Recital del pianista Evgenij Kissin
Milano, Società dei Concerti, 3 Dicembre 2008
The Classic Voice

Con una nuova scelta di programma rigorosamente impostata su
due autori, Prokofiev e Chopin, Kissin ha emozionato il pubblico che lo segue
fedelmente da diversi anni e che negli ultimi tempi era rimasto forse meno
colpito da certe sue scelte orientate verso i classici viennesi, Beethoven e
Schubert innanzitutto, dove lo straordinario talento strumentale del pianista
non era sembrato sufficiente a sostenere un discorso che esige un più meditato
approfondimento artistico.
Non si vuole con questo affermare né che Kissin sia solamente un grande virtuoso della tastiera, né che il repertorio presentato nel recital del 3 dicembre scorso possa essere affrontato a cuor leggero. Piuttosto, nella magistrale lettura dell’ottava Sonata, di alcune pagine da “Romeo e Giulietta” e nello straordinario “bis” della “Suggestion diabolique” di Prokofiev il pianista russo ha dimostrato di avere assorbito completamente la grande tradizione interpretativa di Richter, Gilels e Berman giungendo a una ammirevole sintesi che non ha oggi confronti. E nella stessa bruciante esecuzione di alcuni Studi di Chopin - impressionante il primo e il quarto dell’op.10 - Kissin sembra rievocare i furori giovanili di Richter ma anche di Pollini, in una esaltazione tecnico-espressiva di strabiliante perfezione. Il fatto che l’universo delle Mazurke e ancor di più l’esoterismo della Polonaise-Fantaisie non vengano illustrati da Kissin con la stessa lucidità intellettuale resta per noi il segno di un non ancora raggiunto equilibrio tra l’enorme facilità tecnica e la capacità di dosarne l’impeto ai fini espressivi, traguardo che molto probabilmente verrà raggiunto nel tempo, attraverso quel costante lavoro di approfondimento cui il pianista si sottopone ancora oggi quotidianamente, senza cedere a vuoti divismi.
Non si vuole con questo affermare né che Kissin sia solamente un grande virtuoso della tastiera, né che il repertorio presentato nel recital del 3 dicembre scorso possa essere affrontato a cuor leggero. Piuttosto, nella magistrale lettura dell’ottava Sonata, di alcune pagine da “Romeo e Giulietta” e nello straordinario “bis” della “Suggestion diabolique” di Prokofiev il pianista russo ha dimostrato di avere assorbito completamente la grande tradizione interpretativa di Richter, Gilels e Berman giungendo a una ammirevole sintesi che non ha oggi confronti. E nella stessa bruciante esecuzione di alcuni Studi di Chopin - impressionante il primo e il quarto dell’op.10 - Kissin sembra rievocare i furori giovanili di Richter ma anche di Pollini, in una esaltazione tecnico-espressiva di strabiliante perfezione. Il fatto che l’universo delle Mazurke e ancor di più l’esoterismo della Polonaise-Fantaisie non vengano illustrati da Kissin con la stessa lucidità intellettuale resta per noi il segno di un non ancora raggiunto equilibrio tra l’enorme facilità tecnica e la capacità di dosarne l’impeto ai fini espressivi, traguardo che molto probabilmente verrà raggiunto nel tempo, attraverso quel costante lavoro di approfondimento cui il pianista si sottopone ancora oggi quotidianamente, senza cedere a vuoti divismi.
Verbier Festival 2008
Amadeus, Ottobre 2008
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Recital del pianista Alfred Brendel
Verbier, 25 Luglio 2008
The Classic Voice

Quarantatre concerti in un periodo che va dal 22 luglio al
18 dicembre di quest’anno, spaziando per tutta Europa, da Lisbona a Mosca, da
Edimburgo a Milano. Questo il tour di addio al pubblico che Alfred Brendel ha
progettato attraverso un unico programma solistico che si svolge nei nomi di
Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, ossia l’alfa e l’omega della civiltà
musicale viennese. E con più limitate incursioni nel campo del concerto per
pianoforte e orchestra - K.271 e K.491 di Mozart - accompagnato da personaggi come Thielemann,
Rattle o Mackerras, come lui dediti al ruolo di
‘custodi della musica’.
