Recital del pianista Alfred Brendel
Milano, Teatro alla Scala, 3 Novembre 1999
MUSICA - Dicembre 1999

Un prestigioso ciclo di “Grandi pianisti alla Scala” che
riunisce il (ristretto) Gotha di nomi divenuti venerabili dopo la scomparsa
delle generazioni dei grandissimi interpreti nati prima degli anni ’20, ha
debuttato il 3 novembre con il decano di un gruppo che prevede la presenza,
oltre a Brendel, di Schiff, Pollini, Ashkenazy e Perahia.
Ciclo davvero appetitoso, perché Brendel e Ashkenazy si ascoltano sempre di meno e lo stesso Pollini è alquanto parco di apparizioni in pubblico, al contrario dei più generosi Perahia e Schiff.
Brendel, nato nel 1931, è diventato dunque la figura di riferimento dal punto di vista dell’anzianità di carriera; un primato che è causa unicamente di un certo vuoto generazionale che si era storicamente determinato quando nel periodo di circa quindici anni (pressappoco tra la nascita di Richter e quella di Brendel) il mondo non aveva dato alla luce nessun pianista di grandissima statura. Lo scoprire oggi questo ruolo di Brendel nel panorama del concertismo è un poco inquietante, sia perché ci fa constatare quanto sia passato il tempo dagli anni in cui si acquistavano a poco prezzo le sue prime incisioni integrali pubblicate dalla Vox, sia perché l’ascoltatore – critico o meno di professione – era ancora intento a studiare la prodigiosa carriera “in progress” del pianista moravo nell’ambito delle sue incisioni dedicate essenzialmente al classicismo viennese, non a considerarlo come un anziano patriarca che va oramai per le sale di tutto il mondo a ricordare al pubblico una passata grandezza di interprete. In questo senso Brendel ci sembra assomigliare molto a Rudolf Serkin, che fino all’ultimo comunicava in concerto quella inesauribile, eccezionale atteggiamento di sempre nuova scoperta dei testi, senza mai un’ombra di routine, di senso scontato delle interpretazioni che accompagnava ad esempio le pure indimenticabili apparizioni di un Rubinstein.
Del resto l’unico elemento che denuncia la non più giovane età di Brendel è stato l’altra sera un inaspettato momento di difficoltà nella realizzazione di alcune parti della Sonata in la maggiore di Schubert, elemento di incertezza tecnica che non avevamo mai colto prima in lui, che ovviamente non ha per nulla scalfito l’eccezionale qualità del recital e che si è avvertito soprattutto a causa dell’approccio eminentemente analitico di Brendel, un approccio che richiede anche all’ascoltatore una estrema concentrazione ai contenuti più intimi della musica e che quindi rende ipersensibili ad ogni involontaria modifica del percorso testuale.
Bellissimo recital, in ogni caso, nel quale Brendel ha legato in maniera non sempre chiarissima ai profani alcuni momenti chiave del classicismo viennese, escludendo volutamente il nome di Beethoven e richiamando l’attenzione – ebbene sì, ce n’è ancora bisogno alle soglie del 2000 – di pubblico, critici, colleghi (era in sala anche Pollini) sul nome di Haydn. Brendel coglie del compositore austriaco anche tutti i lati meno formali ed accademici, svelando i momenti di sottile umorismo, i cambiamenti repentini di umore, l’utilizzo anticonvenzionale, modernissimo delle tonalità e dei passaggi tra modo maggiore e minore. Alla Sonata n.34 in mi minore scelta in apertura di programma, Brendel ha aggiunto anche come splendido bis il finale della Sonata in si minore.
Il punto di accumulazione lirico del concerto era rappresentato sicuramente dalla Sonata in la maggiore D.959 di Schubert, che Brendel rende con un andamento ipnotico, quasi di sogno, svelando abissi espressivi inimmaginabili. Il pianista è particolarmente legato a questa Sonata, che ha eseguito molto spesso durante i suoi recital, e noi siamo particolarmente legati al ricordo del suo modo di intendere l’”Allegretto” finale, con la scelta di eseguire la “Coda” rispettando il tempo moderato del tema del ritornello, contrariamente a quanto fanno tutti i grandi interpreti di questo capolavoro, Serkin compreso.
