Recital del pianista Alfred Brendel
Milano, Società del Quartetto, 11 Novembre 2003
The Classic Voice
“Agganciato” dalla Società del Quartetto di Milano con una
specie di esclusiva che ricorda quella ottenuta un tempo dalla stessa Società
nei confronti di Rudolf Serkin, Alfred Brendel si è presentato di nuovo davanti
al pubblico milanese con un programma sempre più rivolto al nucleo della
letteratura pianistica viennese del periodo classico, puntando l’attenzione sia
sul Beethoven e lo Schubert “sperimentale” delle Bagatelle e della incompiuta
Sonata in do maggiore (“Reliquie”) sia sulla più tranquillizzante Sonata op.22
del musicista di Bonn e sulla sempre più moderna, meravigliosa, turchesca Sonata K.331 di Mozart. Un programma non
facile e non sempre di immediata presa sul pubblico, disattento al vertiginoso
girovagare armonico schubertiano e non del tutto convinto (a ragione) del tocco
piuttosto arido del pianista unito al consueto atteggiamento un poco
professorale che non lascia spazio a grandi abbandoni, a confessioni brucianti.
Qui sta la grande differenza con Serkin, interprete altrettanto classico, con
un tocco altrettanto essenziale, ma che aveva la capacità di ricreare anche a
più di 80 anni il miracolo di una prima lettura, l’entusiasmo del giovane
interprete che si butta a capofitto sui testi amati. Proprio le note di una
K.331 suonata da Serkin nello stesso luogo venticinque anni fa mi risuonavano
in mente ascoltando Brendel, pianista che dal proprio maestro Edwin Fischer non
ha certo ereditato la spontanea comunicatività. Brendel non ha del resto dalla
sua il dono della perfezione assoluta e della magia timbrica di un
Michelangeli, che congelava anch’esso l’op.22 di Beethoven ma proiettandola in
un universo sonoro che non lasciava posto a critica alcuna. Dovrebbe forse il
pianista recuperare lo spirito indagatore che aveva contraddistinto i propri
esordi discografici, l’entusiasmo (non le dita!) che lo spingeva a suonare come
nessun altro al mondo le Reminiscences de
Norma o la trascrizione dell’Oberon
di Liszt e che non moltissimi anni fa gli suggeriva una lettura entusiasmante
della Toccata di Busoni. In sintesi,
mi sembra che Brendel voglia a tutti i costi dimostrare che un pianista della
sua taglia e della sua importanza storica non possa far altro che concludere la
propria carriera sulla rilettura dei classici. E’ troppo attendersi da lui un
nuovo ampliamento di orizzonti che la sua competenza, il suo humour, il suo
amore verso tutti gli aspetti della cultura gli permettono sicuramente di
portare a termine?
Festival Spontini a Jesi
Amadeus, Ottobre 2003
Dedicato al clima musicale della Germania durante gli anni (1820-1842) della presenza di Spontini a Berlino alla corte di Federico Guglielmo III di Prussia, il terzo Festival Pergolesi – Spontini di Jesi si è aperto il 23 agosto scorso con un esperimento che sulla carta appariva molto interessante, il ripristino di una partitura scritta dal musicista italiano al suo arrivo nella capitale tedesca e arrivata fino a noi solamente nella veste di spartito per canto e pianoforte. Non si trattava però di limitare il lavoro di restauro alla sola parte musicale : il lavoro originale di Spontini si riferiva a una “Festa teatrale con danze e marce” ispirata a una raccolta di novelle orientali in versi e in prosa di Thomas Moore, pubblicata nel 1817 e divenuta presto popolarissima. Il titolo della raccolta era “Lalla Rookh” (o “Guancia diTulipano”), dal nome della immaginaria Principessa indiana che viene allietata dai racconti del poeta Feramorz durante il lungo viaggio che la porterà sposa al re di Bukharia. La “Festa teatrale”, che prevedeva dunque 4 pezzi strumentali e 2 vocali di Spontini oltre alla narrazione del testo e delle poesie di Moore tradotte in tedesco, doveva coinvolgere in qualità di attori e narratori numerosi personaggi della Corte berlinese, all’interno di un grandioso spettacolo allestito dall’architetto e pittore Schinkel in onore della visita nella capitale del futuro Zar Nicola I, il 27 gennaio del 1821.