Il programma dell’unico recital – che abbiamo ascoltato in quasi-anteprima al festival di Verbier il 25 Luglio scorso - non fa una grinza e assomiglia a un testamento dai contorni più che ovvi : lo Haydn e il Mozart ineffabili del Divertimento in fa minore e della Sonata K.533, quella che nel rondò conclusivo presenta un passaggio fugato attraverso il quale ci sembra di ascendere al Cielo; poi il Beethoven ancora ottimista e massimamente cantabile della sonata op.27 n.1. Infine il commiato da tutta la Musica del periodo classico, ossia l’ultima sonata di Schubert. Struggente ai limiti del didascalico il progetto dei bis, con il movimento lento del Concerto Italiano di Bach e l’Improvviso in sol bem.di Schubert. Il concerto ha avuto luogo nella cornice insolita della moderna Eglise (da quest’anno stranamente parata a lutto con grandi drappi neri che nascondono l’altare) non nello spazio di Medran che il Festival di Verbier solitamente riserva ai grandi avvenimenti . E il luogo più raccolto - voluto forse dallo stesso pianista - ci ha ricordato gli ultimi concerti di Richter, spesso ospitati da piccole chiese fuori mano, come a rendere quel rito un evento riservato a pochi fedelissimi.
Certo viene da paragonare la ripetizione implacabile di uno stesso programma per venti concerti con il progetto testamentario portato avanti da Sviatoslav Richter negli ultimi anni di carriera, quando il sommo pianista decise di suonare praticamente tutto il proprio repertorio e aggiungervi pure qualcosa di nuovo : un viaggio attraverso centinaia di pagine musicali per la delizia del pubblico, una serie di programmi già entrati a far parte della storia.
Brendel non si è trovato del tutto a proprio agio nella piccola sala dell’Eglise: una grande platea meglio si addice al commiato di un solista che ha rappresentato un vero punto di riferimento nell’interpretazione dei classici. E anche lo svolgersi del programma ha ricordato agli astanti più l’aspetto “professorale” della figura di Brendel che quello di maturo e piacevole intrattenitore, come il pianista ci era apparso in occasione dei recital da lui tenuti a Milano nel corso delle ultime stagioni. Un bel concerto che riascolteremo probabilmente con maggior piacere nel corso dell’appuntamento di novembre alla Scala.
Il programma dell’unico recital – che abbiamo ascoltato in quasi-anteprima al festival di Verbier il 25 Luglio scorso - non fa una grinza e assomiglia a un testamento dai contorni più che ovvi : lo Haydn e il Mozart ineffabili del Divertimento in fa minore e della Sonata K.533, quella che nel rondò conclusivo presenta un passaggio fugato attraverso il quale ci sembra di ascendere al Cielo; poi il Beethoven ancora ottimista e massimamente cantabile della sonata op.27 n.1. Infine il commiato da tutta la Musica del periodo classico, ossia l’ultima sonata di Schubert. Struggente ai limiti del didascalico il progetto dei bis, con il movimento lento del Concerto Italiano di Bach e l’Improvviso in sol bem.di Schubert. Il concerto ha avuto luogo nella cornice insolita della moderna Eglise (da quest’anno stranamente parata a lutto con grandi drappi neri che nascondono l’altare) non nello spazio di Medran che il Festival di Verbier solitamente riserva ai grandi avvenimenti . E il luogo più raccolto - voluto forse dallo stesso pianista - ci ha ricordato gli ultimi concerti di Richter, spesso ospitati da piccole chiese fuori mano, come a rendere quel rito un evento riservato a pochi fedelissimi.
Certo viene da paragonare la ripetizione implacabile di uno stesso programma per venti concerti con il progetto testamentario portato avanti da Sviatoslav Richter negli ultimi anni di carriera, quando il sommo pianista decise di suonare praticamente tutto il proprio repertorio e aggiungervi pure qualcosa di nuovo : un viaggio attraverso centinaia di pagine musicali per la delizia del pubblico, una serie di programmi già entrati a far parte della storia.