La seconda parte del recital era tutta dedicata al nome di Mozart: Fantasia in do minore K.475, Rondò in la minore K.511 e Sonata in la maggiore K.331 sono stati eseguiti senza soluzione di continuità (il pianista ha richiesto esplicitamente di non applaudire tra un pezzo e l’altro) indicando, se ce n’era bisogno, l’unitarietà profonda del pensiero mozartiano e consegnando all’uditorio soprattutto una indimenticabile lettura del Rondò K.511, reso con un senso di infinito dolore.
Grandissimo successo e ultimo commiato, dopo il bis haydniano, con il sesto Momento Musicale di Schubert.
Ciclo davvero appetitoso, perché Brendel e Ashkenazy si ascoltano sempre di meno e lo stesso Pollini è alquanto parco di apparizioni in pubblico, al contrario dei più generosi Perahia e Schiff.
Brendel, nato nel 1931, è diventato dunque la figura di riferimento dal punto di vista dell’anzianità di carriera; un primato che è causa unicamente di un certo vuoto generazionale che si era storicamente determinato quando nel periodo di circa quindici anni (pressappoco tra la nascita di Richter e quella di Brendel) il mondo non aveva dato alla luce nessun pianista di grandissima statura. Lo scoprire oggi questo ruolo di Brendel nel panorama del concertismo è un poco inquietante, sia perché ci fa constatare quanto sia passato il tempo dagli anni in cui si acquistavano a poco prezzo le sue prime incisioni integrali pubblicate dalla Vox, sia perché l’ascoltatore – critico o meno di professione – era ancora intento a studiare la prodigiosa carriera “in progress” del pianista moravo nell’ambito delle sue incisioni dedicate essenzialmente al classicismo viennese, non a considerarlo come un anziano patriarca che va oramai per le sale di tutto il mondo a ricordare al pubblico una passata grandezza di interprete. In questo senso Brendel ci sembra assomigliare molto a Rudolf Serkin, che fino all’ultimo comunicava in concerto quella inesauribile, eccezionale atteggiamento di sempre nuova scoperta dei testi, senza mai un’ombra di routine, di senso scontato delle interpretazioni che accompagnava ad esempio le pure indimenticabili apparizioni di un Rubinstein.
Del resto l’unico elemento che denuncia la non più giovane età di Brendel è stato l’altra sera un inaspettato momento di difficoltà nella realizzazione di alcune parti della Sonata in la maggiore di Schubert, elemento di incertezza tecnica che non avevamo mai colto prima in lui, che ovviamente non ha per nulla scalfito l’eccezionale qualità del recital e che si è avvertito soprattutto a causa dell’approccio eminentemente analitico di Brendel, un approccio che richiede anche all’ascoltatore una estrema concentrazione ai contenuti più intimi della musica e che quindi rende ipersensibili ad ogni involontaria modifica del percorso testuale.
Bellissimo recital, in ogni caso, nel quale Brendel ha legato in maniera non sempre chiarissima ai profani alcuni momenti chiave del classicismo viennese, escludendo volutamente il nome di Beethoven e richiamando l’attenzione – ebbene sì, ce n’è ancora bisogno alle soglie del 2000 – di pubblico, critici, colleghi (era in sala anche Pollini) sul nome di Haydn. Brendel coglie del compositore austriaco anche tutti i lati meno formali ed accademici, svelando i momenti di sottile umorismo, i cambiamenti repentini di umore, l’utilizzo anticonvenzionale, modernissimo delle tonalità e dei passaggi tra modo maggiore e minore. Alla Sonata n.34 in mi minore scelta in apertura di programma, Brendel ha aggiunto anche come splendido bis il finale della Sonata in si minore.
Il punto di accumulazione lirico del concerto era rappresentato sicuramente dalla Sonata in la maggiore D.959 di Schubert, che Brendel rende con un andamento ipnotico, quasi di sogno, svelando abissi espressivi inimmaginabili. Il pianista è particolarmente legato a questa Sonata, che ha eseguito molto spesso durante i suoi recital, e noi siamo particolarmente legati al ricordo del suo modo di intendere l’”Allegretto” finale, con la scelta di eseguire la “Coda” rispettando il tempo moderato del tema del ritornello, contrariamente a quanto fanno tutti i grandi interpreti di questo capolavoro, Serkin compreso.