Lo spartito giunto fino a noi e conservato a Parigi comunica un’idea monocromatica della musica, nella scarna veste pianistica, ma soprattutto è il testo che correda lo spartito a suggerire soltanto una traccia di quello che dovette essere la successione degli interventi parlati nello spettacolo originale. Ecco allora che all’intervento di Azio Corghi, che ha strumentato e commentato le musiche di Spontini, si è sommato nella ripresa di quest’anno il lavoro di Aldo Busi, che ha reinventato il testo in forma di “lettura scenica” e si è presentato al pubblico in qualità di narratore. Le verosimilmente splendide scenografie di Shinkel sono state per l’occasione sostituite da molto più prosaici “elementi scenici” ideati da Cristian Taraborrelli, in particolare una serie di video elaborati al computer che molto difficilmente si lasciavano inquadrare all’interno dello spirito dello spettacolo. Il Complesso strumentale del Podium Junger Musiker diretto da Christopher Franklin e i solisti di canto hanno eseguito correttamente e con spirito la brillante partitura di Corghi che oltrepassa spesso quella che si può intuire essere l’idea originale di Spontini. Corghi ha operato qui attingendo a “spunti dell’orientalismo manieristico d’origine ottocentesca che si spinge, attraverso la scuola russa, fino a Debussy e Ravel” e sottolineando certi richiami involontariamente anticipatori di famosi luoghi musicali posteriori all’epoca di Spontini. Ma il mattatore della serata avrebbe dovuto essere non certo Corghi o Spontini bensì lo stesso Busi che non ha tanto deluso per la qualità del proprio testo – prontamente pubblicato negli Oscar Mondadori – quanto per la scarsa efficacia narrativa e la sua poco probabile stoffa da uomo di spettacolo, che cerca evidentemente un modello nel molto più esilarante e malizioso sarcasmo di un Paolo Poli. Il pubblico non ha gradito all’unanimità l’operazione che peraltro verrà probabilmente replicata con successo in altri contesti. Resta comunque il problema, per un Festival che dovrebbe almeno per il 50% vertere attorno alla produzione del musicista di Maiolati, di trovare delle musiche spontiniane originali eseguibili con i mezzi e le dimensioni di un teatro come quello di Jesi; impresa non da poco se si pensa che il nome di Spontini resta indissolubilmente legato al modello della grande opera romantica, che già raramente viene affrontata da istituzioni italiane ben più illustri ed economicamente sovvenzionate.
