Recital del pianista Alfred Brendel
Milano, Società del Quartetto, 27 Novembre 2007
The Classic Voice n.104

Alfred Brendel, che ha preso il posto del mai troppo
compianto Rudolf Serkin come ‘artista esclusivo’ della Società del Quartetto di
Milano, ha presentato l’altra sera in una sala stracolma un programma sempre
più dimostrativo delle sue preferenze di repertorio, concentrate sul cammino
che caratterizza il classicismo viennese attraverso i nomi di Haydn, Mozart,
Beethoven e Schubert.
Se da Serkin egli eredità quella capacità di riscoprire ogni sera l’incanto, lo stupore del suonare un repertorio così famoso come se fosse la prima volta, se del maestro Edwin Fischer riesce ad evocare l’eloquio e la disarmante semplicità nel porgere la frase musicale, Brendel ha elaborato negli anni uno stile personalissimo nel quale trova posto una qualità di suono magnifica (che un tempo gli era preclusa) e una gamma dinamica che va da un ‘pianissimo’ sempre perfettamente udibile in una grande sala a un ‘forte’ che non trascende mai di intensità. Tra questi estremi decisamente contenuti, Brendel si esprime con un fraseggio a dir poco sublime, che l’altra sera ha sottolineato gli interrogativi e i turbamenti delle Sonate in do minore di Haydn e di Mozart, le effusioni dolcissime degli Improvvisi nn.1,2,3 di Schubert, la trascendentale poesia della Sonata op.110 di Beethoven. E’ impossibile rendere pianisticamente così intenso il recitativo che precede il primo ‘Arioso’ della ‘110’ con quella nota ribattuta ‘quasi clavicordo’ che richiede all’interprete un’arte del tocco sovrumana, così come nessuno aveva mai sottolineato come fa Brendel la disperata frammentarietà delle domande senza risposta che popolano il finale della Sonata di Mozart. Una grande lezione di stile ma soprattutto un’analisi profondissima del linguaggio e dei significati di questi grandi capolavori.
Se da Serkin egli eredità quella capacità di riscoprire ogni sera l’incanto, lo stupore del suonare un repertorio così famoso come se fosse la prima volta, se del maestro Edwin Fischer riesce ad evocare l’eloquio e la disarmante semplicità nel porgere la frase musicale, Brendel ha elaborato negli anni uno stile personalissimo nel quale trova posto una qualità di suono magnifica (che un tempo gli era preclusa) e una gamma dinamica che va da un ‘pianissimo’ sempre perfettamente udibile in una grande sala a un ‘forte’ che non trascende mai di intensità. Tra questi estremi decisamente contenuti, Brendel si esprime con un fraseggio a dir poco sublime, che l’altra sera ha sottolineato gli interrogativi e i turbamenti delle Sonate in do minore di Haydn e di Mozart, le effusioni dolcissime degli Improvvisi nn.1,2,3 di Schubert, la trascendentale poesia della Sonata op.110 di Beethoven. E’ impossibile rendere pianisticamente così intenso il recitativo che precede il primo ‘Arioso’ della ‘110’ con quella nota ribattuta ‘quasi clavicordo’ che richiede all’interprete un’arte del tocco sovrumana, così come nessuno aveva mai sottolineato come fa Brendel la disperata frammentarietà delle domande senza risposta che popolano il finale della Sonata di Mozart. Una grande lezione di stile ma soprattutto un’analisi profondissima del linguaggio e dei significati di questi grandi capolavori.
Festival di Verbier 2007
Martha Argerich & Friends
The Classic Voice

Il ritorno di Martha Argerich al Festival di Verbier e il
naturale impianto del festival stesso, che prevede la partecipazione congiunta
di molti artisti famosi all’interno di un’unica serata, con la proposta di un
repertorio cameristico che ricorda gli anni d’oro del Festival di Prades, ha fatto
sì che il 27 luglio scorso si sia svolto un concerto per molti versi
memorabile. Nel ‘Trio degli spiriti’ op.70 n.1 di Beethoven accanto alla
Argerich sedevano il violinista Julian Rachlin e il cellista Mischa Maisky, poi
Martha ha suonato la pagina a lei più cara – le Kinderszenen di Schumann – con un senso irripetibile di nostalgia
per l’infanzia perduta. Accanto a lei si è persino ridimensionato il pianismo
frastornante di un Lang Lang, con il quale la Argerch ha eseguito in
successione il Rondò in la maggiore D.951 di Schubert e Ma mère l’Oye di Ravel. Nella seconda parte del lunghissimo
concerto altri due eventi eccezionali, la Sonata ‘Arpeggione’ di Schubert nella
versione per viola, con la presenza di Yuri Bashmet e la prima Sonata per
violino e pianoforte di Bartok con René Capuçon : nel primo caso una perfetta
resa dell’elegiaco lirismo dell’ultimo Schubert, nel secondo una dimostrazione
della straordinaria versatilità e abilità della Argerich, le cui risorse infinite
mettono in grado di digerire in brevissimo tempo una parte pianistica assai
complessa come quella della sonata di Bartok, come se fosse stata da sempre nel
proprio repertorio. La serata veniva conclusa dall’apparizione di una artista
particolarmente amata dalla Argerich, Gabriela Montero, che assieme alla
collega ha eseguito le Variazioni su un tema di Paganini di Lutoslawsky per 2
pianoforti e ha improvvisato al termine sul tema di ‘Happy Birthday’, come
conviene alle festose serate alle quali ci ha abituato da anni il Festival di
Verbier.
Recital del pianista Arcadi Volodos
Recital del pianista Murray Perahia
Milano, Società del Quartetto, Febbraio 2007
The Classic Voice