La seconda parte del recital era tutta dedicata al nome di Mozart: Fantasia in do minore K.475, Rondò in la minore K.511 e Sonata in la maggiore K.331 sono stati eseguiti senza soluzione di continuità (il pianista ha richiesto esplicitamente di non applaudire tra un pezzo e l’altro) indicando, se ce n’era bisogno, l’unitarietà profonda del pensiero mozartiano e consegnando all’uditorio soprattutto una indimenticabile lettura del Rondò K.511, reso con un senso di infinito dolore.
Grandissimo successo e ultimo commiato, dopo il bis haydniano, con il sesto Momento Musicale di Schubert.
Concerto dell'Orchestra del Gewandhaus di Lipsia
Direttore Herbert Blomstedt
Soprano Pamela Coburn
Milano, Società del Quartetto, 19 Ottobre 1999
MUSICA - Novembre 1999

L’aver affidato a un complesso di grande prestigio
istituzionale come il Gewandhaus zu
Leipzig l’apertura della propria Stagione 1999-2000 testimonia ancora una
volta come la Società del Quartetto di Milano voglia al tempo stesso
riaffermare un ruolo privilegiato, quasi elitario all’interno del panorama
concertistico cittadino e sottolineare una scelta programmatica che oramai da
alcuni anni governa la cadenza settimanale dei suoi appuntamenti con il
pubblico. Vi è un che di sottilmente machiavellico nella trasformazione che
questa importante Società si è autoimposta negli ultimi anni per cancellare una
fastidiosa e ingombrante fama di inavvicinabilità, di estrema chiusura a un
rinnovamento di pubblico e di repertorio. In realtà “il Quartetto” aveva potuto
governare indisturbato la vita concertistica milanese almeno fino alla metà
degli anni ’70 per il semplice fatto che era l’unica realtà bene organizzata e
funzionante in un mondo musicale cittadino che aveva come unico concorrente il
Teatro alla Scala. Quest’ultimo poteva a propria volta permettersi il lusso di
puntare tutte le sue carte sul repertorio lirico e sinfonico, con sporadiche
eccezioni in campo cameristico. Considero personalmente la Stagione 1975-76
come ultimo periodo di potere assoluto del “Quartetto" a Milano, un
periodo in cui si potevano ascoltare ancora e a breve distanza – il martedì, inderogabilmente
alle 21 e 15 precise – artisti come Kempff e Milstein e si guardava con
emozione al traguardo del 20 Gennaio come alla data di quello che doveva
rimanere l’ultimo, magico recital di Arthur Rubinstein nella città. Il
Quartetto, nate poco dopo altre istituzioni meno blasonate ma altrettanto
efficaci nelle loro proposte artistiche, conobbe poi un periodo di declino : la
non accettazione di qualsiasi forma di contributo governativo – per Statuto e
per scelta orgogliosa che avrebbe significato la concessione dell’apertura
degli abbonamenti al pubblico, allora ancora gelosamente tramandati di
generazione in generazione – significò anche la rinuncia alla rincorsa dei
sempre più alti cachet pretesi dagli artisti di prima categoria. Scomparsi poi
gli ultimi personaggi che al “Quartetto” erano rimasti fedelissimi (ad esempio
Rudolf Serkin), non restava altro che mettere in discussione la struttura
stessa della Società e i meccanismi che fino ad allora l’avevano governata.
Geniale fu in un certo senso la creazione di una Stagione fuori abbonamento (“I
Concerti del Quartetto”) che risolveva il problema degli onerosi costi di
gestione per l’invito di grandi complessi sinfonici anche con il ricorso ad
opportuni gemellaggi con il Teatro alla Scala. La trasformazione fu lenta ma
diede i suoi frutti : impoveritasi la stagione ufficiale della Società (non in
quanto a contenuti strettamente musicali ma in quanto a prestigio dei nomi
invitati), cadde anche la barriera – quasi un muro – della tradizionale chiusura delle forme di abbonamento. Oggi
sembra che la Società abbia finalmente riconquistato una sua fisionomia più
moderna, con un saggio bilanciamento tra eventi ordinari e straordinari e con
il ricorso a una programmazione che segue un percorso culturale preciso e che
presuppone da parte degli ascoltatori non più una scelta di comodo
(“l’abbonamento del martedì”) ma la volontà di seguire un itinerario musicale
decisamente impegnativo.
