Recital del violinista Leonidas Kavakos e del pianista Enrico Pace
Milano, Società del quartetto, 13 Dicembre 2011
The Classic Voice n.152
Affidare a due strumentisti di grande valore l’esecuzione
dell’integrale delle Sonate per violino e pianoforte di Beethoven si è rivelata
per la Società del Quartetto di Milano una scelta strategica davvero
eccellente. Dal concerto inaugurale
dello scorso 13 dicembre ci si poteva attendere il meglio, questo è
vero, ma i risultati sono andati anche al di là delle previsioni perché alla
bravura dei singoli e alla perfetta fusione dell’assieme si è aggiunta una
assoluta comunanza di idee nei confronti dei testi beethoveniani. Non è così
raro ascoltare il ciclo completo delle sonate, e solamente a Milano negli
ultimi quarant’anni il pubblico ha potuto assistere tra le altre alle proposte illustri
di Leonid Kogan, di Uto Ughi, di Salvatore Accardo, per non parlare di un già
mitico ciclo di Francescatti e Casadesus al Teatro Manzoni (sì, proprio quello
che oggi va incontro a un inglorioso smantellamento). Ma raramente ho ascoltato
una sintesi così perfetta, uno scarto così minimo tra le intenzioni degli
interpreti e la effettiva realizzazione in sala. A pari merito indicherei sia
Kavakos, violinista dal suono chiaro e incisivo, perfetto per la musica da
camera, che Enrico Pace, pianista solidissimo e partner ideale (ne avevamo già
avuto conferma attraverso un suo recital a fianco di Frank Peter Zimmermann).
Per questo primo incontro il Duo aveva scelto le sonate op.23 e 24, tesi e
antitesi del pensiero beethoveniano, sottolineando il carattere tempestoso e
inquieto della prima e la soave cantabilità della seconda, seguite dalla
difficilissima op.96, frutto di quello che è forse il più enigmatico momento
della creatività del musicista, miscela squisita di richiami nostalgici al
passato e di avveniristiche visioni del futuro. Nel passaggio tra le due fasi Kavakos
e Pace hanno saputo calibrare sonorità e fraseggio in vista delle mutate
prospettive stilistiche, compito questo assai arduo, recepito come tale dal
pubblico che al termine ha lungamente applaudito i due protagonisti.
Verbier Festival 2011
The Classic Voice n.149
Il Festival di Verbier assicura oramai – siamo al
diciottesimo anno – non soltanto la possibilità di ascoltare grandi solisti
impegnati in inedite formazioni cameristiche, ma altresì quella di tenersi
aggiornati nei confronti di un panorama sempre mutevole di giovani interpreti
appena usciti da qualche concorso prestigioso. Se poi i due aspetti vengono
coniugati in quelle che vengono chiamate “rencontres inédites” ecco che
l’occasione diventa particolarmente interessante e unica.
Due di questi “incontri” ci sono sembrati particolarmente riusciti. Il 28 luglio era la volta del violinista greco Leonidas Kavakos, che guidava un team composto tra gli altri dalla pianista Yuja Wang a dal violoncellista Gautier Capucon, protagonisti di una intensa lettura della Sonata op.99 di Brahms e del Trio op.66 di Mendelssohn, con una chiusura di programma affidata al celestiale Quintetto per archi di Schubert, dove i tre solisti sono stati affiancati superbamente dalla viola di Kim Kaskashian, il secondo cello di Gary Hoffman e il secondo violino del giovane Cristoph Koncz. A sole 24 ore di distanza altri due gruppi di valorosi musicisti si cimentavano in due lavori di difficile esecuzione. Nel Quintetto op.111 di Brahms, eseguito con la passionalità viscerale di chi si trova di fronte forse per la prima volta a un capolavoro di questo calibro, accanto al violinista Joshua Bell siedevano ancora il cellista Hoffman e la violista Kashkashian, la violinista Shoji, il violista Rachlin, mentre il pianista russo Denis Matsuev, e i grandi Vadim Repin e Mischa Maisky rendevano in maniera intensissima il giovanile Trio elégiaque di Rachmaninov.