Brendel non si è trovato del tutto a proprio agio nella piccola sala dell’Eglise: una grande platea meglio si addice al commiato di un solista che ha rappresentato un vero punto di riferimento nell’interpretazione dei classici. E anche lo svolgersi del programma ha ricordato agli astanti più l’aspetto “professorale” della figura di Brendel che quello di maturo e piacevole intrattenitore, come il pianista ci era apparso in occasione dei recital da lui tenuti a Milano nel corso delle ultime stagioni. Un bel concerto che riascolteremo probabilmente con maggior piacere nel corso dell’appuntamento di novembre alla Scala.
Recital del pianista Radu Lupu a favore di VIDAS
Milano, Auditorium, 9 Aprile 2008
The Classic Voice n.108

Radu Lupu è oggi uno dei pochissimi pianisti che si
ascoltano ogni volta con grande emozione e che è in grado di “raccontare” la
musica come facevano i Kempff, i Rubinstein, gli Horowitz . Quello della
sensibilità narrativa è un dono che un tempo era tutt’altro che raro, ed era
bello, anche attraverso i dischi, ascoltare una storia che ti veniva riportata
con particolari spesso notevolmente diversi attraverso la sensibilità di
personaggi così carismatici. La stessa Mazurka suonata da Paderewski o da Backhaus
ti arrivava al cuore con la medesima intensità partendo da posizioni dissimili,
contrastanti. Nel suo programma interamente schubertiano dell’altra sera Lupu
ci ha quindi introdotto nel sereno e conviviale ambiente delle danze tedesche,
ha rivissuto con noi le gioie tenerissime e le abissali tristezze racchiuse
negli Improvvisi op.90, ha saputo cogliere le mille sfaccettature strumentali
della grande Sonata in re maggiore con la naturalezza di chi è giunto a un
appuntamento concertistico per instaurare un rapporto privato con ciascuna
persona presente in sala. Certamente Lupu ha anche evocato una grande
tradizione esecutiva schubertiana, quella di Edwin Fischer negli Improvvisi e
quella di Arthur Schnabel nella Sonata e nelle Danze, rinnovandone il ricordo
proprio attraverso un approccio così naturale e confidenziale con il musicista
austriaco. Quale diversità rispetto a tutti coloro che riversano fiumi di note
impersonali sull’ascoltatore con la pretesa di convogliare una lettura
“oggettiva” della musica !
Oggi è forse il solo Alfred Brendel a condividere con Lupu questo rapporto così intimo con il mondo dei classici viennesi, e a ricavare dalla tastiera del pianoforte suoni di purezza ed espressività oramai dimenticati. Non a caso Brendel, presente in sala, si è recato al termine della serata a congratularsi con il collega, che ha regalato al pubblico commosso ancora due brevi pagine schubertiane come messaggio di commiato.
Oggi è forse il solo Alfred Brendel a condividere con Lupu questo rapporto così intimo con il mondo dei classici viennesi, e a ricavare dalla tastiera del pianoforte suoni di purezza ed espressività oramai dimenticati. Non a caso Brendel, presente in sala, si è recato al termine della serata a congratularsi con il collega, che ha regalato al pubblico commosso ancora due brevi pagine schubertiane come messaggio di commiato.
Beethoven - Le sonate per pianoforte, primo ciclo
Pianista Daniel Barenboim
Milano, Teatro alla Scala, Gennaio-Febbraio 2008
The Classic Voice n.106

Cicli e ‘progetti’ (Argerich, Pollini) sembrano oggi
rappresentare degli efficaci contenitori che trasformano i tradizionali recital
in vere e proprie campagne di marketing culturale in linea con la nostra epoca
assetata di grandi eventi mediatici.
Idea non certo nuova, l’esecuzione dell’integrale delle sonate beethoveniane è motivo di vanto dei maggiori interpreti (e purtroppo non solo di quelli) che programmano in sede di concerto o in sede discografica cicli più o meno diluiti nel tempo, da quello sofferto e spalmato su più decenni di un Pollini a quelli più volte ripetuti di Arrau, Brendel, e Ashkenazy (solo per citare gli esempi massimi). E di Daniel Barenboim, che eseguì per la prima volta le ‘32’ negli anni di gioventù, le incise per la EMI quasi quarant’anni fa e ora le sta nuovamente presentando nei centri musicali ‘che contano’, con un seguito di pubblico e un successo straordinari, attraverso una impaginazione che saggiamente non segue l’ordine cronologico di composizione.