Il concerto d’apertura di questa stagione vuole sottolineare il raggiungimento di un equilibrio raggiunto faticosamente ma tenacemente, e il lungo preambolo che ho premesso all’evento musicale in sé giustifica la cronaca di questa svolta importante. Quasi in secondo piano si colloca quindi la pure importantissima performance dell’Orchestra del Gewandhaus – che non fa certo rimpiangere altre compagini nostrane – e la preziosa impaginazione del programma: una dedica a Strauss nella prima parte (“Don Juan” e gli ineffabili 4 ultimi lieder, interpretati con grande sensibilità da Pamela Coburn) e la quarta di Ciaikowsky come pirotecnico finale. Herbert Blomstedt, direttore stabile della compagine, oscilla tra atteggiamenti di prezioso understatement (certe sottili, nascoste raffinatezze in Strauss) e una certa naïveté nel repertorio russo. Grande successo di pubblico.
Il concerto d’apertura di questa stagione vuole sottolineare il raggiungimento di un equilibrio raggiunto faticosamente ma tenacemente, e il lungo preambolo che ho premesso all’evento musicale in sé giustifica la cronaca di questa svolta importante. Quasi in secondo piano si colloca quindi la pure importantissima performance dell’Orchestra del Gewandhaus – che non fa certo rimpiangere altre compagini nostrane – e la preziosa impaginazione del programma: una dedica a Strauss nella prima parte (“Don Juan” e gli ineffabili 4 ultimi lieder, interpretati con grande sensibilità da Pamela Coburn) e la quarta di Ciaikowsky come pirotecnico finale. Herbert Blomstedt, direttore stabile della compagine, oscilla tra atteggiamenti di prezioso understatement (certe sottili, nascoste raffinatezze in Strauss) e una certa naïveté nel repertorio russo. Grande successo di pubblico.
Recital del pianista Ivo Pogorelich
Milano, Serate Musicali, 10 Giugno 1999
MUSICA - Luglio 1999

Chiusa la fase, durata quasi vent’anni, delle proposte
sempre nuove e in un certo senso sconvolgenti – perché sconvolgenti, nel bene e
nel male, erano state le sue letture della Sonata
in si minore di Liszt, dei Quadri
di Musorgsky, degli Studi Sinfonici
di Schumann e via dicendo – Ivo Pogorelich si presenta quest’anno in giro per
il mondo con un programma monografico dedicato a Chopin, lo stesso Chopin che
ci aveva fatto ascoltare nel periodo immediatamente successivo al famoso
scandalo del Concorso di Varsavia. Tutto ci aspettavamo l’altra sera tranne che
di sentire delle brutte copie di interpretazioni che ricordavamo sì come
eccentriche ma comunque sorrette da un raffinatissimo gusto timbrico,
provocatorie ma non banali, a loro modo colme di eleganza. Il pianismo di
Pogorelich si è fatto aggressivo, con una pericolosa tendenza a sconfinare in
una percussività non più controllata dal punto di vista timbrico, gli scarti
dinamici (ad esempio nella Polacca op.40 n.2) sono diventati inspiegabili alla
luce di qualsiasi possibile lettura dello spartito, ma soprattutto il fraseggio
si è ulteriormente polverizzato, con lunghi, estenuanti incisi e frasi sovente
spezzate, quasi che quello che un tempo era un fine dicitore fosse stato oggi
divorato da una tosse stizzosa, da un singhiozzo irrefrenabile. E’rimasto
qualcosa del Pogorelich di una volta in quelle pagine dove la scansione metrica
del testo non lascia molto spazio alla divagazione (il finale della Sonata
op.58, certe parti del secondo Scherzo …) ma nulla giustifica oggi certe
irritanti stranezze come il rallentamento del ritmo della Marcia funebre,
inizialmente attaccata a velocità sostenuta, o la lentezza esasperante del
Largo della già citata opera 58, solo per fare alcuni esempi da una cronaca che
potrebbe essere puntualizzata in pagine e pagine di osservazioni. Tanto più
strane e contraddittorie ci sono parse certe scelte effettuate da Pogorelich in
termini di fraseggio quanto più ci venivano in mente le confessioni da lui
rilasciate la sera prima nel corso di una intervista, dove si era dichiarato
erede di una scuola pianistica (quale??) che aveva condensato in sé il
virtuosismo lisztiano con l’arte di applicare il belcanto alla tastiera. Ma quale cantante di ieri o di oggi sarebbe
capace di tenere i fiati insopportabilmente lunghi di certi luoghi chopiniani
nella visione di Pogorelich?
