differente da quella che era la moda dell’epoca, che tendeva a ribadire l’importanza e l’assertività di un primo tema affidato al solista. Qui il pianista inizia una vera e propria competizione con l’orchestra solamente in un secondo momento, riprendendo alcune delle cellule esposte precedentemente da quest’ultima e traducendole secondo una scrittura irta di difficoltà nuove e di scomoda esecuzione. Di approccio più disteso, che contrasta con il carattere fosco e drammatico dell’incipit, l’Adagio al secondo posto ha fatto pensare a un estremo omaggio a Schumann e riserva al termine un’estatica cadenza del solista. Trascinante, complesso nella sua architettura, il Rondò finale conquista l’ascoltatore con un fantastico gioco di intrecci tra pianoforte e orchestra e termina in maniera trionfale, tracciando complessivamente “vie nuove” per la forma del Concerto e garantendone una intramontabile fortuna.
Per le sue difficoltà pianistiche e strutturali e per la totale compenetrazione all’interno del discorso sinfonico, il “primo” di Brahms ha fatto parte del repertorio di tutti i più grandi solisti e direttori ed è oggi praticamente impossibile tentarne letture che possano prescindere da tutta una tradizione gloriosa. Beatrice Rana non ha tanto insistito sul lato eroico della scrittura brahmsiana, pur superando con grande sicurezza e maestria le insidiose difficoltà della parte, ma ha piuttosto sottolineato nuovi accenti nei momenti più lirici riuscendo a proporre idee nuove con notevole intelligenza. Manfred Honeck ne ha seguito diligentemente le intenzioni anche se probabilmente un numero maggiore di prove avrebbe garantito una ancor migliore riuscita di questa parte del programma, che si è conclusa con un bis schumanniano richiesto a gran voce dal pubblico.
Honeck è un direttore di preparazione solidissima e dal vasto repertorio, abituato tra l’altro a lavorare con i maggiori pianisti delle ultime generazioni. Ospite della Scala fin dal 1996, il direttore austriaco, si è letteralmente gettato in successione nelle travolgenti, vigorose certezze dell’ottava sinfonia di Dvořák, cogliendone tutti gli aspetti, dai più lirici ai richiami di fanfara che caratterizzano il brillante finale e che ancora oggi, tra l'altro, stupiscono ed entusiasmano il neofita per gli insoliti trilli all’unisono di corni e legni, che sembrano infondere un carattere di incontenibile ebbrezza a questa grande musica.