Il programma veniva chiuso dal Quintetto di Bartok, altra pagina di apprendistato di rarissimo ascolto, nel quale il complesso di artisti vedeva affiancati ancora Matsuev, Repin, Rachlin in compagnia del bravissimo violinista Valery Sokolov e del cellista Aleksandr Buslow.
La tensostruttura della Salle des Combins aveva ospitato pochi giorni prima un altro appuntamento molto atteso nel quale la Verbier Festival Orchestra era guidata dal magnifico Yuri Temirkanov, direttore ancora più grande per il fatto di essere stato in grado di plasmare in poche ore l’orchestra giovanile del luogo ottenendo una rispondenza d’insieme addirittura fantastica. Temirkanov era impegnato in un programma tutto russo che culminava nell’esecuzione del secondo concerto di Rachmaninov con Yuja Wang e in una suite tratta dal Lago dei cigni di Ciaikovskij nella quale si coglieva ancora una volta la straordinaria sensibilità e invenzione poetica del grande direttore. Come spesso succede ai giovani solisti grintosi, ma a volte troppo precipitosi, la vicinanza di Temirkanov ha giovato non poco nel temperare gli eccessi virtuosistici della Wang, che qui si è lasciata condurre in una lettura poetica e affascinante del celebre concerto.
Due di questi “incontri” ci sono sembrati particolarmente riusciti. Il 28 luglio era la volta del violinista greco Leonidas Kavakos, che guidava un team composto tra gli altri dalla pianista Yuja Wang a dal violoncellista Gautier Capucon, protagonisti di una intensa lettura della Sonata op.99 di Brahms e del Trio op.66 di Mendelssohn, con una chiusura di programma affidata al celestiale Quintetto per archi di Schubert, dove i tre solisti sono stati affiancati superbamente dalla viola di Kim Kaskashian, il secondo cello di Gary Hoffman e il secondo violino del giovane Cristoph Koncz. A sole 24 ore di distanza altri due gruppi di valorosi musicisti si cimentavano in due lavori di difficile esecuzione. Nel Quintetto op.111 di Brahms, eseguito con la passionalità viscerale di chi si trova di fronte forse per la prima volta a un capolavoro di questo calibro, accanto al violinista Joshua Bell siedevano ancora il cellista Hoffman e la violista Kashkashian, la violinista Shoji, il violista Rachlin, mentre il pianista russo Denis Matsuev, e i grandi Vadim Repin e Mischa Maisky rendevano in maniera intensissima il giovanile Trio elégiaque di Rachmaninov.
Il programma veniva chiuso dal Quintetto di Bartok, altra pagina di apprendistato di rarissimo ascolto, nel quale il complesso di artisti vedeva affiancati ancora Matsuev, Repin, Rachlin in compagnia del bravissimo violinista Valery Sokolov e del cellista Aleksandr Buslow.
La tensostruttura della Salle des Combins aveva ospitato pochi giorni prima un altro appuntamento molto atteso nel quale la Verbier Festival Orchestra era guidata dal magnifico Yuri Temirkanov, direttore ancora più grande per il fatto di essere stato in grado di plasmare in poche ore l’orchestra giovanile del luogo ottenendo una rispondenza d’insieme addirittura fantastica. Temirkanov era impegnato in un programma tutto russo che culminava nell’esecuzione del secondo concerto di Rachmaninov con Yuja Wang e in una suite tratta dal Lago dei cigni di Ciaikovskij nella quale si coglieva ancora una volta la straordinaria sensibilità e invenzione poetica del grande direttore. Come spesso succede ai giovani solisti grintosi, ma a volte troppo precipitosi, la vicinanza di Temirkanov ha giovato non poco nel temperare gli eccessi virtuosistici della Wang, che qui si è lasciata condurre in una lettura poetica e affascinante del celebre concerto.