Il recital è durato più di due ore, durante le quali il pubblico ha dato evidenti segni di stanchezza e ha tributato alla fine al pianista degli applausi non certo trionfali. Il pianista jugoslavo, oramai naturalizzato inglese, si prepara l’anno prossimo a presentarci Rachmaninov in dosi sostanziose (il secondo Concerto, i Momenti Musicali …) : potremo considerare il processo involutivo di quest’anno come una fase passeggera di un artista che deve ancora trovare una sua coerenza intellettuale e consegnare alla Musica e al pubblico solamente la parte migliore di sé?
Il recital è durato più di due ore, durante le quali il pubblico ha dato evidenti segni di stanchezza e ha tributato alla fine al pianista degli applausi non certo trionfali. Il pianista jugoslavo, oramai naturalizzato inglese, si prepara l’anno prossimo a presentarci Rachmaninov in dosi sostanziose (il secondo Concerto, i Momenti Musicali …) : potremo considerare il processo involutivo di quest’anno come una fase passeggera di un artista che deve ancora trovare una sua coerenza intellettuale e consegnare alla Musica e al pubblico solamente la parte migliore di sé?
Recital del pianista Maurizio Zanini
Società del Quartetto, 4 Maggio 1999
MUSICA - Giugno 1999

Dimostrando tra le altre cose di essere uno dei pochi
pianisti della propria generazione capace di proporre un programma fatto di
scelte raffinate e di accostamenti inusuali, il milanese Maurizio Zanini ha
tenuto un recital applauditissimo per la Società del Quartetto affrontando due
caposaldi della letteratura novecentesca – la Sonata di Stravinskij e la
seconda Sonata di Prokofiev – che incorniciavano altrettanti momenti del
romanticismo musicale tedesco. Laureatosi al “Premio Ciani” nell’86, Zanini ha
percorso una brillante carriera sempre all’insegna delle scelte coerenti di
impegno intellettuale verso la Musica, evitando le trappole di una troppo
facile consacrazione delle proprie naturali capacità virtuosistiche attraverso
un repertorio di comodo. Passando dall’algida oggettività della Sonata di
Stravinskij al patetismo dichiarato della quarta e ultima Sonata di Weber (da
quanti anni non veniva riproposta!), e ancora dalla grazia leggera della Sonata
op.106 di Mendelssohn alla rapinosa consequenzialità di Prokofiev, il pianista
ha dimostrato ancora una volta il proprio dominio nei confronti di linguaggi e
atteggiamenti così diversi eppure legati da un filo storico comune. Tutto
questo senza rinunciare a una propria cifra stilistica inconfondibile, fatta
spesso di scarti dinamici molto marcati, di estrema cura del suono (quasi
maniacale, alla Michelangeli), di scelte controcorrente (l’”Allegro ma non
troppo” della seconda di Prokofiev condotto a una velocità molto moderata, in
netta opposizione a una tradizione dura a morire). Weber e Mendelssohn restano
dei punti fermi nel cammino interpretativo di Zanini, che ha eseguito più volte
il ciclo completo delle Sonate del primo e l’integrale di Sonate, Variazioni e
Fantasie del secondo: le prove che ci ha dato in passato nei confronti dei nomi
di Schubert, Chopin e Schumann completano certo la sua visione del romanticismo
pianistico, così come sappiamo che egli padroneggia il linguaggio del novecento
anche grazie alla sua militanza nei nomi di Boulez e Webern. Elemento di
sorpresa è stato invece un bis dedicato ad Albeniz – “Granada” – che è stato
risolto intelligentemente puntando sull’elemento decorativo invece che sull’ostentazione
del lato folkloristico. Un secondo “encore” mendelssohniano – il Preludio in si
minore dall’op.104 – ha concluso felicemente una serata da non dimenticare.