Lo spartito giunto fino a noi e conservato a Parigi comunica un’idea monocromatica della musica, nella scarna veste pianistica, ma soprattutto è il testo che correda lo spartito a suggerire soltanto una traccia di quello che dovette essere la successione degli interventi parlati nello spettacolo originale. Ecco allora che all’intervento di Azio Corghi, che ha strumentato e commentato le musiche di Spontini, si è sommato nella ripresa di quest’anno il lavoro di Aldo Busi, che ha reinventato il testo in forma di “lettura scenica” e si è presentato al pubblico in qualità di narratore. Le verosimilmente splendide scenografie di Shinkel sono state per l’occasione sostituite da molto più prosaici “elementi scenici” ideati da Cristian Taraborrelli, in particolare una serie di video elaborati al computer che molto difficilmente si lasciavano inquadrare all’interno dello spirito dello spettacolo. Il Complesso strumentale del Podium Junger Musiker diretto da Christopher Franklin e i solisti di canto hanno eseguito correttamente e con spirito la brillante partitura di Corghi che oltrepassa spesso quella che si può intuire essere l’idea originale di Spontini. Corghi ha operato qui attingendo a “spunti dell’orientalismo manieristico d’origine ottocentesca che si spinge, attraverso la scuola russa, fino a Debussy e Ravel” e sottolineando certi richiami involontariamente anticipatori di famosi luoghi musicali posteriori all’epoca di Spontini. Ma il mattatore della serata avrebbe dovuto essere non certo Corghi o Spontini bensì lo stesso Busi che non ha tanto deluso per la qualità del proprio testo – prontamente pubblicato negli Oscar Mondadori – quanto per la scarsa efficacia narrativa e la sua poco probabile stoffa da uomo di spettacolo, che cerca evidentemente un modello nel molto più esilarante e malizioso sarcasmo di un Paolo Poli. Il pubblico non ha gradito all’unanimità l’operazione che peraltro verrà probabilmente replicata con successo in altri contesti. Resta comunque il problema, per un Festival che dovrebbe almeno per il 50% vertere attorno alla produzione del musicista di Maiolati, di trovare delle musiche spontiniane originali eseguibili con i mezzi e le dimensioni di un teatro come quello di Jesi; impresa non da poco se si pensa che il nome di Spontini resta indissolubilmente legato al modello della grande opera romantica, che già raramente viene affrontata da istituzioni italiane ben più illustri ed economicamente sovvenzionate.
Festival di Verbier 2003
The Classic Voice
Arrivati alla loro decima edizione, il Festival e
l’Accademia che si tengono nella quiete montana della cittadina svizzera di
Verbier, si sono confermati come un appuntamento che vede la presenza di grandi
artisti riuniti nel suonare spesso insieme in vere e proprie sessioni multiple.
L’accumulazione di grandi nomi, resa possibile dalla carismatica figura di
organizzatore di Martin Engstroem, producer di successo della Deutsche
Grammophon, e la presenza di una entusiasta orchestra di giovani sostenuta dal
contributo dell’UBS, la notissima banca svizzera, hanno portato all’apertura di
quest’anno con una sequenza di tre concerti di grande rilievo che hanno
ottenuto un consenso unanime da un pubblico che mescola giovani artisti a
munifici “sostenitori” e “amici” del Festival. Il concerto del 18 luglio era
rappresentato da un titolo di sicuro grande richiamo, l’Elektra di
Strauss eseguita in forma semi-scenica sotto la direzione del sempre efficiente
James Levine alla testa della “Youth Orchestra” messa a dura prova da
una delle partiture più ricche di suono e di varietà timbriche che possano
essere affrontate da un’orchestra giovanile. La serratissima concertazione di
Levine era in perfetta sintonia con la musicalità degli interpreti principali
tra i quali abbiamo notato innanzitutto il soprano Luana de Vol nel
“title role” affiancata dalla Chrysothemis di Deborah Voigt, la Clitemnestra di
Hanna Schwarz e l’Oreste di René Pape.
La sera seguente era molto attesa l’esibizione di uno dei grandi
pianisti della giovane generazione, il trentenne Evgeny Kissin che ha un
po’ deluso coloro che lo seguono da anni, a causa di una non grande lettura
dell’ultima Sonata di Schubert, lettura che è stata riscattata solamente da una
successiva pirotecnica esecuzione del Mephisto-Walzer e della sesta Rapsodia
Ungherese di Liszt. Si è così confermata la leggenda del Kissin virtuoso al
quale – ahimè – non si è accostata negli anni una più matura modalità di
approccio interpretativo ai classici. Il concerto del 20 luglio riuniva invece
tre artisti di grande richiamo come Maisky, la Chang e Lang
Lang, impegnati rispettivamente nel Concerto per violoncello di Schumann,
in quello per violino di Bloch e nel “terzo” di Rachmaninov. Ovazioni quasi
scontate per tutti e tre i solisti che erano per l’occasione accompagnati da
Levine, con un più sincero plauso indirizzato alla Chang, che non induge certo
a sfoggi inutili di virtuosismo, a favore di una più completa musicalità. Ma il
vero prodigio che ci è capitato di ascoltare in questa apertura di Festival è
il tredicenne e molto “british” clarinettista Julian Bliss che, accompagnato al
pianoforte da Roger Vignoles, ha reso con impagabile humour e con strabiliante
maturità le raffinate pagine di Martinu, Poulenc e Françaix scritte per il suo
strumento.