Recital del pianista Grigori Sokolov
Milano, Società dei Concerti, 25 Maggio 2011
The Classic Voice n.146-147
Grigori Sokolov sembra voler proseguire lungo un suo cammino
davvero personale, lontano dai richiami di effimere cartes blanches quanto da dottorali progetti. A dire il vero un suo progetto molto intimo e
intellettualissimo viene portato avanti con ferrea convinzione, anche se non
sempre è facile individuarne i contorni. Vive sempre in lui la fascinazione del
barocco, e lo si è nuovamente constatato l'altra sera ascoltandolo per la
Società dei Concerti nel programma che il grande pianista va portando in giro
per il mondo in questo 2011. Un Barocco che si chiami Bach o Rameau, non
importa, ma che è fatto di ritmi precisi, di tocco staccato, di mirabile
precisione negli abbellimenti (questi ultimi realizzati con una agilità che
lascia sbalorditi i pianisti presenti in sala e che vengono riproposti tali e
quali anche quando il cammino si avventura sulla strada di Schumann, Chopin e
Ravel). Dunque un programma bipartito, che iniziava in signo J. S. Magni, con
un Concerto Italiano di esecuzione
intellettualmente splendida (ma ripensavamo durante l'ascolto a come Rudolf
Serkin, ne rendeva, proprio lì, poco più di trent'anni fa, in quello stesso
preciso luogo fisico, il lato umano e gioioso). Ancora più interessante era
però di Sokolov la lettura della cosiddetta Ouverture Francese BWV 831, una
vera e propria Partita in si minore di rarissimo ascolto, lunga, difficile da
suonare e da memorizzare, che termina con una celestiale Echo nella quale ti sembra di vedere raffigurato in musica un
bellissimo gioco di simmetrie e di ascoltare una melodia che è stata
saccheggiata innumerevoli volte dalla musica colta e meno colta. Poi Schumann,
che di Bach era fervente ammiratore come tutti sanno, e che qui veniva proposto
attraverso due tra le opere più belle. Le Humoreske,
tenute in repertorio da quasi tutti i pianisti che hanno fatto la storia, è
pagina straordinaria e commovente, anch'essa di difficoltà estrema, di
intricati giochi di voci e di ritmi, ovviamente sciolti da Sokolov con maestria
assoluta, così come con altrettanta maestria il pianista ne ha eseguito le
battute conclusive, che sono una vera e propria affettuosa parodia del Barocco
più imponente e trionfale. Seguendo in questo l'esempio del suo immenso
predecessore Emil Gilels, che li aveva particolarmente a cuore, Sokolov ha
terminato il programma ufficiale sempre nel nome di Schumann con i 4 Pezzi
dell'opera 32. Uno Scherzo e una Romanza alla Florestano, una Giga tutta Maestro raro e l'enigmatica Fughetta
finale, sussurrata dal pianista come è dovuto, quasi in silente omaggio
all'Autore. Enorme successo e come si è detto numerosi bis, che spaziavano da
Rameau, a Chopin e Brahms.
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Recital e concerto del pianista Daniel Barenboim
Milano, Teatro alla Scala 13 e 14 Marzo 2011
The Classic Voice n.144
Inizialmente
programmato come prima parte di un duplice omaggio a Liszt, il recital che
Daniel Barenboim ha tenuto il 13 marzo scorso alla Scala si è svolto
inaspettatamente nel nome di Schubert, con la scelta di due grandi sonate,
vaste ed elaborate, la cosiddetta Sonata-Fantasia in sol maggiore op.78 (D.894)
e quella in do minore D.958, prima della terna che costituisce il coronamento
di un ciclo tra i più interessanti per l’evoluzione del genere. Terreno ideale
per il Barenboim pianista, che ha comunicato una lettura come sempre originale
e attenta a ogni minimo dettaglio avvalendosi di una palette timbrica di qualità
eccezionale. Qualità che purtroppo poteva essere percepita pienamente solo da
coloro che sedevano in prossimità dello strumento: un grande teatro come la
Scala è totalmente inadatto all’ascolto di pagine strumentali tenute spesso al
limite del “pianissimo”, come è il caso della Sonata-Fantasia di Schubert, a
meno che non si ripristini una prassi concertistica filologicamente criticabile
e non “à la page”, quella che permetteva ai grandi interpreti di un tempo di
calibrare il suono in vista delle dimensioni e dell’acustica della sala nella
quale il recital aveva luogo, non in base alle richieste originali dello
spartito. La Scala costituisce un esempio di busillis acustico per eccellenza
proprio nel caso di un recital pianistico : è sufficiente a volte spostarsi di
una fila o dirigersi verso i lati o verso il centro per sperimentare condizioni
di ascolto totalmente differenti, a volte disturbate da veri e propri effetti
di eco o di rimbalzo del suono.