Strauss - Die Frau ohne Schatten
Milano, Teatro alla Scala, 19 aprile 1999
Radio Popolare

E’andata in scena l’altra sera
alla Scala la ripresa de La donna
senz’ombra di Richard Strauss, capolavoro che era stato presentato nel
marzo dl 1986 a
quasi cinquant’anni di distanza dalla prima esecuzione milanese in lingua
italiana, come si usava a quei tempi. Nell’86 direttore era Wolfgang Sawallisch,
straussiano convinto anche se non ancora considerato interprete storico a
livello dei Krauss, dei Karajan e dei Boehm. Oggi l’impegnativo compito passa a
Giuseppe Sinopoli, il cui contributo si apprezza soprattutto per il lavoro di
scavo, la propensione a scrutare l’insight psicologico dell’opera (e qui ce n’è
davvero bisogno) oltre che per l’analisi puramente musicale rivolta a dipanare
e rendere al meglio la complicatissima trama sonora.
Strauss si getta qui a capofitto come sua abitudine nell’illustrazione lussureggiante di un libretto altrettanto squisito e raffinatissimo che parla di mondi magici, di un oriente da favola. L’ermetico racconto di Hofmannstahl mette a confronto il mondo degli spiriti e quello terreno dove due coppie (Imperatore e Imperatrice e il Tintore Barak con la propria moglie) sono nei guai perché - per motivi diversi - a tutte e due le donne manca la facoltà di concepire figli (l’assenza dell’ombra appunto per l’Imperatrice). Punto di eccellenza di questo spettacolo scaligero è rappresentato dalla regia, le scene e i costumi di Ponnelle, qui ripresi da Jutta Gleue, che con una semplicità di mezzi incredibile dà subito la tinta giusta a un’opera altrimenti quasi irrappresentabile. Piattaforme laccate di rosso non solo illustrano essenzialmente i due mondi – quello degli spiriti e quello umano – ma danno immediatamente quel colore “giapponese” che da solo evoca le atmosfere orientali proprie del soggetto. Una grande luna sulla sfondo si alterna a un sole che a volte abbaglia lo spettatore e insieme i due elementi danno luogo a mirabili effetti di eclissi nei punti più drammatici dello svolgimento della vicenda.
Con Sinopoli ha collaborato una buona compagnia di canto, almeno per quanto possa offrire il mercato in termini di cantanti straussiani – con un particolare riguardo per la tintora di Luana de Vol e il Barak di Alan Titus. Grandissimo successo di pubblico in una Scala non certo stracolma per un’opera molto difficile da seguire senza il riferimento di un “libretto elettronico”.
Strauss si getta qui a capofitto come sua abitudine nell’illustrazione lussureggiante di un libretto altrettanto squisito e raffinatissimo che parla di mondi magici, di un oriente da favola. L’ermetico racconto di Hofmannstahl mette a confronto il mondo degli spiriti e quello terreno dove due coppie (Imperatore e Imperatrice e il Tintore Barak con la propria moglie) sono nei guai perché - per motivi diversi - a tutte e due le donne manca la facoltà di concepire figli (l’assenza dell’ombra appunto per l’Imperatrice). Punto di eccellenza di questo spettacolo scaligero è rappresentato dalla regia, le scene e i costumi di Ponnelle, qui ripresi da Jutta Gleue, che con una semplicità di mezzi incredibile dà subito la tinta giusta a un’opera altrimenti quasi irrappresentabile. Piattaforme laccate di rosso non solo illustrano essenzialmente i due mondi – quello degli spiriti e quello umano – ma danno immediatamente quel colore “giapponese” che da solo evoca le atmosfere orientali proprie del soggetto. Una grande luna sulla sfondo si alterna a un sole che a volte abbaglia lo spettatore e insieme i due elementi danno luogo a mirabili effetti di eclissi nei punti più drammatici dello svolgimento della vicenda.
Con Sinopoli ha collaborato una buona compagnia di canto, almeno per quanto possa offrire il mercato in termini di cantanti straussiani – con un particolare riguardo per la tintora di Luana de Vol e il Barak di Alan Titus. Grandissimo successo di pubblico in una Scala non certo stracolma per un’opera molto difficile da seguire senza il riferimento di un “libretto elettronico”.