Concerto della Mahler Chamber Orchestra
Vladimir Ashkenazy, solita e direttore
Milano, Società del Quartetto, 21 aprile 2002
The Classic Voice
I tre più grandi pianisti nati attorno al 1940 (Ashkenazy,
la Argerich e Pollini) in tempi diversi hanno curiosamente deviato dalla loro
carriera di solista, dedicandosi alla direzione d’orchestra o quasi
esclusivamente alla musica da camera. Alla data odierna, gli ammiratori della Argerich e di Ashkenazy
disperano oramai di ascoltare un loro recital pianistico, mentre Pollini, dopo
la parentesi di direttore, ha saggiamente deciso di dedicarsi interamente alla
tastiera. Non sappiamo come mai Vladimir Ashkenazy, uno dei più grandi talenti
pianistici dei nostri tempi, dopo avere entusiasmato le platee di tutto il
mondo e avere inciso una gran parte della letteratura per il suo strumento, si
è arroccato su una posizione ibrida di solista-direttore. Sta di fatto che non
sempre i suoi concerti convincono sotto l’aspetto critico, pur riscuotendo un
enorme successo di pubblico.
E’avvenuto anche la sera del 21 aprile scorso alla Società del Quartetto di Milano, dove il musicista russo, accompagnato dalla buona orchestra da camera derivata dalla Mahler Jugendorchester, si è esibito in un programma che già di per sé era abbastanza contradditorio.
La serata si apriva con il Concerto in la maggiore K.414 di Mozart, che notoriamente fa parte di una triade che poteva essere eseguita anche da un ensemble ridottissimo, proseguiva con la Grande Fuga di Beethoven in versione orchestrale, che nulla aggiunge (anzi toglie) alla versione quartettistica, e terminava con il Concerto in re minore K.466 eseguito facendo attenzione ad ingigantirne il suono, quasi si trattasse di una parafrasi del Don Giovanni.
Ashkenazy suona evidentemente molto bene, ma suscitava una certa pena in quel suo affannarsi alla tastiera e contemporaneamente dare gli attacchi all’orchestra. L’esecuzione della Grande Fuga, oltre a non convincere per i motivi già accennati, era condotta con una impassibile rigidità metronomica (probabilmente irrinunciabile se si vuole governare un’intera orchestra d’archi in questo saggio difficilissimo del contrappunto beethoveniano) che ci faceva rimpiangere i delicati rapporti di tensione e distensione delle più celebri esecuzioni quartettistiche – in primis quella del Quartetto Italiano. Enorme l’entusiasmo del pubblico, con una replica dell’ultimo tempo del K.466 come bis.
E’avvenuto anche la sera del 21 aprile scorso alla Società del Quartetto di Milano, dove il musicista russo, accompagnato dalla buona orchestra da camera derivata dalla Mahler Jugendorchester, si è esibito in un programma che già di per sé era abbastanza contradditorio.
La serata si apriva con il Concerto in la maggiore K.414 di Mozart, che notoriamente fa parte di una triade che poteva essere eseguita anche da un ensemble ridottissimo, proseguiva con la Grande Fuga di Beethoven in versione orchestrale, che nulla aggiunge (anzi toglie) alla versione quartettistica, e terminava con il Concerto in re minore K.466 eseguito facendo attenzione ad ingigantirne il suono, quasi si trattasse di una parafrasi del Don Giovanni.