Una integrale all’insegna della discontinuità., quella di Barenboim, almeno per quanto riguarda la resa tecnica alla quale ci hanno abituato i pianisti della sua generazione, ma che può contare su delle innegabili caratteristiche di eccellenza che hanno rappresentato da sempre un motivo di fascino e di importanza del Barenboim pianista. Un suono sempre bellissimo, ad esempio, un fraseggio sempre convincente accompagnato da una scelta di tempi piuttosto dilatati (una concezione immutata fin dai tempi della prima incisione discografica di Barenboim). E oggi, come sublimazione dell’attività del Barenboim direttore, una capacità di ‘orchestrazione’, di lettura dello spartito pianistico in termini di differenziazione timbrica interessantissima.
Al contrario di Pollini, Barenboim si trova a proprio agio più nelle sonate del primo periodo, che esegue con una tecnica naturale davvero invidiabile. Quando la scrittura pianistica si fa più complessa, meno ‘naturale’ appunto, le esecuzioni di Barenboim tendono farci rimpiangere la straordinaria immedesimazione del pianista milanese, la sua visione di una architettura complessiva che va a reggere i capolavori estremi, dalla Sonata op.101 in avanti.
Non siamo d’accordo con chi afferma che non si possa pretendere da Barenboim un grado elevato di rifinitura tecnica perché il multiforme musicista è troppo impegnato con la direzione d’orchestra sia nel campo sinfonico che operistico oltre che nell’organizzazione musicale, nelle tournée con i giovani componenti della ‘Divan’ e così via. Barenboim qualche volta dà l’impressione di leggere a prima vista, o comunque di non curarsi più di tanto della chiarezza e della precisione che a tanti suoi colleghi costano ore e ore di fatica alla tastiera. E questo è un particolare sul quale a nostro parere non si può transigere.
Fatte queste premesse, nulla toglie che il valore di questa integrale rimanga elevatissimo, con punte di eccellenza che in questa prima parte del ciclo si sono soprattutto rese evidenti in Sonate come le op.13. l’op. 2 n.3 e l’op.28, quest’ultima resa con un senso inimitabile di poesia attraverso sonorità davvero affascinanti.
Idea non certo nuova, l’esecuzione dell’integrale delle sonate beethoveniane è motivo di vanto dei maggiori interpreti (e purtroppo non solo di quelli) che programmano in sede di concerto o in sede discografica cicli più o meno diluiti nel tempo, da quello sofferto e spalmato su più decenni di un Pollini a quelli più volte ripetuti di Arrau, Brendel, e Ashkenazy (solo per citare gli esempi massimi). E di Daniel Barenboim, che eseguì per la prima volta le ‘32’ negli anni di gioventù, le incise per la EMI quasi quarant’anni fa e ora le sta nuovamente presentando nei centri musicali ‘che contano’, con un seguito di pubblico e un successo straordinari, attraverso una impaginazione che saggiamente non segue l’ordine cronologico di composizione.
Una integrale all’insegna della discontinuità., quella di Barenboim, almeno per quanto riguarda la resa tecnica alla quale ci hanno abituato i pianisti della sua generazione, ma che può contare su delle innegabili caratteristiche di eccellenza che hanno rappresentato da sempre un motivo di fascino e di importanza del Barenboim pianista. Un suono sempre bellissimo, ad esempio, un fraseggio sempre convincente accompagnato da una scelta di tempi piuttosto dilatati (una concezione immutata fin dai tempi della prima incisione discografica di Barenboim). E oggi, come sublimazione dell’attività del Barenboim direttore, una capacità di ‘orchestrazione’, di lettura dello spartito pianistico in termini di differenziazione timbrica interessantissima.