I problemi di acustica erano parzialmente risolti, è ovvio, nel corso del programma della serata successiva, quando Barenboim si è esibito nei due Concerti di Liszt coadiuvato dalla Filarmonica e dal giovane direttore israeliano Omer Meir Wellber, appena reduce da una Tosca nello stesso teatro. Parlo di esibizione proprio perché Barenboim mi è sembrato voler sottolineare dei Concerti - cavalli di battaglia dell’autore e indubbiamente espressione di un ego artistico tra i più formidabili dell’epoca romantica - anche l’aspetto gestuale (ad esempio le ottave nel primo e i glissandi nel secondo). Barenboim non è mai stato un pianista “virtuoso” nel senso spettacolare del termine e in questo frangente si coglieva una palese tensione tra una lettura che tendeva a scomporre il linguaggio lisztiano nei minimi dettagli e la volontà di sottolineare allo stesso tempo la portata virtuosistica del discorso pianistico e il disegno unitario che sta alla base dei due concerti. Ne è uscita una esecuzione molto frammentaria, appesantita da un apporto orchestrale poco calibrato e da momenti di asincronia causati anche da una non scioltissima realizzazione dei passaggi pianistici più azzardati. Mi è capitato recentemente di ascoltare una registrazione live di un evento berlinese durante il quale Barenboim coadiuva dal podio, nei due stessi concerti, una grande virtuosa come la Argerich : un esempio di sintonia assoluta e di perfetta realizzazione di intenti musicali da parte di entrambi i protagonisti.
Nel corso della serata con la Filarmonica si è ascoltata anche un’ottava di Beethoven piuttosto rigida e priva di nuances, e la prima esecuzione di una complessa partitura di Carlo Boccadoro, le Variazioni per orchestra, scritta su commissione della Filarmonica stessa. Si tratta di una pagina estremamente densa che sembra voler tributare un omaggio alle brillanti potenzialità strumentali del la nostra compagine ripercorrendo in questo caso una tradizione resa illustre nel ‘900 da autori come Bartok e Hindemith.
I problemi di acustica erano parzialmente risolti, è ovvio, nel corso del programma della serata successiva, quando Barenboim si è esibito nei due Concerti di Liszt coadiuvato dalla Filarmonica e dal giovane direttore israeliano Omer Meir Wellber, appena reduce da una Tosca nello stesso teatro. Parlo di esibizione proprio perché Barenboim mi è sembrato voler sottolineare dei Concerti - cavalli di battaglia dell’autore e indubbiamente espressione di un ego artistico tra i più formidabili dell’epoca romantica - anche l’aspetto gestuale (ad esempio le ottave nel primo e i glissandi nel secondo). Barenboim non è mai stato un pianista “virtuoso” nel senso spettacolare del termine e in questo frangente si coglieva una palese tensione tra una lettura che tendeva a scomporre il linguaggio lisztiano nei minimi dettagli e la volontà di sottolineare allo stesso tempo la portata virtuosistica del discorso pianistico e il disegno unitario che sta alla base dei due concerti. Ne è uscita una esecuzione molto frammentaria, appesantita da un apporto orchestrale poco calibrato e da momenti di asincronia causati anche da una non scioltissima realizzazione dei passaggi pianistici più azzardati. Mi è capitato recentemente di ascoltare una registrazione live di un evento berlinese durante il quale Barenboim coadiuva dal podio, nei due stessi concerti, una grande virtuosa come la Argerich : un esempio di sintonia assoluta e di perfetta realizzazione di intenti musicali da parte di entrambi i protagonisti.
Nel corso della serata con la Filarmonica si è ascoltata anche un’ottava di Beethoven piuttosto rigida e priva di nuances, e la prima esecuzione di una complessa partitura di Carlo Boccadoro, le Variazioni per orchestra, scritta su commissione della Filarmonica stessa. Si tratta di una pagina estremamente densa che sembra voler tributare un omaggio alle brillanti potenzialità strumentali del la nostra compagine ripercorrendo in questo caso una tradizione resa illustre nel ‘900 da autori come Bartok e Hindemith.