Ashkenazy suona evidentemente molto bene, ma suscitava una certa pena in quel suo affannarsi alla tastiera e contemporaneamente dare gli attacchi all’orchestra. L’esecuzione della Grande Fuga, oltre a non convincere per i motivi già accennati, era condotta con una impassibile rigidità metronomica (probabilmente irrinunciabile se si vuole governare un’intera orchestra d’archi in questo saggio difficilissimo del contrappunto beethoveniano) che ci faceva rimpiangere i delicati rapporti di tensione e distensione delle più celebri esecuzioni quartettistiche – in primis quella del Quartetto Italiano. Enorme l’entusiasmo del pubblico, con una replica dell’ultimo tempo del K.466 come bis.
Recital del pianista Krystian Zimerman
Milano, Teatro dal Verme, 5 Giugno 2001
Radio Popolare
Nel suo rinnovato splendore, il Teatro da Verme di Milano ha
ospitato come primo recital strumentale un evento di eccezione che ha permesso
di valutare anche il propagarsi delle sonorità del pianoforte lungo tutto
l’arco della sala. Si trattava di un atteso concerto di Krystian Zymerman, il
pianista polacco già vincitore nel 1975 del prestigioso Concorso Chopin e
considerato uno dei massimi interpreti dei giorni nostri. Il concerto faceva
parte della serie di eventi straordinari organizzati dalla “Società del
Quartetto” e proprio al “Quartetto” il nome di Zymerman è stato legato diverse
volte per le sue apparizioni milanesi, a partire dalla prima, nel 1977, in cui
sbalordì pubblico e critica con una straordinaria lettura della seconda Sonata
di Brahms. Cinque anni più tardi, la Deutsche Grammophon aveva affidato al
l’ancora giovane Zymerman l’integrale delle tre Sonate brahmsiane per la
propria monumentale “Brahms Edition” e nel recital al Dal Verme il ciclo si è
virtualmente chiuso proprio con una matura, appassionata, commovente
interpretazione della terza sonata, quell’opera 5 tanto amata ed eseguita da
Rubinstein, che di Zymerman è stato un po’ il nume tutelare.
Il concerto si era aperto ancora nel nome di Brahms con una meditatissima esecuzione dei Klavierstücke op.118, e presentava come spartiacque la Sonata op.110 di Beethoven. L’approccio di Zymerman alla tastiera è più solido che mai, con un gioco pianistico che lascia stupefatti per il connubio di forza, intensità, smalto virtuosistico, potenza del suono, che lasciano spesso spazio a momenti di abbandono commosso, tradotti in tempi più dilatati e in sonorità più contenute ma sempre affascinanti. Momenti culminanti sono stati sicuramente l’ultimo dei pezzi op.118, la fuga della Sonata in la bemolle di Beethoven, tutta la terza sonata brahmsiana con il suo succedersi di grandiose perorazioni, di momenti di intenso lirismo, di concitata passione. Il pubblico ha capito a quale enorme sforzo di concentrazione fosse stato sottoposto il pianista, che alla fine appariva stremato, e non ha voluto giustamente insistere nella richiesta di bis, inutile compendio a una serata già indimenticabile.
Il concerto si era aperto ancora nel nome di Brahms con una meditatissima esecuzione dei Klavierstücke op.118, e presentava come spartiacque la Sonata op.110 di Beethoven. L’approccio di Zymerman alla tastiera è più solido che mai, con un gioco pianistico che lascia stupefatti per il connubio di forza, intensità, smalto virtuosistico, potenza del suono, che lasciano spesso spazio a momenti di abbandono commosso, tradotti in tempi più dilatati e in sonorità più contenute ma sempre affascinanti. Momenti culminanti sono stati sicuramente l’ultimo dei pezzi op.118, la fuga della Sonata in la bemolle di Beethoven, tutta la terza sonata brahmsiana con il suo succedersi di grandiose perorazioni, di momenti di intenso lirismo, di concitata passione. Il pubblico ha capito a quale enorme sforzo di concentrazione fosse stato sottoposto il pianista, che alla fine appariva stremato, e non ha voluto giustamente insistere nella richiesta di bis, inutile compendio a una serata già indimenticabile.