Al contrario di Pollini, Barenboim si trova a proprio agio più nelle sonate del primo periodo, che esegue con una tecnica naturale davvero invidiabile. Quando la scrittura pianistica si fa più complessa, meno ‘naturale’ appunto, le esecuzioni di Barenboim tendono farci rimpiangere la straordinaria immedesimazione del pianista milanese, la sua visione di una architettura complessiva che va a reggere i capolavori estremi, dalla Sonata op.101 in avanti.
Non siamo d’accordo con chi afferma che non si possa pretendere da Barenboim un grado elevato di rifinitura tecnica perché il multiforme musicista è troppo impegnato con la direzione d’orchestra sia nel campo sinfonico che operistico oltre che nell’organizzazione musicale, nelle tournée con i giovani componenti della ‘Divan’ e così via. Barenboim qualche volta dà l’impressione di leggere a prima vista, o comunque di non curarsi più di tanto della chiarezza e della precisione che a tanti suoi colleghi costano ore e ore di fatica alla tastiera. E questo è un particolare sul quale a nostro parere non si può transigere.
Fatte queste premesse, nulla toglie che il valore di questa integrale rimanga elevatissimo, con punte di eccellenza che in questa prima parte del ciclo si sono soprattutto rese evidenti in Sonate come le op.13. l’op. 2 n.3 e l’op.28, quest’ultima resa con un senso inimitabile di poesia attraverso sonorità davvero affascinanti.
Alfano - Cyrano de Bergerac
Milano, Teatro alla Scala, 29 Gennaio 2008
Radio Popolare

Una scelta inconsueta e legata alla
personalità prorompente di Placido Domingo è quella messa in atto dalla Scala
quest’anno nel nome di un’opera raramente eseguita, che il Teatro aveva messo
in scena solamente nel 1954 e che aveva visto la sua prima rappresentazione
all’opera di Roma nel 1936. Franco Alfano, voce di primo piano della musica
italiana durante il fascismo e autore più noto per altri lavori come ‘La
leggenda di Sakuntala’, scelse per motivi tuttora poco chiari un soggetto così
intimista e francese come quello della commedia eroica di Rostand, in completo
disaccordo con le tendenze nazionalistiche dell’arte italiana di quegli anni. Lo
spettacolo odierno è derivato da un allestimento del Metropolitan e del Covent
Garden, e come dicevamo sembra essere fatto apposta per valorizzare le
grandissime doti vocali e interpretative di un grande tenore come Domingo. Va
dato atto ad Alfano di avere messo a punto un lavoro qualitativamente
eccellente dal punto di vista dell’armonia e dell’orchestrazione. Ma si tratta
di un’opera priva di quelle idee melodiche geniali che sono ad esempio tipiche
dell’ultimo Puccini, ed è una musica che deve moltissimo a Debussy e in genere
alla cultura francese di inizio secolo.
Il protagonista assoluto e applauditissimo della serata è stato ovviamente Placido Domingo, che è davvero un miracolo di musicalità e di intelligenza espressiva e che ancora alla sua età è capace di prodezze che nella storia dell’opera vengono solitamente ricordate tirando in causa il nome del mitico Lauri-Volpi, il tenore che Alfano avrebbe voluto protagonista di questo Cyrano all’epoca della prima rappresentazione.
Accanto a Domingo è stata anche applaudita la soprano Sondra Radvanowsky nel ruolo di Roxane e German Villar in quello di Christian. Buona la direzione di Patrick Fournillier mentre del tutto convenzionali erano le scene di Peter Davison che impongono lunghe pause nella suddivisione dell’opera e la regia di Francesca Zambello.
Il protagonista assoluto e applauditissimo della serata è stato ovviamente Placido Domingo, che è davvero un miracolo di musicalità e di intelligenza espressiva e che ancora alla sua età è capace di prodezze che nella storia dell’opera vengono solitamente ricordate tirando in causa il nome del mitico Lauri-Volpi, il tenore che Alfano avrebbe voluto protagonista di questo Cyrano all’epoca della prima rappresentazione.
Accanto a Domingo è stata anche applaudita la soprano Sondra Radvanowsky nel ruolo di Roxane e German Villar in quello di Christian. Buona la direzione di Patrick Fournillier mentre del tutto convenzionali erano le scene di Peter Davison che impongono lunghe pause nella suddivisione dell’opera e la regia di Francesca Zambello.