In rapida successione si sono presentati alla Società del
Quartetto di Milano due pianisti di livello internazionale, molto dissimili
l’uno dall’altro ma con una comune predisposizione e attenzione verso
l’ottenimento di un suono particolarmente affascinante, che ricorda da vicino
quello di certi grandi strumentisti d’un tempo.
Il trentenne Arcadi Volodos, russo di discendenza greca ed educato alla ferrea disciplina delle scuole musicali del suo paese natale, si è conquistato in questi ultimi anni la fama di grande virtuoso presso platee sempre più vaste e attente ai lati più esteriori dell’arte dell’interpretazione musicale. Le sue esecuzioni di alcuni arrangiamenti delle rapsodie ungheresi di Liszt o di altre pagine meno conosciute del repertorio, messe a punto esplicitamente in base agli esempi che avevano reso famoso Horowitz negli anni ’40 dimostrano una agilità manuale impressionante, priva però di quella tensione interna che caratterizzava in maniera inconfondibile il modo di suonare del grande predecessore. Per fortuna un altro Volodos va maturando nel corso del tempo e nel recital del Quartetto il pianista russo si è limitato all’esuberanza strumentale solamente verso la fine del programma e nei bis. In precedenza avevamo invece ammirato la finitura e l’espressività dell’interpretazione di una pagina di Clementi bellissima quanto trascurata – la Sonata in fa diesis minore – che era stata non a caso oggetto di attenzione da parte dello stesso Horowitz. Ancora lo Schubert intimista di un paio di momenti musicali e il Brahms dei Klavierstucke op.118 sono stati resi con estrema adesione al testo e bellezza di suono.
Se Volodos è riuscito a smuovere l’entusiasmo del solitamente impettito pubblico del Quartetto, a maggior ragione vasto consenso ha ricevuto una settimana dopo il recital di Murray Perahia, un pianista certo più “educato” ma non per questo meno interessante. Che Perahia sia oramai da diverso tempo giustamente considerato uno dei “top” a livello mondiale è dato per scontato e i suoi recital che ho potuto ascoltare negli ultimi anni sono sempre stati di livello molto alto. Tuttavia vi è qualcosa che impedisce per il momento di assicurare a Perahia un posto nella categoria degli interpreti che lasciano il segno nella storia. L’altra sera al Quartetto si sono ascoltate cose molto belle ma non sempre il controllo tecnico del pianista segue di pari passo il suo coinvolgimento emotivo nelle pagine che va eseguendo. Lo si è notato soprattutto nella terza Ballata e nello studio op.10 n.4 di Chopin, mentre in apertura più convincente ci è parso Perahia in una lettura granitica della seconda Partita di Bach e nell’autorevole proposta del Beethoven della Sonata op.28.
Resta poi da chiedersi quale disegno culturale vi sia alla base delle scelte del pianista, che fin dalle sue prime apparizioni gira attorno al più celebre repertorio che va da Bach a Brahms, con sporadiche puntate a Bartok, senza mai approfondire uno o l’altro autore e limitandosi ad accostamenti antologici che non vanno al di là della piacevole impaginazione di un recital.
Il trentenne Arcadi Volodos, russo di discendenza greca ed educato alla ferrea disciplina delle scuole musicali del suo paese natale, si è conquistato in questi ultimi anni la fama di grande virtuoso presso platee sempre più vaste e attente ai lati più esteriori dell’arte dell’interpretazione musicale. Le sue esecuzioni di alcuni arrangiamenti delle rapsodie ungheresi di Liszt o di altre pagine meno conosciute del repertorio, messe a punto esplicitamente in base agli esempi che avevano reso famoso Horowitz negli anni ’40 dimostrano una agilità manuale impressionante, priva però di quella tensione interna che caratterizzava in maniera inconfondibile il modo di suonare del grande predecessore. Per fortuna un altro Volodos va maturando nel corso del tempo e nel recital del Quartetto il pianista russo si è limitato all’esuberanza strumentale solamente verso la fine del programma e nei bis. In precedenza avevamo invece ammirato la finitura e l’espressività dell’interpretazione di una pagina di Clementi bellissima quanto trascurata – la Sonata in fa diesis minore – che era stata non a caso oggetto di attenzione da parte dello stesso Horowitz. Ancora lo Schubert intimista di un paio di momenti musicali e il Brahms dei Klavierstucke op.118 sono stati resi con estrema adesione al testo e bellezza di suono.
Se Volodos è riuscito a smuovere l’entusiasmo del solitamente impettito pubblico del Quartetto, a maggior ragione vasto consenso ha ricevuto una settimana dopo il recital di Murray Perahia, un pianista certo più “educato” ma non per questo meno interessante. Che Perahia sia oramai da diverso tempo giustamente considerato uno dei “top” a livello mondiale è dato per scontato e i suoi recital che ho potuto ascoltare negli ultimi anni sono sempre stati di livello molto alto. Tuttavia vi è qualcosa che impedisce per il momento di assicurare a Perahia un posto nella categoria degli interpreti che lasciano il segno nella storia. L’altra sera al Quartetto si sono ascoltate cose molto belle ma non sempre il controllo tecnico del pianista segue di pari passo il suo coinvolgimento emotivo nelle pagine che va eseguendo. Lo si è notato soprattutto nella terza Ballata e nello studio op.10 n.4 di Chopin, mentre in apertura più convincente ci è parso Perahia in una lettura granitica della seconda Partita di Bach e nell’autorevole proposta del Beethoven della Sonata op.28.
Resta poi da chiedersi quale disegno culturale vi sia alla base delle scelte del pianista, che fin dalle sue prime apparizioni gira attorno al più celebre repertorio che va da Bach a Brahms, con sporadiche puntate a Bartok, senza mai approfondire uno o l’altro autore e limitandosi ad accostamenti antologici che non vanno al di là della piacevole impaginazione di un recital.